Uno dei temi più trattati nella narrativa, nonché nel cinema e oggi nella serialità, è la dualità. È affascinante pensare a una doppia personalità. Ognuno di noi, che ne sia consapevole o meno, porta dentro di sé una bestia, un lato oscuro: un aspetto della natura umana che affascina e al contempo spaventa.
È però complesso creare un personaggio dalla doppia personalità, si rischia di diventare banali, oppure di eccedere nel dramma e nella brutalità, creando così non più un personaggio duale, ma soltanto una personalità contrastata fino all’inverosimile, oggetto di sbalzi d’umore così repentini da risultare artefatti, persino grotteschi.
In fondo oggi, come per ogni cosa, si tende a credere di sapere tutto e di essere in grado di fare tutto, e senza fatica alcuna. Si mischia ogni cosa in un calderone di conoscenza spicciola, si sminuisce il valore di qualsiasi dottrina, usurpando persino i nomi, utilizzandoli a proprio piacimento e deformandone il senso.
Borderline! Oggi va tanto di moda questo termine, lo si usa senza nemmeno conoscerne il senso; forse perché fa figo, forse proprio a causa di pessimi film e scadenti serie tv che fanno passare ogni eccesso come un disturbo della personalità. Si arrivare persino ad attribuire al disturbo borderline di personalità quelli che sono i tratti del disturbo dissociativo dell’identità.
Questo per dire quanto sia difficile creare un personaggio davvero disturbato, oggi più che mai. Si cade in mille stereotipi. Si creano solo macchiette, personaggi gonfiati fino all’inverosimile.
Uno degli esempi lampanti di personalità disturbata è Billy Milligan, violento criminale statunitense reso celebre a tutti grazie ai film The Crowded Room e Split.

Parlo di Milligan perché lui era appunto affetto dal disturbo dissociativo dell’identità. Per farla breve in Milligan coesistevano ventitré personalità diverse fra loro, e per lui ognuna era reale. Nonostante ciò lui stesso, e queste sue dissociazioni, non sfociavano sempre in eccessi plateali, anzi, alcune delle sue personalità erano del tutto ordinarie, quiete.
Dunque, descrivere una personalità duale, una dissociazione dell’Io, non comporta dover creare un contrasto devastante fra i due aspetti del personaggio, anzi, la convivenza fra l’uomo e la bestia è talmente sottile da avvertirla appena, e ciò è ancora più inquietante, perché avvertiamo che in un tale personaggio c’è qualcosa di celato, un aspetto tremendo perennemente in agguato e che, proprio perché mai palesato, risulta temibile al pari di una tigre pronta a balzare all’improvviso da un nascondiglio per aggredirci.
Riuscire a creare un personaggio simile comporta due importantissimi aspetti in un lettore o in uno spettatore: l’empatia con il personaggio e una continua tensione; tensione che si gonfia in noi proprio perché il narratore (o lo sceneggiatore) riesce a farci affezionare al suddetto personaggio facendoci quasi dimenticare la sua mostruosità, ma al contempo sappiamo che la bestia c’è, un nulla ci fa pensare che possa balzare fuori e devastare tutto.
Questa riflessione mi ha fatto pensare a Fausto Gaudio, protagonista del bellissimo libro Non vedrò mai Calcutta, edito da Mondadori nel 2001 e scritto dal bravissimo Francesco Costa.
Costa non ha di certo bisogno di presentazioni, visto il suo vasto curriculum, ma, purtroppo, spesso si ignorano meravigliosi autori italiani che non amano fare i pagliacci nei talk show: è il caso di Francesco Costa, grandissimo e raffinatissimo scrittore e sceneggiatore napoletano, classe 1946.

Sono davvero innumerevoli i libri scritti da Francesco Costa: La volpe a tre zampe, Baldini&Castoldi, 1996; L’imbroglio nel lenzuolo, Baldini&Castoldi, 1997; Angelica nello specchio e
Caterina dei briganti, entrambi usciti per Mondadori Ragazzi nel 1998, e sempre nella stessa collana ha pubblicato Il materasso delle streghe, L’oca di legno, Napoleone e l’apprendista mago, nel 2000, e L’impero di sabbia nel 2001, per poi pubblicare nello stesso anno, sempre per Mondadori, ma non nella narrativa per ragazzi, appunto il romanzo Non vedrò mai Calcutta. Ha inoltre pubblicato i romanzi Se piango, picchiami, Marsilio, 2004; una riedizione di La volpe a tre zampe, uscita nel 2005 per Rizzoli Bur; Il dovere dell’ospitalità, Rizzoli, 2006; Presto ti sveglierai, Salani, 2008; L’imbroglio nel lenzuolo, Salani, 2010; Orrore Vesuviano, Bompiani, 2015; Dottor Neanderthal – Il colore morto della mezzanotte, Cento Autori, 2018. Come se non bastasse ha pubblicato altri sei romanzi per Touring Junior, nonché quattro raccolte di racconti per La Palma Edizioni Associate, Dino Audino Editore, Biblioteca del Vascello e Iemme edizioni.
Per il cinema e per la tv ha firmato le sceneggiature di Nel più alto dei cieli; sei episodi della serie tv Eurocops; Segno di fuoco (soggettista e sceneggiatore); Blastfighter (soggettista); Ostinato destino; Gli assassini vanno in coppia; Così fan tutte, (sceneggiatore); La volpe a tre zampe (autore del romanzo); Niente Storie (soggettista e sceneggiatore); L’imbroglio nel lenzuolo (autore del romanzo); Una piccola sorpresa (soggettista e sceneggiatore); Una nobile causa (soggettista e sceneggiatore).
Insomma, sono davvero infiniti i prestigiosi lavori artistici svolti da Francesco. Non posso che essere fiero di averlo avuto come maestro di sceneggiatura e di avere la sua amicizia.
Il romanzo di cui sto per parlarvi ha come protagonista un personaggio davvero inquietante, e la sua forza, il suo dramma, diventa gigantesco proprio grazie all’abilità di Francesco: Fausto Gaudio non cade mai in eccessi plateali, spesso ci inquieta proprio perché è un uomo ordinario, talmente pacato e spesso sensibile da suscitarci empatia; eppure in lui c’è qualcosa che non va, lo avvertiamo da subito: un aspetto che ci terrorizza e ci tiene costantemente avvolti dalla tensione.
Ma vediamolo questo personaggio.
“Devo salvarmi! Devo salvarmi!”
È il suo unico pensiero, gli lampeggia nel buio della scatola cranica, tenue, intermittente, minaccioso come una di quelle luci rosse che annunciano un’esplosione. Nel cervello che s’affatica e stenta, neanche a frugarci con cura, trova altro. Solo quest’ammissione di panico, e Dio sa quanto gli piacerebbe scovarci qualcosa di meglio, un senso di speranza o magari, perché no, il ricordo di una barzelletta ben raccontata. Niente da fare, la sua attività mentale è bloccata tutta in quel segnale d’allarme.
“Devo salvarmi! Devo salvarmi!”
Non è che la paura, però, sia proprio tale da impedirgli altre riflessioni, no, no, perché dentro di lui, anzi, si sveglia un altro se stesso che, sentendolo ghiacciato dalla testa ai piedi, si prende una certa distanza, forse per sfotticchiarlo, e gli sussurra in tono fesso “Stai tremando”, come se avesse fatto chissà quale scoperta. È sempre stato dentro di lui, quello lì, ma si tratta purtroppo di un tipo impassibile, Fausto non sa come chiamarlo, ma lo conosce da anni, è un altro se stesso che non si scompone mai, beato lui, perché è di quel genere lì, è uno che prende tutto come viene. Vive acquattato nel suo cervello da chissà quanto tempo, forse da sempre, ma non per questo sembra in grado di calmarlo.
Gabriella dorme a bocca aperta in mezzo al letto, in un rovinio di coperte e lenzuola, mentre Fausto riempie di abiti una valigia verde, di quelle cui sputano, all’occorrenza, un comodo paio di rotelle. Sta attento a non far rumore, quanto vorrebbe potersi trasformare in un insetto, ma di quelli che non ronzano, e intanto raccoglie dal fondo dell’armadio una marea di cravatte di seta. Gli sgusciano tra le dita come un groviglio di serpi, offrono i loro riflessi alla luce che filtra avara dalle imposte come farina gialla, e deve bastargli quel filo di chiarore per muoversi in giro senza pestare una ciabatta o urtare lo spigolo di un mobile.
Una fuga in piena regola, di quelle che si vedono nei film, con il terrore di essere scoperto e tutto quanto, eh sì, a volte non ci si può inventare niente di meglio che scappare…
Ecco la scatola con i ritagli di giornale, ingialliti e unti, roba da vomitare, e Fausto si chiede se non sia il caso di lasciarli qui, nel cassetto del comò, ma sa già che deve portarseli dietro, non avrebbe senso mollarli a Gabriella, perché non raccontano un pezzo della vita di lei, ma della sua. Eh sì… parlano di quel lui, quei vecchi articoli, un tempo è stato un’autentica celebrità, come lo avevano soprannominato i giornalisti? “Il piccolo mostro dai capelli rossi”, e non è che si fossero sprecati un granché, avrebbero potuto escogitare pure qualcosa di più originale. D’accordo, portiamoli via, e la valigia inghiotte obbediente la vecchia scatola impolverata.

Il romanzo inizia così. Da subito il gesto di Fausto ci sembra strano; e quel suo: Devo salvarmi!
Deve salvarsi da cosa?
Con semplicità, senza eccessi melodrammatici, Francesco ci mostra da subito l’inquietudine di Fausto, e lo fa senza svelarci perché sta male, da cosa vuole fuggire, da cosa vuole salvarsi. Sappiamo solo che questo personaggio ci appare immediatamente atipico. Sospettiamo sia pericoloso e quasi ne abbiamo la conferma quando, verso la fine, ricorda il proprio nomignolo: Il piccolo mostro dai capelli rossi.
Qui scoppia subito un profondo sospetto: cosa ha fatto? Questo ci chiediamo. Eppure la mitezza di Fausto, il suo apparirci come una vittima, ci ha reso empatici con lui sin da subito.
Possibile che sia davvero un mostro?
Questa sarà la domanda inconscia che ci porteremo durante tutta la lettura. Il desiderio di salvarsi che alberga in Fausto ci porterà a seguirlo, e a farlo parteggiando per lui, dimenticando ciò che abbiamo scoperto di lui: è un assassino, anzi, peggio, ha ucciso sua madre e suo padre quando era solo un ragazzino.
Ciononostante ci appare lui la vittima, ci sembra un buono, non un mostro; ma sappiamo che ha ucciso, temiamo possa rifarlo, attendiamo con ansia che il mostro esca fuori, aspettandocelo quasi e implorando che non avvenga. Vogliamo che Fausto si salvi, nonostante abbia ucciso sua madre e suo padre.
“Devo salvarmi! Devo salvarmi!”
Ecco il treno per Napoli, già gremito d’anime, il vociare è insostenibile, ma elegantemente tirato a lucido, tutto strisce verdi e grigie, ma che bisogno ha di fuggire più a Sud, in nome di Dio, se a Roma ha già provato la consolazione d’esser divenuto invisibile, che è il suo più prepotente desiderio, altro non chiede che di seppellirsi in un angolo e farsi dimenticare, ed è quello il solo passo sincero della lettera scritta a Gabriella?
No, dice a se stesso, di motivi per filarsela ne ha più d’uno, perché se l’essere invisibile comporta qualche vantaggio, di cui sente in questo momento di non poter fare a meno, è difficile goderne se dormi accanto a una che non parla d’altro che di visibilità, di rendersi visibile, ed è la parola che ha sentito più spesso in questi cinque mesi trascorsi a Roma, perché tutti, ma proprio tutti, muoiono dalla voglia di farsi notare, di catturare in un modo qualsiasi l’attenzione altrui, e Gabriella gli ha dato del pazzo perché lui ha rifiutato d’apparire in almeno sei trasmissioni televisive, in cui qualche finta bionda, una delle tante che si alternano sui teleschermi d’Italia, gli avrebbe chiesto di rievocare la sua tragedia, ma lui non ha rifiutato per superbia, è che proprio non riesce a capire questa voglia di mettersi a nudo, di farsi divorare dagli altri, lui che desidera solo il silenzio, e quando finalmente posa, ansante, il piede sinistro sul predellino della vettura 6 in cui ha prenotato il posto 14, gli viene quasi da piangere per il sollievo. Lì è al sicuro, Gabriella non può certo immaginare che lui intenda raggiungere Napoli e pensa magari che sia ammattito al punto da aver deciso di tornare in Lombardia.
Si fa largo con la sua valigia tra militari stravaccati in giro e signore più voluminose di quanto sia giusto, il corridoio è stretto da morire, per trovare il suo posto quando una voce seccata scivola giù da un altoparlante per riversarsi in centinaia di orecchie: «Il signor Fausto Gaudio è pregato di recarsi all’ufficio informazioni…».
Lui vorrebbe tapparsi le orecchie per non sentire, e intanto pesta il piede a un sacerdote, giovane e dalla pelle nera, che non bestemmia solo perché educato al più rigido autocontrollo. Non è sorpreso, neanche un po’, doveva aspettarselo che quella disgraziata corresse dritto dritto alla polizia, a strillare ai quattro venti che è stata piantata, che ha amato pazzamente un ingrato, e così i timpani di migliaia di persone vibrano al suo nome, c’è perfino chi leva gli occhi all’altoparlante, «Il signor Fausto Gaudio è pregato…», e questo Gabriella non doveva farglielo, perché sa perfettamente che lui lo odia, il suo nome, lo odia a morte perché Fausto Gaudio non è un nome, ma una presa in giro, una pernacchia, considerando il secchio di spazzatura che è stata la sua vita, e sarebbe più appropriato per lui chiamarsi Infausto Dolore, precisamente, Gabriella avrebbe dovuto avere più rispetto per lui, e un moto di rabbia gli fa stringere i pugni, intanto che un verso di Ovidio gli soffia a tradimento nel cervello, “Per quello che fai, ti odio mentre il tuo volto implora amore…”.
Implora amore, la sciagurata, e per ottenerlo, sarebbe disposta a farlo ammanettare dai carabinieri.

Anche qui, mentre Fausto fugge, prendiamo le sue parti. Anzi, arriviamo persino a giustificarlo. Perché Fausto è un pover’uomo che fugge da una donna che non ama e da cui non è amato, un disperato che scappa da una vita che non lo soddisfa, solo un uomo che non è mai stato amato, neppure dalla famiglia che ha ucciso.
Questo aspetto, prima che ce ne rendiamo conto, non solo ci porta a giustificarlo, ma a dargli ragione. Sì, è Fausto la vittima! Eppure l’altro sé è sempre in agguato, lo sappiamo, temiamo che Fausto possa uccidere di nuovo.
Tutto è dietro le sue spalle, e gli occhi gli si chiudono, ha appena il tempo di vedere il poliziotto che si alza per fumare una sigaretta in corridoio. Le tre suore, inghiottite le arance, sono passate a demolire un pacco di biscotti, le ingorde, e ora stanno ruminando con aria pensosa, ma ecco che il sonno arriva pietoso a togliere importanza a tutto, coprendogli la testa con un panno scuro, speriamo solo di non russare troppo forte…
Chissà quanti minuti sono trascorsi, non lo sa, ma quando apre gli occhi, sente il cuore fare i salti per una strana, ingiustificabile contentezza. Il poliziotto è sparito, forse è andato in bagno, e le monache non hanno ancora digerito arance e biscotti che già si affannano a sbucciare certe banane giganti, sono davvero di buon appetito, e la mente gli sforna tutt’a un tratto un pensiero caldo caldo, voglio che la vita sia fatta di morbida crema. Che accidenti vorrà dire questa scemenza lui lo ignora, ma è abituato alle bizzarre emulsioni del suo cervello e la cosa curiosa è che le considera con un certo rispetto, perché se non ha difficoltà a ritenersi un deficiente e forse anche un mostro, come gli altri lo hanno benevolmente definito, sente di avere in testa qualcosa, un movimento, c’è un altro Fausto dentro di lui, quello che sa tutto di tutto e si mantiene sempre calmo, e lui lo ascolta con estrema attenzione perché lo sente più autorevole di un totem, e lo sa che quel Fausto non può essere contento di dover convivere con un assassino, aveva tutti i numeri per aspirare a una vita più degna e si ritrova a far da balia a un criminale, ma allora dove diavolo si trovava al momento del delitto e perché non gli ha impedito di sparare, però quello che conta è che gli viene spesso in aiuto e se ne esce, volente o nolente, con osservazioni giuste da strappargli un applauso.
“Hai paura”, dice l’altro Fausto e sa quel che dice, non c’è nessuno che lo conosca come lui, “hai paura della gente, del mondo, di tutto, e per questo sei sempre stato un bagno di sudore, il che mi rende la vita irrespirabile, scusa se te lo rinfaccio, e se davvero vuoi che l’esistenza sappia un po’ più di vaniglia, comincia ad attrezzarti, trova un rimedio…”

In questo estratto la nostra simpatia per Fausto cresce a dismisura. L’assassino ci sembra un bambino fragile, tenerissimo nel suo desiderare una vita di morbida crema. Eppure sappiamo ancora che è un assassino, uno che da ragazzino ha ucciso i propri genitori, ma non riusciamo a detestarlo, non riusciamo ad attribuirgli una colpa: vogliamo convincersi che sia tutto da imputare all’altro Fausto e vorremmo scacciarlo via; invece, come già intravisto precedentemente, adesso abbiamo la certezza che il vero Fausto è l’assassino e l’altro Fausto è quella che potremmo definire “la parte buona”. Eppure se il Fausto assassino ci appare dolce, fragile, il Fausto “buono” si mostra odioso, maleducato, presuntuoso.
Chi è la vera bestia? Chi è il vero mostro?
Altro aspetto interessante, presente sin dall’inizio del romanzo, è la narrazione dettagliata, spesso piena persino di giudizi e di pause ossessive. Ciò succede perché siamo sempre, costantemente nel pensiero di Fausto, e questo modo quasi innocente e curioso in cui vede tutto ci coinvolge, ci rende intimi con lui.
Noi tutti vogliamo senza dubbio che Fausto si salvi. Eppure è un mostruoso assassino. E con noi tutti sembrano legarsi a lui, dalla signora Teresa, la vecchia donna che gli fitta la stanza a Napoli, alla vivace bambina Elisa, fino a suo padre, l’affascinante, disinvolto e ricco Bruno.
«Chi sono quei due signori?» chiede Teresa Saporito con la voce ben modulata, da cantante, che vibra in modo davvero gradevole.
Fausto batte con forza le palpebre, due o tre volte, ed è più che smarrito. Un’onda di sgomento lo sommerge, forse traballa un po’ sulle gambe. Ma allora li vede anche lei?
No, no, la donna si riferisce alla cornice a libretto che lui sta aprendo sul ripiano dello scrittoio, e neanche gli tremano le mani, dopo averla tirata fuori dalla valigia, sua madre sorride nella fotografia di destra, suo padre serra le labbra in quella di sinistra, ma si può sapere quanti minuti sono passati? Fausto sente il sudore bagnargli la schiena. Teresa Saporito, accanto a lui, si sta tastando la pettinatura con le unghie laccate e il barbiere Federico si è seduto sul letto. Davanti alla porta aperta sul balcone non frusciano più divise militari o frivoli abiti rosa, è passato, è passato, è stata un’allucinazione, o quello che sia, i morti sono tornati dai morti e i vivi recitano l’eterno copione dei convenevoli, così Fausto sorride alla sua padrona di casa: «Questi sono mio padre e mia madre…».
«Oh, ma che bella donna…» si scioglie in cerimonie lei. «E papà era militare?»
«Sì» risponde Fausto e si morde le labbra, che cos’altro può dirle? «Sì… era ufficiale nell’esercito e si chiamava Felice, il nome di mia madre era Regina…»
L’ennesima presa in giro, l’estremo tocco a un destino di beffa, in quella famiglia sciagurata solo nomi festosi e di buon augurio, suo padre si chiamava Felice Gaudio, e Fausto non ricorda come fosse il viso di suo padre quando sorrideva, perché è un po’ difficile ricordare il sorriso di chi non hai mai visto sorridere, e lei che di regale non aveva nulla, poveretta, si chiamava regina.
E poco più avanti…
Regina e Felice Gaudio lo guardano dalle loro foto, e a nulla serve, per sfuggire l’espressione un po’ attonita dei loro volti, ritrarsi nell’angolo più lontano della stanza, di fianco alla porta che dà sul balcone, sono perfettamente visibili anche da lì, lei ha un’ombra di sorriso, lui sembra ancora più accigliato…
I giornali di vent’anni fa riportavano un dettaglio da tutti ritenuto agghiacciante: il piccolo mostro dai capelli rossi aveva risposto a chi gli chiedeva perché li avesse uccisi: «Volevo vendere un po’ il mondo…».
Qui non si nota tanto una personalità delirante in Fausto (il pezzo parte, come si intuisce, dopo che lui ha avuto una visione), quanto il suo aver difficoltà a trovarsi nel mondo.
La cosa ironica, per quanto drammatica, è come la signora Teresa lo tratti bene, pur avendolo appena conosciuto, inconsapevole di chi sia davvero Fausto, mentre lui quasi non sa come comportarsi: di fronte al bene, di fronte alla gentilezza, Fausto agisce come un goffo bambino.
Ma un altro aspetto di Fausto che crea un ulteriore ribaltamento è quando mente a Teresa. È ovvio che menta, è quello che ci si aspetta: ma è quello che ci si aspetterebbe da uno come Fausto?
Adesso sembra freddo, calcolatore, l’altro Fausto: quello che dovrebbe proteggerlo.
Un’azione ponderata o semplice paura?
Chi è veramente Fausto Gaudio? Quest’uomo taciturno, quasi timido, all’apparenza mite e inutile che riesce a conquistare tutti i personaggi in questo bellissimo libro.
Loro, come noi, sono dalla sua parte. Fausto è un assassino, eppure siamo tutti con lui, anzi, innanzi alla freddezza dei suoi genitori continuiamo a giustificare il suo efferato gesto. Fausto in fondo voleva solo ciò che desiderano tutti: essere amato.

“Le costava tanto darmi un bacio?” pensa al risveglio. “Uno, almeno uno in quattrodici anni?”
E si ritrova sempre allo stesso punto, ogni giorno che Dio manda in terra, una fame d’amore che lo consuma e l’occhio fisso al ritratto di sua madre, povera idiota, mai che le abbia visto addosso un abito come si deve, qualcosa che le andasse a pennello, no, o erano troppo larghi o la strizzavano come una salsiccia, e aveva il coraggio di comportarsi come se non avesse più niente da imparare, ma oggi non gli va di rimuginarci sopra. Sono stati la sua porta d’accesso a questo schifo di mondo, Regina e Felice Gaudio, e non è che ne abbiano mai avvertito la responsabilità, per esempio avrebbero potuto spiegargli come si fa a campare senza struggersi d’infelicità, ma forse non lo sapevano neppure loro, e in ogni caso a che serve ripetersi che sarebbe stato meglio avere come buttafuori due tipi un tantino più espansivi?
«Non pensarci!» diceva suor Erminia, «non pensarci!» gli ripete l’altro Fausto, controllato e positivo come al solito, e lui non ci pensa, mettiamoci un punto, e non ci piange sopra, alla fine che importa se le vite degli altri sono state più felici della mia?
Le fotografie di Teresa Saporito si gonfiano dentro un cassetto, l’una sull’altra, e raccontano di giorni d’estasi, passeggiate e sorrisi, lei era bellissima, capelli a onde e seno fiorente, con quella blusa a pois ricorda la Loren, qui si appoggia al tronco di una palma e qui è con un bel fusto, uno con i baffetti, forse un fidanzato, chissà, e qui c’è un giovanotto con i capelli biondissimi, quasi bianchi, con una giacca militare tutta sdrucita, forse siamo nel dopoguerra, e mentre studia ogni istantanea con una punta d’invidia, però l’incanto di quel tempo lontano è tale da farlo sorridere senza malizia, una vocetta risuona alle sue spalle facendolo sobbalzare.
«Teresa ha detto che mi devi portare al bosco di Capodimonte.»
Non lo avrà di certo detto con quel tono di comando, si augura Fausto nel voltarsi con un sorrisetto affettato, e incrocia lo sguardo di Elisa perché è di lei che, ovviamente, si tratta. È in piedi sulla soglia del saloncino, stavolta senza pattini, e lo guarda con aria di sfida: «Che stai facendo? Guardi le foto di Teresa?».
Che fastidio questa breve contrazione alla bocca dello stomaco, non sia mai che la pupa vada a raccontare quel che ha visto, come la prenderebbe la sua padrona di casa se sapesse che lui fruga nei suoi cassetti, e allora le sorride a tutta bocca e dice: «Ma non dovresti essere a scuola?».
«L’hanno chiusa» fa Elisa. «Ci sono le zoccole.»
Il giorno in cui i ratti capiranno quanto siamo fessi, pensa Fausto sull’onda traditrice di un sarcasmo autolesivo, sarà un gran brutto giorno per noi, e chiede in tono vivace: «Dov’è questo bosco di Capodimonte?».
«Lo so io» risponde lei ed è chiaro che lo ritiene un suo vassallo.

Elisa è un personaggio meraviglioso, e il rapporto instaurato fra lei e Fausto è tenero ma anche comico, dato il carattere vispo della ragazzina. Eppure ogni volta che ripensiamo a ciò che ha fatto Fausto temiamo il peggio, anche solo a livello inconscio.
E se Fausto si scatenasse ancora una volta? E se accadesse proprio con la piccola Elisa?
Questo personaggio tiene continuamente sospeso il nostro pensiero, e lo fa senza far nulla: gli basta ciò che ha fatto.
Eppure, come dall’inizio di questo estratto, in una parte di noi continuiamo a giustificarlo.
Se solo gli avesse dato un bacio!
E speriamo che con Teresa, con la piccola Elisa e con la nuova famiglia allargata che troverà avanti, riuscirà finalmente a vivere l’amore che tanto desidera.
Ma se Elisa è la compagna di avventure di Fausto, colui che risveglia in lui il vero, profondo desiderio di una vita diversa, alta, è Bruno, l’affascinante papà di Elisa con cui Fausto instaura uno strano rapporto, quasi morboso.
Fausto accosta il naso alla vetrina, intravede il soffitto basso e il bancone su cui troneggia la cassa, gli scaffali pieni di scatole di rullini, in fondo c’è una scaletta che porta al piano di sopra, forse alla camera oscura, è una tana in cui imbucarsi, una delle migliaia di piccole tane che compongono questa tana gigante che è Napoli, e già favoleggia mentalmente su quanti sono entrati lì a farsi ritrarre quando si accorge con un sussulto che, al di là della vetrina, sospesa a mezz’aria tra manifesti pubblicitari e ingrandimenti di vedute di Napoli, c’è una macchina fotografica…
È puntata su di lui, non c’è dubbio, ma come può una macchina fotografica sfidare la legge di gravità per starsene a galla un metro sopra il pavimento? E infatti non è così, è impugnata da due mani, ora le distingue perfettamente, un indice preme il pulsante, una fede nuziale scintilla all’anulare della mano sinistra, e poi due occhi scuri giocano con lui a nascondino, ma che significa? Qualcuno lo sta spiando, e come si permette, lo sta fotografando, forse lo ha fotografato da prima che attraversasse la strada, ma perché mai, schegge di ricordi gli trafiggono la mente, il sangue, l’arresto, la carica dei fotografi, le facce dei poliziotti, così gravi da far quasi ridere, il ceffone di suo zio, le urla di chissà chi e la sensazione d’essere finito dentro una bottiglia…
I due occhi scuri adesso sorridono oltre il vetro su cui sono riflessi i passanti che camminano nei due sensi sopra il marciapiede, ma è lui, è il papà di Elisa, un sospiro di sollievo sale dal petto di Fausto, almeno non si tratta di uno sconosciuto, ma non così profondo da cancellare il senso di allarme che lo pervade: che accidenti vuole quello lì?
Se lo avesse riconosciuto, Dio non voglia, e rivelasse a Teresa Saporito quant’è stata incauta ad alloggiare un mostro dentro casa, lui si ritroverebbe in mezzo a una strada prima di avere il tempo di dire “amen”, senza un parente al mondo e condannato a far paura a tutti, un King Kong mingherlino e pieno di lentiggini, e in quelle condizioni di che morte andrebbe a morire?
Spinge la porta del negozietto con aria sospettosa e si trova di fronte il giovanotto che depone rapidamente in un cassetto la macchina fotografica, chissà che vorrà farci con quelle istantanee, mentre gli chiede: «Ce ne andiamo a passeggio, eh?» con l’artificiosa cordialità, e la sostanziale indifferenza alla risposta, che si usa per i vecchi o per i bambini.
«Perché mi stavi fotografando?» vorrebbe domandargli Fausto e neanche sa se dargli del tu o del lei, ma invece borbotta come uno scimunito: «Lavora qui?».
«Esatto» conferma l’altro, e il tono gli si fa ruvido. Lavora qui, ma ci pensate, in questa topaia dalle pareti ingiallite e con le ragnatele agli angoli del soffitto, lui che sembra un fotomodello, se non addirittura un principe, e indossa per giunta un maglione fatto a mano, tutto bozzi e con un disegno a losanghe, di quelli che neanche un macellaio vorrebbe mettersi, e Fausto non sa più cosa pensare. «Ho preso il negozio quasi dieci anni fa» l’informa il ragazzo, che gli appare sempre più come un insieme di conti che non tornano, perché nessuno potrà spiegargli come si sposano la finezza dei suoi modi, è persino un po’ arrossito, con quel piglio aggressivo, e non ci sarebbe da stupirsi se lì fosse tutto finto, una specie di mascherata, e quel bel tizio gli rivelasse con un ghigno divertito: «Non vedi che è tutto uno scherzo?». Magari il negozio è una scena di teatro, appena messa in piedi con martello e chiodi da una squadra di operai, e quell’Apollo sta sforzandosi di recitare un ruolo per cui non è tagliato, quello del rude lavoratore dal vocabolario essenziale e dalle mani callose, che poi perché ha sempre i nervi a fior di pelle?

Il fascino che Fausto prova per Bruno è subito evidente. Lui, mingherlino, bruttino, goffo nei modi, si trova a vivere un’amicizia con un uomo bellissimo, forte, giovane, ricco, sicuro di sé e dalla vita perfetta.
Il fascino che Bruno suscita in Fausto fa subito pensare a un amore omosessuale, e chissà, forse è così, forse no; quel che è certo è che Fausto desidera Bruno: desidera la sua vita, desidera essere come lui, ne diventa ossessionato.
Forse ciò che ci fa più male non è non essere felici, ma non essere felici e vedere altri esserlo; o peggio, non essere felici e vedere altri esserlo e al tempo stesso non capire la propria fortuna, gettare tutto al vento.
Riguardo lo stile della narrazione, invece, sicuramente avete notato come tutto sia un delirio mentale di Fausto. Il continuo uso delle virgole lascia tutto in un moto indefinito, un denso aggrovigliarsi di sensazioni e di pensieri che stordisce Fausto, sempre più ai nostri occhi come un goffo bambino che si affaccia alla vita, appena nato, cercando di lasciarsi alle spalle l’assassino che pare non abbandonarlo mai.
“È l’ora della lezione di storia?” si chiede Fausto, tra il trasognato e il divertito, e si volta a fissare il mare, perché è lì che si punta lo sguardo di Bruno.
«Laggiù è passata la barca di un’imperatrice che il figlio voleva morta…»
«Era Agrippina» alita Fausto, approfittando della pausa.
«La barca affondò, ma Agrippina era resistente e nuotò fino a Baia dove aveva una villa. Nerone, però, non si arrese. Le mandò dei soldati che dovevano accopparla e lei, vedendoli, disse…»
«Colpite qui dove ho generato quel mostro…» termina Fausto, senza alcun sospetto, e Bruno, schiacciando la sigaretta sotto la suola della scarpa, aggiunge: «Chissà come ci si sente ad aver ammazzato la propria madre».
Ha detto semplicemente questo, non altro, ma quando lo ha detto? Un secondo fa, un’ora fa, un anno fa?
Le testa di Fausto ruota lentamente sul collo, mentre il corpo rimane immobile, e lo sforzo gli fa sentire quasi dolore, fino a che i suoi occhi non vanno a incontrare quelli di Bruno, era così strano il suo tono di voce ed è ancor più indefinibile quello che vede nel suo sguardo.
Non vado oltre, vi lascio nel dubbio: Bruno ha riconosciuto o no Fausto, oppure sono semplicemente le sue paranoie?
Il punto è un altro: Fausto riuscirà mai a dimenticare il mostro che è stato e trovare l’uomo che è? Ed è stato davvero un mostro, o solo un uomo ferito, distrutto dall’assenza d’amore?
Fatto sta che non riusciamo a odiarlo. Eppure è un assassino.
È affascinante studiare le vite dei serial killer. Tutti, quasi sempre, provengono da un focolaio violento; eppure studiare le biografie non dona a noi le sofferenza che hanno vissuto, non al pari di quelle che hanno inferto. Francesco Costa con Fausto fa l’opposto: ci mostra un uomo, un uomo diviso fra il passato e il presente, un uomo che è stato un assassino, l’omicida dei suoi genitori, e ci costringe ad amarlo, a voler bene a quel bambino mai amato che è stato ed è ancora Fausto Gaudio.
È davvero difficile creare un personaggio simile, un cattivo che ci risulti subito buono, un assassino che giustifichiamo.
Francesco Costa ci è riuscito.
Non posso che augurare sempre il meglio a questo meraviglioso scrittore.