La nostra è l’epoca in cui si è sempre connessi con il mondo intero. Abbiamo la possibilità di comunicare con chiunque, ovunque egli si trovi. Non abbiamo più bisogno di telefonare, le comunicazioni passano quasi sempre via chat o tramite messaggi vocali.
Un tempo si sceglievano con cura la persona da sentire, ed erano sempre persone presenti nel nostro quotidiano. Oggi, invece, in un giorno chattiamo con decine di persone che non abbiamo mai visto in carne e ossa. Seppur chiusi in una stanza non siamo mai soli.
Eppure mi chiedo cosa se non un profondo senso di solitudine ci porta a interagire con chiunque e ad avere sempre bisogno di una finestra virtuale spalancata sul mondo?
L’incomunicabilità umana è uno dei temi portanti nella letteratura del novecento, basti pensare al profetico Gli indifferenti, capolavoro di Alberto Moravia pubblicato nel 1929 e che tutt’oggi, a un secolo di distanza, è ancora tremendamente attuale. Nella scrittura di Kafka l’incomunicabilità non mette radici solo in ambito famigliare, ma nel tessuto sociale: l’uomo come elemento invisibile in un mondo sempre più veloce, burocratico, meccanico, gelido.
Oggi, con il crescere delle tecnologie, si ha l’illusione di aver vinto la solitudine. Abbiamo sempre qualcuno con cui parlare, sempre una platea a cui mostrarci. Nonostante ciò basterebbe osservare una fra le tante cene di una qualsiasi famiglia per ritrovarsi davanti la stessa dinamica famigliare mostrata nel l’opera di Moravia: silenzio e indifferenza. La sola voce è quella del televisore accesso; i soli sguardi sono quelli rivolti a uno smartphone. Non parliamo più, proviamo quasi fastidio a stare insieme, spesso più il legame è intimo più in noi cresce l’imbarazzo, come se il concetto di comunicazione fosse ormai limitato a svolgersi nascosti dietro uno schermo. Tuttavia non riusciamo a fare a meno delle persone. Relazioni di ogni tipo vengono trascinate avanti persino quando l’incomunicabilità si tramuta in fastidio, poi in livore, infine in odio.

Fra gli scrittori che senza dubbio hanno maggiormente trattato nel novecento il tema dell’incomunicabilità c’è Georges Simenon, autore che non ha bisogno di presentazioni, avendo qui scritto già molto di lui. Quasi tutti i romanzi di Simenon (intendo la narrativa non di genere) hanno come luogo l’ambiente famigliare, dimora dove si celano, pronti a esplodere, i più atavici e violenti conflitti.
Il libro di cui voglio parlarvi oggi si intitola Il gatto, scritto nel 1966 e pubblicato in Italia nel 1969 da Mondadori.
È la storia di Émile Bouin e di sua moglie Marguerite Doise, una coppia di anziani sposatasi in tarda età e che ormai, da quattro anni, vive sotto lo stesso tetto senza neppure parlarsi. Comunicano solo tramite bigliettini o con occhiate cariche di livore, eppure nessuno dei due molla la presa, continuano a portare avanti una straziante lotta fatta di rancori e desideri malefici.

Aveva lasciato andare il giornale, che prima gli si era aperto sulle ginocchia e poi era scivolato lentamente fino al parquet lucido di cera. Non fosse stato per la sottile fessura che di tanto in tanto gli si disegnava fra le palpebre, si sarebbe detto che dormiva.
Chissà se la moglie ci era cascata… Se ne stava a sferruzzare, nella sua poltrona bassa, dall’altro lato del camino. Sembrava sempre che non lo guardasse neanche, ma lui sapeva da tempo che in realtà nulla le sfuggiva, nemmeno il più impercettibile fremito di un muscolo.
In questo attacco di romanzo veniamo subito catapultati nella quotidianità della coppia, una realtà soffocante in cui percepiamo con acuta lentezza ogni gesto, ogni sguardo, attenti a questi due anziani che si spiano stando nella stessa stanza, ma lontani, come rinchiusi in due mondi distinti e incongiungibili.

Émile Bouin rifletteva. Con un vago sorriso guardava le fiamme attraverso le palpebre socchiuse.
Dei tre ceppi, quello più in alto ormai era solamente uno scheletro annerito da cui salivano fili di fumo. Gli altri ardevano ancora, ma dai loro crepiti si capiva che non avrebbero tardato a cedere.
Marguerite si chiedeva se il marito si sarebbe alzato per prendere dalla gerla altri ceppi e metterli nel camino. Si erano entrambi abituati al calore del focolare, e se lo godevano finché la pelle del viso non cominciava a pizzicare costringendoli ad allontanare le poltrone.
Il sorriso di Émile si fece più ampio. Non era rivolto a lei. E nemmeno al fuoco. Bensì a un’idea che gli passava per la testa.
Non aveva fretta di tradurla in azione. Avevano tempo, tutto il tempo che li separava dal momento in cui uno dei due sarebbe morto. Chi se ne sarebbe andato per primo? Non era dato saperlo. Sicuramente anche Marguerite ci pensava. Ci pensavano da molti anni, molte volte al giorno. Era diventato il loro problema principale.
Ecco, non condividono nulla, se non una casa ormai colma soltanto di insopportabili e orrendi ricordi in cui si muovono l’uno in attesa della morte dell’altra. Ogni gesto, persino il più piccolo, diventa motivo di una silente sfida che nessuno dei due vuole abbandonare, una battaglia che va avanti ormai da anni nella più estrema, fredda routine.

Scrupoloso, metodico, Bouin spense la lampada del corridoio, chiuse la porta dietro di sé, si diresse verso la cucina e, dopo avervi acceso la luce, spense quella della sala da pranzo.
Aveva imparato dalla moglie a fare economia, ma si comportava così anche per un altro motivo.
Sapeva che, dal momento in cui si era alzato, Marguerite aveva cominciato ad agitarsi nella poltrona. Non voleva seguirlo troppo da vicino. Aspettava un po’. Quando a sua volta si sarebbe alzata, sospirando come a ogni tappa della giornata, avrebbe dovuto spegnere le luci del salotto, accenderle nel corridoio, spegnere ancora, richiudere ogni porta dietro di sé.
I movimenti che ognuno dei due compiva erano diventati rituali e assumevano un significato quasi misterioso.
In cucina Émile Bouin prese una chiave dalla tasca e aprì la credenza di destra: le credenze infatti erano due. Quella di sinistra, più vecchia, di pino australiano, faceva già parte dell’arredamento ai tempi di Marguerite.
Quella di destra, dipinta di bianco, apparteneva a Bouin ed era stata acquistata a boulevard Barbès.
Ne estrasse una costoletta, una cipolla, un po’ di indivia cotta avanzata dal pasto di mezzogiorno e conservata in una scodella. Prese anche una bottiglia di vino rosso mezza piena e, prima di tirar fuori il suo burro, il suo olio e il suo aceto, se ne versò un bicchiere.
Accese il fornello, fece sciogliere una noce di burro, affettò la cipolla, la lasciò rosolare e mise la carne in padella.
Nel frattempo nel vano della porta era apparsa Marguerite, che finse di non vederlo, di ignorare la sua stessa presenza, di non sentire neppure quell’odore di cipolla che tanto la infastidiva.
Anche lei aprì la sua credenza, con una chiave che teneva appesa alla cintura.
La cucina non era grande. Una buona parte era occupata dal tavolo. Per non intralciarsi a vicenda, dovevano stare attenti a come si muovevano. Ma c’erano così abituati che non si sfioravano mai.
E ancora…
Dal canto suo, lei, quasi per mettere in risalto la propria frugalità, a cena si accontentava di una fetta di formaggio, talvolta di un paio di patate avanzate a pranzo.
Anche questo aveva un significato ben preciso. Anzi, ne aveva molti. Prima di tutto dimostrava che suo marito spendeva più di lei per mangiare; poi esprimeva il suo rifiuto di servirsi della padella dopo di lui. Quando era indispensabile, aspettava che Émile la lavasse, anche a costo di mangiare molto più tardi.
Masticavano lentamente, lei con movimenti delle mascelle quasi impercettibili, come un topolino; lui, invece, mostrando rumorosamente il suo appetito e il suo appagamento:
«Vedi? La tua presenza non mi mette per nulla a disagio… Credi di punirmi, di avere la meglio su di me… Invece io me la godo e non perdo certo l’appetito…».
Naturalmente i loro dialoghi erano muti, ma si conoscevano troppo bene per non indovinare ogni parola, ogni intenzione.
«Sei disgustoso… Mangi senza ritegno, ti rimpinzi di cipolle come uno zotico… E io che ho sempre avuto l’appetito di un uccellino… Così mi chiamava mio padre… Il suo uccellino… E il mio primo marito, che era anche un poeta, oltre che musicista, mi chiamava la sua fragile colomba…».

Con queste parole, come in tante altre parti del libro, Simenon ci fa capire che l’odio in entrambi ha radici ben più profonde dell’evento che ha causato la rottura fra di loro (e che evito di dirvi). Si sono incontrati portandosi dietro tutto il proprio bagaglio di delusioni, rancori e difese contro il mondo, e ora, insoddisfatti, delusi, si stanno massacrando a vicenda.
Émile è sempre stato un uomo pratico, quasi rude, come la precedente moglie con cui passava le giornate a bere, oziare, senza mai prendere niente sul serio. Marguerite, invece, viene da una ricca famiglia piena di formalismi, dove vigeva il silenzio e tutto sembrava immutabile come un dipinto.
Suo padre era proprietario di un intero vicolo, ma a causa di un fallimento perse gli appartamenti di un intero lato della strada, e ora Marguerite vive in una casa nella parte restante delle proprietà paterne, attaccata a quell’alone di benessere e nobiltà che le è stato strappato via con il fallimento della famiglia.
Quando Bouin andava a trovarla, nel pomeriggio, Marguerite si mostrava squisita, accomodante. Forse parlava un po’ troppo degli antichi fasti della sua famiglia e dell’infanzia dorata.
Tuttavia sembrava guardare con divertita condiscendenza l’umanità, a eccezione di quei due individui che nella sua mente avevano i tratti dei traditori da melodramma, i Sallenave padre e figlio.
Si erano arricchiti con il patrimonio che sarebbe spettato a lei. Raoul Sallenave abitava in un grande appartamento in boulevard Raspail e si era fatto costruire una lussuosa villa in riva alla Senna, al limitare della foresta Fontainebleau.
I biscotti Doise! La fortuna dei Doise! L’onestà dei Doise, che li aveva costretti a vendere una fila di case della via che portava il loro nome!
All’epoca si parlava già di radere tutto al suolo per costruire appartamenti da affittare, e Marguerite aveva ricevuto qualche offerta.
«Naturalmente ho rifiutato. Preferirei privarmi del pane…».
Émile avrebbe dovuto stare all’erta. Invece ascoltava sorridendo. Marguerite gli chiedeva poco di lui, e anche questo avrebbe dovuto metterlo sul chi vive.
In definitiva, l’unico essere vivente cui Marguerite si interessava era se stessa, con quel corteo di morti che continuava ad aleggiarle intorno come una sorta di aura protettiva.
E ancora…
Anche da morti, i Doise dovevano restare immacolati. Tutte le storie di famiglia si coloravano di leziose sfumature pastello. Tutto era puro e delicato, come il profilo romantico del suonatore di violino.

Marguerite è in fondo una donna sola che vive di ricordi, mentre Émile è un rude e attempato carpentiere altrettanto solo. Nessuno dei due vede davvero l’altro, fissano solo il loro bisogno di non trovarsi soli, e in essi si uniscono, ma senza voler comprendere a fondo il mondo dell’altro, per giusto o sbagliato che sia.
La loro incomunicabilità ha origine agli albori della loro conoscenza, e come radici si dirama in un rapporto fasullo, di giorno in giorno, senza che nessuno dei due si decida a mettere fine a quell’atroce e ridicola farsa.
Aprì gli occhi e vide che la tazza fumava ancora leggermente. Non aveva fame. Rifiutava di toccare il cibo che lei gli aveva portato per dovere o per pietà.
Chissà, magari aveva intenzione di sbarazzarsi di lui come si era sbarazzata del gatto…
Era la prima volta che gli veniva un pensiero del genere, sia pur vago, ma non ci credette veramente. Lo attribuì alla febbre, ma di sicuro c’entravano anche le conseguenze della sbornia.
«Sarebbe così pratico… Avrebbe diritto alla pensione senza dovermi più sopportare in casa…».
Eppure in quel ragionamento c’era una contraddizione che preferiva non vedere. Se Marguerite lo aveva sposato per non essere sola e per assicurarsi un aiuto gratuito in caso di necessità, non aveva alcuna intenzione di toglierlo di mezzo.
Ma era in grado, lei, di riflettere prima di agire? Non era forse piena di odio? Un odio che sicuramente non era nato quella mattina e dunque non aveva niente a che vedere con il pappagallo, ma risaliva a molto tempo prima, magari quando nemmeno si conoscevano, anche se dirlo poteva sembrare un’idiozia.
A Émile tornò in mente il suo sguardo freddo e duro quando, dopo aver a lungo esitato, si era disteso su di lei con l’intenzione di fare l’amore. Nel momento in cui, non senza dolore, egli la penetrava, il corpo di Marguerite si era a un tratto irrigidito, come se istintivamente rifiutasse il contatto con il maschio.
Per circa un minuto aveva sperato che si lasciasse andare, ma non era accaduto, anzi, e lui si era ritratto, pieno di vergogna, balbettando delle scuse.
«Perché?» aveva chiesto lei, con un tono di voce indifferente.
«Perché ti chiedo scusa?».
«Perché non continui e non ti soddisfi? Ti ho sposato, ed è mio dovere subire anche questo».
Mille volte gli era tornato in mente quell’«anche».
Di certo una scena simile è stata vissuta in migliaia, in milioni di famiglie o di coppie. Ma quanti arrivano alla drammatica e crudele constatazione di Marguerite?
«È mio dovere subire anche questo».

Anche questo! Come se tutta la loro vita insieme fosse una condanna, e chi la subisce si tramutasse di colpo in una santa o in un santo: il martirio visto come un podio su cui innalzarsi.
Aveva bisogno di essere infelice, di sentirsi vittima della cattiveria degli uomini per poi sussurrare qualche parola di perdono.
«Povera donna…».
L’incomunicabilità, quando vissuta fra membri della stessa famiglia, sotto lo stesso tetto, diventa una lotta sanguinaria fatta di sguardi truci oppure d’occhiate di sottecchi, urla bestiali e ricatti psicologici. Eppure nessuno allenta la presa, come se in ogni istante, persino quando sgorga il sangue, si volesse avere ragione sull’altro.
«Ciascuno dei due si sentiva una vittima e considerava l’altro un mostro».
Così, in meno di due righe, Simenon racchiude il conflitto interiore dei due protagonisti.
È macabramente affascinante vedere come il nostro nuovo modo di comunicare abbia chiuso tutti noi in un egoismo non dissimile da quello di Marguerite e di Émile. Usiamo una foto o uno “status” per comunicare con il prossimo, ma lo facciamo imponendo il nostro punto di vista o desiderando soltanto di mostrare noi stessi, non in cerca di un vero dialogo. La comunicazione non è diventata altro che un modo per soddisfare se stessi, e chi si mette contro di noi viene messo alla gogna: fosse anche un famigliare.
Abbiamo sempre tanti occhi addosso e in pochi minuti guardiamo l’apparente vita di decine di persone, eppure siamo chiusi in una stanza tutti assieme, urtandoci senza mai toccarci, proprio come Émile e Marguerite.
La comunicazione oggi è diventata soltanto voglia di vincere e imporsi al di sopra dell’altro.
«Sua moglie lo odiava. E anche lui la odiava. Un giorno, mentre lei continuava a portarsi la mano al petto come se il cuore stesse per cederle, le aveva scritto in uno dei suoi biglietti: puoi pure crepare».
Oggi, forse, ci troviamo a comunicare come Émile e Marguerite, lanciandoci bigliettini in uno spazio vitale dove non esiste altro che noi stessi; un luogo senza forma né spazio dove come Narciso fissiamo un riflesso immaginario, dimenticando le persone che ci sono accanto.
Credo che mai, in nessuna epoca, l’uomo sia più stato solo di adesso.
Grazie ancora a Simenon per questo suo meraviglioso ritratto dell’umanità.