Ogni giorno, appena sveglio, mi chiedo quale sia il motivo che porti una persona a scrivere. È la prima domanda che mi pongo quando apro gli occhi, l’ultima che accompagna il mio sonno dopo ore notturne perse fra parole, caratteri, verbi, aggettivi e frasi; ingerendo e vomitando vocaboli e immagini fino all’alba, senza riuscire mai ad afferrarli pienamente e, infine, schiacciato, arrendendomi a morire mentre il mondo si risveglia, desiderando solo un altro giorno per provarci ancora.
Cosa porta mai a sopportare questa follia? E la si vive per davvero? L’audace lotta per congiungere l’invisibile al visibile. Strappare qualcosa dal cuore, dalla mente, dalle vene e da ciò che chiamiamo anima e trasfigurare quel qualcosa, appena una bozza di consapevolezza, in immagini, in volti, chiazze di ricordi e di voci.
È follia pura voler incarnare la memoria, renderla ancora viva quando è invece materia morta, sepolta, vivida solo in flebili respiri che avvertiamo appena un attimo nel silenzio dei nostri sguardi: i momenti in cui ci perdiamo a fissare la sagoma del riflesso di noi stessi, sbiadita e consumata nella frenesia della vita.
Ogni giorno mi chiedo se io sia capace di scrivere, se ne abbia la forza, la costanza, la vocazione, la pazzia. Ogni giorno mi interrogo su cosa sia uno scrittore: termine oggi – più di ieri – usurpato, denigrato, violentato. E mi chiedo se io lo voglia davvero fare: e cosa fare? Che tipo di scrittore essere, e che tipo di uomo? Qual è il senso di questa lotta per raggiungere quell’immagine che ti picchia nel torace di continuo, ossessivamente: l’urlo di una bestia che non ti fa dormire, se non stordito dall’alcool?
La memoria, il ricordo, l’ossessione di una vita che sai mortale: la tua esistenza fatta di attimi che vuoi inchiodare sulla pagina, come le farfalle di Nabokov.
Eppure questo mondo irreale, palpabile solo per chi lo vive, ogni giorno si scontra con un turbinio di voci, ondate di facce, amplessi di doveri disgustosi, responsabilità che graffiano la pelle, e gli occhi, e la lingua, e il cuore.

Ci si domanda cosa abbia mai a che fare questo mondo, questo ritmo sfrenato, oleoso e gelido, con ciò che abbiamo dentro. Tuttavia si sente il bisogno di lasciarlo scorrere nel mondo quel grido che ci accompagna sempre. Di vederlo mettere radici, formare ramificazioni di carne che avvolgano la terra, i palazzi, le persone e il cielo.
È l’assurda voglia di non morire, la ridicola pretesa di non essere stati solo chiazze su di un tessuto lercio che dalle origini dell’essere umano passa di mano in mano, eternamente incompiuto e sbrandellato.
Nel bisogno di ciò spesso la scrittura si tramuta in compromesso e svanisce. Per la gloria, per puro egocentrismo, per lenire il dolore di cui è composta la vita. Per non finire come Svevo o come Kafka.
Ridicolo pensare di volere l’immortalità, ma rifiutarla pur di vivere un tempo limitato in una gloria fittizia.
Queste pagine non hanno la pretese di essere una recensione, né uno sfogo né una lettera. Forse sono una traccia, non lo so. Mi vengono in mente i marinai di un tempo, quelli che osservavano le stelle per trovare la rotta verso casa, e forse noi scrittori, chi si sforza ancora di esserlo nonostante le pressioni del mondo, siamo proprio come loro: naufraghi nel buio assoluto che, di secolo in secolo, indicano gli uni agli altri le stelle, così da trovare una via verso quella casa che neppure più ricordiamo nitidamente, ma intuiamo in una memoria fatta di sensi, di carne e di odori, di baci e carezza, di lacrime e sorrisi.
E nelle stelle la parola scritta è il solo linguaggio con cui riusciamo a comunicare, il nostro lessico, quella lingua comune che ci permette di riconoscerci: lingua oggi storpiata, deformata, rubata.
Perché scriviamo oggi? In un tempo dove le parole sembrano non avere più senso e la memoria appare come qualcosa da scartare o utilizzare a proprio piacimento, distorcendola anziché ritrovarla.
E ha ancora senso parlare di memoria? Ha ancora senso parlare di stelle, di sogni, di onde di parole e di scrittori?
E dunque ancora la domanda, eccola, pesante, ridondante, ossessiva.
Cosa porta una persona a scrivere?
Guardo attorno a me e vedo un circo di goffi nani, donne cannone sbudellate che danzano assieme a torsi umani, mentre pagliacci coperti dalle viscere di fiere addormentate ridono e battono le mani. E la musica è assordante. Un carosello incessante e spasmodico che spara chiodi nel cervello, mentre luci accecanti spazzano via gli occhi.
Questa è l’immagine che mi spacca il cuore quando penso agli scrittori di oggi, a quello che dovrebbe essere il panorama letterario ma, invece, non è neppure più un orizzonte editoriale, quanto solo una fabbrica dove si producono menestrelli.

E qual era il compito dei menestrelli, se non quello di intrattenere il popolo?
Pagliacci, questo siamo chiamati a essere. E ogni giorno mi chiedo dove io stia andando, dove la mia scrittura stia andando. Se davvero sia la mia scrittura o le macchie di ciò che sono, le venature del demone che mi porto dentro: residui della mia voce, frammenti di me stesso.
Uno scrittore oggi può essere libero? Oppure deve piegarsi a continue frustate se vuole essere riconosciuto visibilmente come tale?
Invidio coloro che non si pongono queste domande. Spesso davvero provo invidia per loro, perché vivono bene; o meglio, non vivono: addormentati nel sonno dei bambini.
La mitizzazione della figura dello scrittore, che poi a sua volta è la morte dello scrittore, ha reso la scrittura il fine per essere solo uno scrittore: un ruolo, un vestito da indossare, un bel gioiello da esibire.
Pullulano ovunque, come una polpa d’insetti, tanti aspiranti scrittori che reputano oro storie ritrite, banali e scritte senza cercare nemmeno una voce, senza confrontarsi con la profonda complessità della lingua, del lessico, di ciò che un tempo inchiodava per ore Balzac alla pagina.

Romance fotocopiati, fantasy che non hanno nulla d’innovativo, gialli fatti con lo stampino, narrativa non di genere che è solo mera autocelebrazione.
Una bolgia di sorrisi, applausi monchi, parate senza gambe, pagine prive di parole.
Non ci si chiede quale sia lo scopo della scrittura, perché il senso stesso della scrittura è stato soverchiato dall’egocentrismo: Narciso che si guarda in un lago.
Ma come dare torto a queste persone, visto che i modelli a loro propinati sono tutt’altro che scrittori? E a loro viene svenduta l’illusione che scrivere li renderà ricchi, famosi, potenti, migliori, belli.
E questo il senso della scrittura? Ridursi a scrivere di un commissario che mangia pizze e panzerotti, e farlo per vedere la propria faccia sul giornale, per andare in tv, per i soldi?
Per questo scriviamo?
Fortunatamente esistono ancora scrittori che resistono, pur dovendo lottare con un sistema che ti dice come devi scrivere, quasi te lo impone a livello mentale, tanto che bisogna essere scaltri per eluderlo; anche se questo, purtroppo, spesso soffoca i demoni della scrittura, lì lascia liberi per poco, giusto il tempo necessario perché i lettori, quelli veri, ne intravedano la bellezza.
E da qui ancora la domanda, la sola e unica: cosa porta una persona a scrivere? Cosa porta una persona a scrivere, ora che abbiamo capito cosa significa scrivere veramente?
L’ossessione per un pensiero, per un ricordo, per un’immagine: è la nana di Rosa Montero, quella parte che il nostro Daimon fiuta di continuo, che anela, che caratterizza tutta la vita di uno scrittore.
Per portare un esempio concreto menziono uno scrittore del nostro tempo: Domenico Starnone, scrittore e sceneggiatore napoletano classe 1943. Già abbiamo parlato di lui in due articoli, ma qui voglio citarlo solo come esempio, e non sarà il solo.
Che possa piacere o no come scrittore (a me piace, e molto), nella scrittura di Domenico c’è l’ossessione verso un ricordo, sempre, almeno nei suoi libri da me letti.

Persino nel suo ironico e brillante Fuori registro (Feltrinelli 1991) appare, seppur appena intravista, la figura influente di suo padre; figura ripresa parzialmente anche nel romanzo Denti (Feltrinelli 1994), come nel precedente libro solo in chiazze, ricordi, ma così potenti da soverchiare tutto il resto.
Infatti Domenico nel 2001 vince il Premio Strega proprio con Via Gemito (Feltrinelli 2000), una biografia di suo padre da lui narrata, protagonista quasi invisibile al cospetto della figura opprimente e pensante del patriarca.
A distanza di cinque anni, pur avendo consumato (apparentemente) la sua ossessione in Via Gemito, nel 2005 pubblica con Feltrinelli Labilità, altro libro in cui è forte la figura paterna.
Ora, che Starnone possa piacere o meno, che secondo alcuni ci sia il suo zampino dietro il prodotto commerciale L’Amica geniale, Starnone incarna l’ossessione dello scrittore nei confronti di un’immagine che lo consuma, lo dilania, prende il sopravvento sulla trama, su tutto: la nana di Rosa Montero.
Non so se sia ancora così, dovrei leggere gli ultimi libri di Starnone per dirlo. Certo è che, come dicevo prima, uno scrittore oggi, se vuole essere riconosciuto pubblicamente come tale, può forse essere libero di scrivere ciò che vuole e come vuole?
Attenzione però, perché queste mie parole potrebbero essere travisate facilmente, per la gioia di coloro che non amano impegnarsi seriamente nella scrittura.
Essere liberi di scrivere come si vuole e ciò che si vuole richiede una maturità e una consapevolezza tale della propria scrittura da potersi permettere di farlo, e non tutti ne sono capaci, non senza tantissima fatica per cercare la propria voce autoriale: lì dove ci sia una voce.
C’è un sapere da apprendere, una disciplina da assumere, ed è quella tramandata nei secoli dai maestri della letteratura.
Appreso questo sapere, allora il discorso da me fatto ha un senso; diversamente rischierebbe di passare come un invito a scrivere come si vuole, di getto, senza aver incorporato quelle che da sempre sono le regole della scrittura creativa.
Solo quando le si conosce nella loro pienezza si possono infrangere, fino ad allora è consigliabile dedicarsi con dedizione e sacrificio alla scrittura, come Kafka, che sarà appunto il centro di queste riflessioni.

Chiusa questa doverosa parentesi, torniamo a ciò che stavamo dicendo: Cosa porta una persona a scrivere?
Come in Domenico Starnone, e con più forza e con maggiore talento e maturità, possiamo trovare questo senso in Georges Simenon, uno degli scrittori più prolifici del 900 e forse della storia della letteratura e di cui ho parlato fino alla sfinimento, essendo uno dei miei scrittori preferiti.
Simenon ha scritto circa cento romanzi da lui denominati “romanzi duri”, ossia ciò che voleva scrivere davvero. In ogni sua storia, o almeno nei quarantatré suoi libri che ho letto, traspaiono due temi che sembrano fondamentali nella sua narrativa: il rapporto con le donne – spesso vittime dei protagonisti o comunque figure inquietanti – e famiglie colme di anaffettiva dove quasi sempre c’è qualcuno dedito all’alcool.
Simenon era ossessionato dal sesso, molti lo sanno, persino chi non ha letto la sua biografia; inoltre ha sempre avuto un rapporto famigliare burrascoso, in particolare con il fratello dedito all’alcool, come evince dal romanzo Il fondo della bottiglia (Mondadori 1956; Adelphi 2018), unico libro che l’autore ha dovuto dichiarare non contenente parti autobiografiche, stranamente.
Eppure Simenon è anche il padre di Maigret, noto personaggio dei suoi numerosi libri gialli che, lui stesso, non ha mai negato di aver scritto solo per mantenersi, così da poter contemporaneamente scrivere ciò che gli piaceva e unire la letteratura al commerciale.

Dunque, anche qui ci chiediamo: uno scrittore oggi può essere libero?
Ci sono tanti altri casi simili, direi tutti quelli di scrittori veri, perché ogni scrittore è ossessionato da qualcosa, dalla propria nana, quella figura o quella dinamica che appare sempre nelle sue opere. Perché senza ossessioni non esiste scrittura, al massimo c’è un bell’esercizio stilistico, la perfetta copia di un dipinto, ma comunque un falso.
Ci sono tanti altri casi alcuni fortunati e altri meno. Fra i primi, quelli della brillante Natalia Ginzburg in cui non solo nel celebre Lessico famigliare (Einaudi 1963), libro dichiarato autobiografico, troviamo l’ossessione di Natalia per le sue origini, per il concetto di famiglia, ma anche in capolavori come Caro Michele (Mondadori 1973; Einaudi 1995), o ancora La città e la casa (Einaudi 1984).
Forse per il tema trattato, forse per la sua delicatezza ed eleganza, Natalia (fortunatamente) non ha dovuto in alcun modo opprimere la propria arte per restare la meravigliosa scrittrice che tutti ricordiamo. Ma non per tutti è stato così, basti pensare a Marosia Castaldi, scrittrice napoletana del 1951 mancata l’anno scorso, dopo aver toccato la grande editoria e poi da essa dimenticata. Dimenticata perché la sua narrativa, almeno a giudicare dal libro che sto leggendo, Che chiamiamo anima (Feltrinelli 2002), e di cui appena possibile vi parlerò, poco si confaceva con la scrittura spesso piatta, da veri sceneggiatori e non da narratori, che oggi il mondo editoriale chiede per soddisfare lettori sempre più “smart”, tanto per citare un termine molto amato dalla nostra generazione “social”.

Personalmente ho conosciuto Marosia Castaldi solo grazie alla mia maestra, Antonella Cilento, e ciò la dice lunga, perché tutti conosciamo il nome di autori commerciali quali De Giovanni, Elena Ferrante, Missiroli o persino di fenomeni da baraccone come la De Lellis, ma quanti conoscono Marosia Castaldi? Quanti conoscono questa raffinata scrittrice probabilmente lasciata da sola proprio perché non ha compromesso la sua scrittura poetica, amata e custodita solo da chi ama veramente i libri e ancora crede che scrivere sia altro, sia appunto sfiorare quei demoni, e quelle voci, e quelle parole che strisciano nella nostra anima quando tutto il resto fa silenzio. Quell’ossessione per un sogno che non ha una sola forma, ma si dilata in mille filamenti che pulsano sangue nel nostro cuore, una linfa che ci alimenta ma a cui non sappiamo dare un nome, ma che c’è, e senza di essa ci sentiamo mutilati, peggio che morti: vuoti.
Ma uno scrittore può essere libero? E può esserlo oggi?
Vorrei avere una risposta. Vi ho portato esempi, e ce ne sono tanti, troppi. Persino nell’ottocento Hugo ha dimostrato la sua ossessione per i poveri e per divergenze sociali, non avendo spesso vita facile per questo.
Ci sono scrittori a cui fortunatamente è andata bene, altri che hanno sofferto e sono spariti da soli, dimenticati, e altri ancora che hanno smesso di essere scrittori.
È questa forse la parte più triste della vita di uno scrittore, comprendere che per avere il riconoscimento della propria identità, ossia quella di scrittore in un preciso tempo storico e nel mondo, ci si deve scontrare con una società che vuole tutt’altro che scrittori, ma solo menestrelli.
Oggi, qui in Italia, i pochi scrittori veri che restano, quelli che non si sono venduti al compromesso e svilito la propria scrittura, sono scrittori e scrittrici venuti alla ribalta (fortunatamente per noi lettori) almeno vent’anni fa e che oggi lottano con le unghie e con i denti per mantenere intatta la propria identità, pur restando, purtroppo, meno celebri di tanti menestrelli, meno inseguiti di loro da agenti ed editori, persino quando hanno vinto grandi premi e hanno un curriculum letterario immenso. E se loro, giganti della narrativa, veri letterati, devono lottare per mantenere il proprio posto e farlo senza dover compromettere la propria scrittura e il loro essere scrittori, quanto più può essere duro per un esordiente? E quando un esordiente ha un cuore onesto, almeno verso la propria scrittura, può forse evitare di chiedersi: voglio fare parte di tutto questo?
Ma resta un cane che si morde la coda, perché unica soluzione, al di là del compromesso, sembra essere rinunciare a essere uno scrittore, almeno pubblicamente.
Personalmente vivo questo dramma ogni giorno, e in un giorno ogni ora, e in un’ora ogni minuto, con la stessa intensa ossessione che mi porta a scrivere.
Dopo anni di studio, batoste e riconoscimenti, posso dire senza finta modestia di avere delle capacità, un certo talento e una spiccata sensibilità. Eppure sento la mia scrittura ancora acerba, non come la vorrei. E non sto parlando di inesperienza, che ovviamente c’è, né sto parlando di miglioramenti da fare, e che ovviamente vanno fatti; parlo di altro, di qualcosa che sente dentro di sé soltanto la persona coinvolta.
Sto scrivendo ciò che voglio e come voglio?
Ed eccola di nuovo la domanda, ossessiva, mani che ti strangola continuamente.
Perché scriviamo? Uno scrittore può essere libero?
Ultimamente questa domanda mi tormenta ogni notte, ogni volta che mi trovo da solo davanti la pagina.
Sto scrivendo come voglio? Lo sento il demone urlare in me? E questo demone potrà permettermi di avere il mio riconoscimento come scrittore, oppure è qualcosa di sbagliato?
Sono giunto alla conclusione che la sola risposta sia fottersene!
E ripeto, non travisate le mie parole, non sto dicendo stronzate del tipo che “bisogna scrivere con il cuore”. Affatto! Perché per arrivare – e lo ripeto di nuovo – a questa consapevolezza bisogna aver prima imparato a scrivere per davvero, e dedicarsi ogni giorno alla scrittura, viverla con ossessione, con puro ardore, non come sfogo emotivo o esercizio stilistico. Perché scrivere è una vocazione. Essere uno scrittore non è solo un mestiere, non è un orpello da esibire né un guizzo passeggero, me è un modo di essere. E quotidianamente, ogni volta che affronto la pagina, oggi mi chiedo: sono lo scrittore che sono per davvero, o sono il fantoccio di uno scrittore che scrive così come vorrebbe il padrone della fabbrica?
So qual è la risposta, ma nella mia voglia di riuscire finalmente a ricevere pubblicamente il nome che mi spetta, mantenere la lucidità e l’onestà intellettuale è sempre una lotta dolorosa, sanguinaria, in cui si annega nelle lacrime di notti solitarie passate fra parole e frasi che pensi non ti porteranno da nessuna parte.
Non vendersi è difficile, è doloroso.
Mi chiedo se Kafka si fosse venduto, cosa avremmo oggi di lui?

Non che io voglia paragonarmi a Kafka, assolutamente, non fraintendete, non ho neppure un’oncia del suo genio, né semplicemente nel mio stile potrei trovare una minima analogia con il suo stile. Ho menzionato lui perché, come detto, e come forse alcuni hanno intuito, lui rispecchia pienamente tutto ciò che ho scritto finora.
Kafka incarna lo spirito dello scrittore. L’ossessione allo stato puro, morboso.
Pensiamo alla trama e alla struttura di libri quali Il processo, America o Il castello; le dinamiche sono molto simili, il messaggio è univoco, il protagonista sembra sempre lo stesso.
Oggi cosa avrebbe detto un editore a Kafka: «Franz, cambia un po’ genere! Non vedi che è sempre la stessa roba? Esposta in modo diverso, sì, ma il succo è quello! Li vuoi sorprendere o no i lettori?».
E la sua voce autoriale opprimente, contorta, simile a spire di un serpente che circondano il lettore per poi avvolgerlo in spire e spire e ancora spire di parole, e di frasi?
«Franz, ma lo vedi non si capisce una mazza? Più semplice, lineare. Il lettore così si perde! Show, don’t tell! Quante volte te lo devo dire?».
Ma Kafka era uno scrittore, non un menestrello, e seppur soffrendo come una bestia – e chi ha letto i suoi diari lo sa – per il mancato riconoscimento della sua arte, non è cambiato, non ha smesso di inseguire le sue ossessioni e muoverle sul foglio così come si addentravano nei meandri della sua anima.
Kafka è lo scrittore puro, e la logica editoriale lo ha bistrattato, umiliato, percosso fino alla sofferenza ultima di uno scrittore: l’emarginazione in vita. Il non riconoscimento di una vita passato a scrivere. Il sentire di aver vissuto per nulla, al punto da decidere di bruciare tutte le proprie opere prima di morire.
Una cremazione del cuore prima ancora del corpo.

Ogni volta che penso allo scrittore che desidero essere, io penso a Kafka, perché credo che nessuno più di lui, vissuto un secolo fa, sia riuscito a incarnare il nostro tempo, diversamente dai tanti menestrelli che invadono i salotti letterari e le classifiche.
Dopo avervi portato estratti di alcuni suoi romanzi e qualche racconto, parlando ora di ossessioni voglio mostrarvi una delle ossessioni di Kafka presente in tutta la sua opera: suo padre.
Quella che state per leggere è una lettera di Kafka scritta a suo padre nel 1919, pubblicata poi nel 1952 e giunta in Italia nel 1959, grazie a Il Saggiatore.
Kafka era ormai morto da quasi trent’anni.
Spero che ciò possa farvi comprendere il mio lungo ma sentito discorso e, per chi non lo conoscesse ancora, farvi amare un vero scrittore come Kafka.
Cliccando qui potrete scaricare il PDF oppure cliccare il link e leggerlo online .