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Editoria VS Amazon

A mio dire tutti dovrebbero scrivere, ma chi ambisce a pubblicare dovrebbe almeno prendersi la briga di informarsi bene in quale ambiente lavorativo sta cercando di entrare: sì, perché il mondo dell’editoria è un ambiente lavorativo; diversamente, non aspettatevi del denaro per i vostri dattiloscritti.

Invece ancora oggi, in pieno 2022, ci si accosta al mondo editoriale senza averne conoscenza, finendo per inciampare sempre nella solita, noiosa domanda: meglio pubblicare con una CE o in self su Amazon?

Da premettere che quando leggo l’acronimo CE mi sale una furia omicida che manco Ted Bundy. Provate a usare ’sto cacchio di termine parlando con qualcuno tipo Antonio Franchini, come minimo vi molla un cazzotto in faccia.

Casa editrice. Siamo scrittori, dunque rispettiamo le parole.

Chiusa questa digressione, a mio dire necessaria, ho deciso di spendere gratuitamente un po’ del mio tempo per dare alcuni consigli, spero utili a chi vorrà leggerli.

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Progetto editoriale: Bambini in pausa

L’antologia Bambini in pausa, edita da Meligrana Edizioni, nasce da un’idea mia e di Carmela Manco, presidente della O.N.L.U.S. Figli in Famiglia. Scopo del progetto è dar voce ai bambini di San Giovanni a Teduccio (Napoli) e lasciare che ci raccontino come hanno vissuto uno dei periodi più strani del nostro tempo: la quarantena dovuta all’emergenza sanitaria.

Diciassette autori hanno cercato di elaborare disegni e temi creati dai bambini durante il lockdown, al fine di tramutare paure, gioie e speranza di ognuno di loro in diciotto racconti.

Hanno partecipato al progetto: Giuseppe Meligrana, Carmela Manco, Francesco Costa, Gennaro Varriale Gonzalez, Monia Rota, Maria Masella, Laura Scaramozzino, Serena Pisaneschi, Mara Fortuna, Claudio Santoro, Elisabetta Carraro, Paola Giannò, Claudia Moschetti, Monica Gentile, Erna Corsi, Giovanna Esposito, Floriana Naso, Maria Concetta Distefano, Andrea Cinalli e Mario Emanuele Fevola.

Di seguito due miei racconti presenti nell’antologia: “Loro sono ancora fuori” e “Pelle”.

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Progetto editoriale: Il grande racconto di Renoir

Antologia curata da Monia Rota ed edita nel 2019 da Edizioni della seraincui è presente un mio racconto: Fotografie ingiallite.
Di seguito un piccolo estratto:

La foto di sua moglie era ancora sulla libreria, accanto all’attestato professionale di docente, anche se il professor Pietro Tondelli non insegnava più da dodici anni e da altrettanto tempo sua moglie, Clara, era andata via.

In un cassetto della libreria conservava le foto dei suoi alunni, centinaia di volti che si erano susseguiti in vent’anni di carriera. Di ognuno ricordava il nome, il volto, la voce.

Mise via la foto di Giuseppe Chiarolanza, conosciuto come Peppe ‘O cavallo. Era un alunno della quarta C, proprio come Carmelo ‘O puorc. Lo mettevano sempre a fare il palo prima che iniziasse la lezione: “Facit ambress, sta vennen ‘o prufessor’…”

Le labbra ringrinzite si arcuarono in un impercettibile sorriso. Sistemò gli occhiali, acuì lo sguardo e passò in rassegna i numerosi tomi che affollavano la sua libreria.

Dietro la foto di Clara c’era la vecchia edizione di Madame Bovary che lui le aveva regalato. Le diceva sempre che la donna sulla copertina, la signora Daudet dipinta da Renoir, le somigliava.

Clara neppure si era accorta di averlo lasciato nella vecchia casa, e Pietro l’aveva portato con sé.

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Che io chiamo arte: Marosia Castaldi, una scrittrice che merita giustizia

Con Franz Kafka abbiamo mostrato più di una volta quella che potremmo definire la cecità editoriale, o forse sarebbe giusto dire che non si tratta di cecità, quanto di una vista sin troppo acuta ma indirizzata a ciò che richiede il mercato: dare al popolo il prodotto che domanda anziché educarlo alla bellezza.

Più volte ho esposto il mio pensiero, ovvero il non essere contrario alla letteratura di intrattenimento e persino alle autobiografie, spesso autocelebrative, scritte da qualche Ghostwriter per il vip di turno. Non sono questi i problemi dell’editoria, lo ricordo ancora una volta, il problema sussiste quando il livello qualitativo di ciò che viene spacciato per letteratura cala in modo notevole.

La letteratura di intrattenimento o il libruncolo del vip non fa danno alcuno, anzi, potrebbe portare soldi alle case editrici e queste case editrici potrebbero investirli per pubblicare libri di alta qualità e dar spazio a nuove voci, magari difficili da piazzare perché poco affini alle richiesta del mercato, ma innegabilmente degne di essere pubblicate.

Purtroppo non sempre accade. A Kafka non è successo. Superato da incapaci, o comunque da scrittori meno geniali di lui, è morto da sconosciuto, come se non fosse il genio della letteratura che oggi tutti riconosciamo.

A mio dire il successo postumo è lo sbeffeggio a una vita di sofferenze e di umiliazioni, di rifiuti e di frustrazione, quasi una voce ipocrita sussurrasse al malcapitato: «Oh, ci scusi tanto, ci dispiace che lei abbia sofferto, fatto lavori che detestava pur di tirare avanti mentre vedeva altri meno bravi di lei passarle davanti. Ci perdoni per averla lasciata a morire da solo, non avevamo capito il suo genio. Ne siamo davvero spiacenti».

Il vaffanculo ci starebbe tutto, no?

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L’incipit, questo sconosciuto.

Ogni giorno nei gruppi Facebook per aspiranti scrittori leggo decine di incipit, così come ogni giorno qualcuno mi contatta per chiedermi un parere sul proprio incipit.

In ambedue i casi quello che leggo non è mai un incipit, ma un estratto del romanzo, spesso lungo una cartella o anche più.

Che sia l’inizio di una scena, un breve sommario, non è comunque un incipit che leggo.

Credo sia necessario fare chiarezza su cos’è un incipit: è l’inizio della storia, ed è l’inizio della storia per il lettore, dunque ciò che gli permette di lasciare il mondo reale per entrare nel mondo narrativo. Ciò che viene subito dopo è già la storia che il lettore, nel più dei casi, leggerà solo se l’incipit dovesse colpirlo, perché se la magia che porta una persona a immergersi in una storia non avviene immediatamente, non funziona. Il lettore ci molla.

Potremmo definire l’incipit come una promessa narrativa, con esso promettiamo al lettore che andando avanti nella lettura troverà qualcosa di bello, degno del suo tempo.

Questo ci porta a una domanda: ma allora dovremmo scrivere per far felice il lettore?

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Čechov: quando persino da uno starnuto si crea una storia.

Trovo assurdo che oggi coloro che si avvicinano alla narrativa, o almeno con l’intento di pubblicare, si cimentino subito nella scrittura di un romanzo, pur non avendo esperienza alcuna, o quasi nulla, della scrittura di un racconto.

Con questo non voglio dire che scrivere un romanzo sia più difficile che scrivere un racconto, si tratta di due generi diversi di narrazione, hanno finalità diverse e un respiro narrativo diverso; dunque non vedo assolutamente i racconti come una palestra per arrivare a un romanzo, perché un buon racconto non è una bozza di romanzo, né un buon romanzo è un racconto portato per le lunghe: sono due cose diverse. Il romanzo è un insieme di azioni drammaturgiche che si muovono nello spazio e nel tempo, mentre il racconto è una sola e potente azione drammaturgica condensata in un unico tempo. Potremmo paragonare i due stili narrativi al pugilato: il romanzo vince ai punti, il racconto vince per knockout.  

Dunque, è certo difficile scrivere un romanzo ricco di personaggi cui vicende si intrecciano, ma è altrettanto complicato scrivere un racconto in cui si segue una sola e unica azione drammatica così potente da stendere in poco tempo i lettori.

La cosa che mi fa storcere il naso quando vedo aspiranti scrittori alle prese con un romanzo, senza però aver mai scritto un solo racconto, è il pensiero di trovarmi al cospetto di una persona che non sente il bisogno selvaggio di scrivere. Continua a leggere Čechov: quando persino da uno starnuto si crea una storia.

Scrittori di voce e scrittori di trama: quando una voce autoriale trasforma le parole in musica

In diverse discussioni con aspiranti scrittori ho descritto loro la differenza che passa fra uno Scrittore di voce e uno Scrittore di trama e, puntualmente, ogni volta c’è qualcuno che mi dice: «Io voglio essere uno scrittore di voce», come se questo termine riportasse a qualcosa di nobile, di magico.

Chiariamo subito che ogni scrittore, da quello che pubblica con il minuscolo editore al vincitore del Premio Strega, dovrebbe avere una propria voce autoriale; uso volutamente il condizionale perché, purtroppo, non è sempre così, non oggigiorno. Avere una voce autoriale, in sintesi, significa essere capaci di raccontare in modo unico e inequivocabile una storia. Non si tratta di stile, assolutamente, ma di una personale intonazione nell’utilizzo del lessico e nel modo di gestire la trama che rende esclusiva la narrazione, proprio come lo è ogni voce umana.

Prendiamo come esempio Domenico Starnone, di cui abbiamo parlato in due precedenti articoli. Il libro con cui ha vinto il Premio Strega, ossia Via Gemito, affronta un tema trattato decine, forse centinaia di volte: il conflitto con il proprio padre. Eppure la lingua in quel libro è talmente intima da renderlo unico. Ciononostante, se leggessimo Labilità, un altro bel libro di Starnone, ci accorgeremmo subito che è frutto dello stesso autore; e questo vale anche per i lavori più ironici di Starnone.

Una voce autoriale, quando è forte, rende la scrittura dell’autore inconfondibile.  

Certo, non tutti gli scrittori possono avere una voce autoriale forte, e gli stessi autori che possiedono una voce autoriale forte non sempre riescono a usarla pienamente in ogni loro opera, ma si dà per scontato – o almeno si spera – che uno scrittore abbia una propria voce autoriale.

Ecco perché essere uno scrittore di voce non ha nulla a che vedere con l’avere una voce autoriale. Continua a leggere Scrittori di voce e scrittori di trama: quando una voce autoriale trasforma le parole in musica

Scrivere significa scavare nel pozzo delle proprie inquietudini

In un precedente articolo ho già parlato di Edgar Allan Poe, autore nato a Boston il 19 gennaio 1809 e morto a Baltimora il 7 ottobre 1849. Come potrete leggere nell’altro articolo, in cui è riportato il suo meraviglioso racconto La maschera della morte rossa, Poe non ha avuto vita facile sotto nessun aspetto. Morto giovane in preda al delirio e senza aver mai raggiunto il meritato successo, è oggi definito l’indiscusso maestro del terrore. Un genio della letteratura. Uno scrittore capace di portare ai limiti estremi l’angoscia umana.

Poe non usa mostri, lupi mannari o vampiri per terrorizzare il lettore, no, lui fa qualcosa di più: le sue pagine sono specchi in cui il lettore ci si riflette, incapace di sfuggire dalle proprie paure più intime. È nel deliro umano che Poe ci porta con le sue storie, negli incubi che accomunano gli uomini, nelle paure più ataviche che da sempre ci tengono svegli.

Non consiste forse in questo la vera arte di uno scrittore? Condurre il lettore in un vortice, spesso soffocante. Portare il lettore al limite massimo dei conflitti interiori dei personaggi di cui legge, scendere assieme a loro nel baratro, condividere le loro paure. Continua a leggere Scrivere significa scavare nel pozzo delle proprie inquietudini

L’arte di creare dal nulla un vero incubo

Oggigiorno l’appellativo di “genio” è talmente abusato che il significato della parola stessa sembra non aver più valore. Qualsiasi campo artistico strabocca di questi cosiddetti geni, spuntano fuori come funghi, probabilmente proprio perché nel nostro tempo di geni ce ne sono davvero pochi, forse nessuno, al punto da doverli ricercare in ogni presunta novità, che sia essa semplicemente un’eccentricità nel vestiario, un dipinto dallo stile atipico, un brano di narrativa particolarmente brillante.

L’ordinario diventa geniale, la mera stravaganza una forma d’arte. Si sente la necessità che qualcosa sia geniale e si dà questo epiteto a qualsiasi cosa accattivante, forse proprio perché ciò che davvero è geniale è stato dimenticato, così come i tanti classici della letteratura che tutti conoscono ma non tutti hanno letto: la genialità conclamata è diventato un bel dipinto conosciuto da tutti per fama, ma mai osservato.

Riguardo la letteratura è davvero difficile pensare a qualcosa di geniale. Sappiamo bene che tutte le storie sono state già scritte. Certo, possono nascere piccole innovazioni, personaggi o dinamiche che appaiono nuove, ma probabilmente spulciando fra milioni di libri troveremo qualche storia simile a quella che credevamo unica. Il punto è come si racconta una storia. Continua a leggere L’arte di creare dal nulla un vero incubo

un popolo che resta vivo grazie alla memoria delle sue donne

Cosa sappiamo della letteratura algerina? Come immaginiamo la letteratura algerina?

Se ogni scrittore degno di questo nome, qualsiasi sia il suo genere, scrive sempre a partire da se stesso, dal proprio quotidiano, cosa significa essere uno scrittore algerino oggi?

Una risposta concreta la troviamo nella scrittura della bravissima Assia Djebar, pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayène, scrittrice, poetessa, saggista, regista e sceneggiatrice algerina nata nel 1936 a Cherchell e morta a Parigi nel 2015, un nome purtroppo sconosciuto a molti qui in Italia, nonostante sia a oggi considerata una delle più capaci scrittrici nordafricane e prima autrice del Maghreb a essere stata accettata all’Académie française. Continua a leggere un popolo che resta vivo grazie alla memoria delle sue donne