Se una storia non nasce da un’inquietudine, perché scriverla?

Abbiamo già parlato di cose come la storia in tre atti, il conflitto interiore e il nucleo atomico di una storia, ma visto che molti mi espongono spesso dei dubbi, ho deciso di unire i tre argomenti e farlo a partire dal conflitto interiore.

Vi è mai capitato di leggere un romanzo che vi appare disarticolato? A me spesso. Sembra che gli avvenimenti succedano per caso e i personaggi si muovano subendo gli eventi anziché reagire a essi in modo logico con il loro modo di essere.

Questo succede quando i personaggi sono inesistenti, o meglio, quando lo scrittore non li conosce.

Abbiamo parlato tante volte di Georges Simenon. Perché i suoi personaggi sono indimenticabili? Perché lui sapeva spingere i loro conflitti fino al limite massimo, e poteva farlo perché di loro conosceva tutto, ogni pensiero, ogni loro gusto.

Chi ha letto la bellissima intervista rilasciata da Simenon, presente in quest’area del sito, sa che lui era solito raccogliere per anni informazioni sui propri personaggi. Raccoglieva il materiale in apposite cartelline, poi, quando sentiva che una delle sue storie era pronta per essere scritta, si metteva al lavoro e in due settimane finiva il romanzo.

Poteva farlo così velocemente e così bene perché sapeva tutto dei suoi personaggi, gli erano intimi, conosceva cosa volevano e di cosa avevano paura o anche cosa credevano di volere e cosa credevano di temere.

È proprio questo che muovo un personaggio: il conflitto interiore, un tema di cui abbiamo in parte parlato ma che, proprio come il punto di vista narrante, è sempre bene affrontare.

Prima di tutto, cos’è il conflitto interiore?

Il conflitto interiore è il mondo psichico, affettivo e materiale che negli anni ha formato un personaggio, ed esso quotidianamente è messo in discussione, a livello positivo o negativo, da fattori esterni. Dunque il conflitto interiore non è solo il modo in cui un personaggio risponde a un avvenimento, no, il personaggio risponde in un determinato modo a un avvenimento proprio perché esso ha messo in conflitto un mondo interiore che lo definisce a livello psichico, affettivo e sociale. Infatti, ogni conflitto si muove sempre su tre livelli: psicologico, affettivo e sociale: il mondo interiore e mentale del personaggio, le sue relazioni affettive, la società in cui vive.

Quando un evento esterno stimola uno di questi aspetti della vita di un personaggio, inevitabilmente vengono coinvolti tutti gli altri, una reazione a catena. Se non accade vuol dire che il personaggio è incompleto.

Un uomo che perde il lavoro vivrà per forza un dramma a livello sociale, dunque economico, persino d’immagine, e questo dramma, che ovviamente si ripercuoterà sul suo mondo interiore, influenzerà anche il suo mondo affettivo: partner, figli, parenti, amici.

E cosa farà l’uomo in questione? Cercherà di trovare una soluzione, di ristabilire l’equilibrio, in questo caso di trovare un nuovo lavoro. Perché lo scatenarsi di un conflitto è sempre dovuto a qualcosa che mette in crisi il mondo ordinario del personaggio, e lui farà di tutto (almeno si spera) per ristimare le cose. E come lo farà?

Con il bagaglio di emozioni che lo hanno formato durante il corso della vita.

Un uomo fragile potrebbe cadere in depressione a seguito della perdita del lavoro, ciò potrebbe causare problemi nella sua sfera affettiva, complicare le sue relazioni sociali, non suscitare fiducia in possibili nuovi datori di lavoro.

Diversamente, una persona rabbiosa potrebbe persino decidere di vendicarsi, progettare l’omicidio di chi lo ha licenziato, e ciò potrebbe rendere difficili, brutali i suoi legami affettivi, avrebbe di certo ripercussioni sull’ambiente sociale da lui frequentato, i nuovi possibili datori di lavoro potrebbero evitarlo, reputarlo un cane sciolto.

Dunque, non si tratta solo di determinare una svolta che metta in crisi il mondo del personaggio, ma di risvegliare appunto i suoi conflitti: il mondo interiore che si porta dentro e che lo rende unico nell’agire verso se stesso, verso i propri cari e verso chi incontra in società.

Per farlo bisogna conoscere benissimo i propri personaggi, come Simenon. Sapere cosa desiderano a livello conscio e inconscio e qual è il loro vissuto. Dobbiamo conoscere persino i personaggi che non metteremo in scena se questi hanno contribuito a rendere un personaggio così com’è.

Simenon lo faceva. Pensate, lo fanno persino (lo si spera) gli sceneggiatori delle “meravigliose” serie tv italiane, costruiscono quella che viene chiamata La Bibbia dei personaggi, ossia una scheda dettagliata di tutti i personaggi in cui è contenuta la loro vita e i loro affetti fin dal primo anno di vita e ancor prima, scavando nelle origini materne e paterne, in tutto ciò che ha influenzato il mondo interiore del personaggio e, dunque, il suo modo di rapportarsi con se stesso, con gli affetti e con le persone in società.

Se fatta bene, conosceremo i nostri personaggi, sapremo cosa vogliono o cosa credono di volere, come si muovono nei tre livelli del loro mondo, come reagiscono quando una svolta intralcia il loro cammino e dunque che tipo di conflitto si innesca in loro.

Oggigiorno mi sembra che spesso i narratori vadano a caso e pensino di continuo cose del tipo: «E adesso cosa gli faccio fare?». Cosa farà un personaggio dovremmo saperlo benissimo, caso mai dovremmo chiederci: «E ora cosa succede?». Perché non esiste certo una sola svolta in una storia, che si tratti di un romanzo o di un racconto, ne esistono tante, e ognuna ha il compito di allontanare sempre più l’oggetto del desiderio – conscio o inconscio – dei personaggi, aumentando il loro conflitto interiore e farli muovere, in crescente, in ogni dinamica che li coinvolge. Solo così la storia andrà avanti e sarà interessante, perché interessanti saranno i vostri personaggi.

Torniamo sull’uomo rabbioso che ha perso il lavoro, okay? Chiamiamolo Tony. Allora, Tony è cresciuto con un padre autoritario, manovale in una fabbrica e convinto che il lavoro e il guadagno siano tutto, anche se non è mai eccelso in nulla. Sua madre è invece una casalinga vittima del marito che bada solo alla casa. Tony ha un fratello più piccolo, Luca, diversamente da lui molto gracile. In un ambiente simile Tony potrebbe diventare molte cose, magari omosessuale, visto il rifiuto nei confronti della figura paterna, però, probabilmente perché è grosso di corporatura, forse perché ha sempre dovuto proteggere il suo fratellino, Tony è diventato una persona rancorosa, aggressiva e arrivista.

Con questo background, come reagirà alla perdita del lavoro, avvenuta magari a causa di un superiore che lo detesta?

Da persona rabbiosa e frustrata, ovviamente. Inoltre con una figura paterna come la sua vedrà il licenziamento non solo come un problema di natura economica, quanto un vero fallimento: la risata paterna gli risuonerà in testa come un insulto.

Allora Tony, mentre cerca lavoro, rimugina e rimugina e pensa sempre al suo superiore. Con sua moglie, che di certo non è una persona più forte di lui, perché un rabbioso non sceglierebbe mai una persona più forte, non potrà che sfogare la propria rabbia, come faceva suo padre con sua madre. Di certo anche con gli amici non sarà più lo stesso, perso nella sua idea di vendetta. Magari maltratterà persino l’amante.

Cosa vuole Tony? Vuole solo riprendersi il lavoro e vendicarsi contro il proprio superiore?

Affatto! Perché la personalità di Tony ha radici più profonde, i suoi conflitti sono antichi, il licenziamento e la persecuzione dal parte del superiore li hanno solo risvegliati, spazzando via le sue sicurezze.

Tony vuole essere migliore di suo padre, e nel farlo non si rende neppure conto di essere come lui. E allora mentre il padre urlava solo, lui pensa di comprare una pistola. La compra. Spende quasi mille euro, e così le cose in famiglia peggiorano, con gli amici evita di uscire perché ora i soldi sono pochi. Inoltre, perso nella sua vendetta evita di cercare un lavoro, creando altre liti con sua moglie, magari l’amante lo molla, gli amici iniziano a pensare che lui non stia tanto bene con la testa, e questo lo rende sempre meno voluto in società.

Poi succede che ammazza l’uomo, ma non solo questo non gli dà la gioia che credeva, viene pure arrestato.

Le cose si complicano ancora di più.

Tony in galera si rende conto di non essere forte come credeva. Sua moglie è disperata e cade nelle avance di un amico di lui. Luca, suo fratello, adesso lo vede come suo padre e ne ha paura. Inoltre Tony viene pestato da uno dei boss del carcere, Poldo.

Inizia un nuovo motivo di odio per Tony, e così via.

Ovviamente ho pensato tutto al momento, ma come vedete le reazioni di Tony provengono da un passato che magari nella storia sarà appena accennato, ma che influirà su tutte le sue scelte: il conflitto di Tony reagisce in modo personale agli eventi che determinano le svolte della storia, e lo fa cercando ciò che lui desidera o crede di desiderare, il fattore che nel suo mondo psichico gli darà la felicità.

Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo parlato di svolte, no? Svolte che seguono un crescente in cui i personaggi si trovano a dover affrontare situazioni sempre più complesse, dunque è bene rispolverare la struttura della storia in tre atti.

Diversamente da quello che, purtroppo, alcuni credono, la storia in tre atti non è stata inventata negli USA e a farlo non è stato certo Robert McKee, bensì i filosofi greci, e noi narratori – si spera – facciamo riferimento sempre, come una vera Bibbia, alla Poetica di Aristotele.

In sintesi Aristotele dice: La tragedia deve avere un principio, un mezzo e una fine (ordine), e deve riuscire a rappresentare il passaggio dalla felicità all’infelicità o viceversa dei protagonisti nel giusto lasso di tempo (estensione).

È l’unità d’azione aristotelica, a cui tutti noi ci ispiriamo da sempre.

Dunque la svolta che innesca il conflitto del protagonista non è altro che l’inizio della storia: tutto ciò che viene prima è la norma del protagonista, il suo mondo psichico, affettivo e sociale che lui vive in modo personale a seconda del suo retaggio emotivo, famigliare e sociale; il mondo che lui cercherà di ristabilire nel corso di tutta la storia, talvolta scoprendo i suoi veri desideri, magari in contrasto con ciò che credeva di volere, altre volte non ottenendo ciò che voleva e uscendo dalla storia – vincente o perdente che sia – totalmente diverso. In ogni caso il personaggio deve attraversare quello che è il mezzo, ossia il secondo atto di un romanzo, la parte più complessa in quanto non è lineare, ma è un crescente di difficoltà che portano a un’apparente risoluzione (Climax) che si sfalda dinnanzi al protagonista (Anticlimax) e lo conduce verso eventi ancora più complessi, fino a un punto in cui non potrà tornare indietro, e dunque alla fine. Nel mezzo, ovvero nel secondo atto, si gioca l’intera partita, perché, come abbiamo detto, lì avvengono le svolte affrontate dal protagonista, svolte che provano sempre più i suoi desideri, lo portano a fare scelte che si basano appunto su questi desideri, e dunque sul suo conflitto interiore. Ma abbiamo detto che il conflitto del nostro protagonista non si muove solo in un mondo psichico, neppure ne La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, o nell’Ulisse di Joyce. I conflitti che lo smuovono si scontrano con il mondo affettivo e sociale, e qui ci sono altri personaggi, dunque il suo relazionarsi con loro porterà questi personaggi a dover fare a loro volta un cammino fatto di scelte, pieno di svolte: svolte che accenderanno i loro conflitti interiori che, a loro volta, si muoveranno in un contesto mentale, affettivo e sociale.

Diversamente, un personaggio non serva a nulla, se non come sfondo o comparsa utile all’azione di altri personaggi, e in quanto tale non serve a niente definirlo.

Ecco perché inizialmente parlavamo dei personaggi e non del protagonista, perché una storia, che sia un romanzo o un racconto, prevede sempre un intreccio di personaggi, pochi o numerosi che siano, ed essi devono essere tutti vivi, e per esserlo devo avere un mondo mentale, affettivo e sociale che si muova in virtù di desideri consci o inconsci, e che venga smosso da un conflitto esterno che inneschi quelli interni.

Ma lasciamo il campo dell’improvvisazione del nostro Tony e portiamo esempi usando un libro che di sicuro avete letto: I miserabili, di Victor Hugo; perché l’avete letto, vero? Vero?

Allora, Jean Valjean è un giovane potatore di Faverolles che, perso il lavoro a causa della miseria portata dalla rivoluzione, per sfamare ben sette nipoti, figli di sua sorella e orfani di padre, ruba un pezzo di pane, e per questo viene condannato a ben cinque anni, nel 1796. Ne esce dopo 19, a causa dei diversi tentativi di evasione, e vieni liberato solo grazie a un’amnistia nei primi giorni del 1815.

Da qui capiamo subito chi è Jean Valjean: è un uomo povero in un tempo di rivoluzione, dove comunque ai poveri non è permesso alcun riscatto, nonostante ciò è una persona che ha lavorato. Arriva a rubare del cibo solo per aiutare delle persone, e per questa minuzia, proprio in quanto povero, è condannato a ben cinque anni.

Dunque Jean Valjean è vittima di un’ingiustizia. A giusta ragione tenta di scappare! Ma viene ripreso più volte, la pena è allungata di altri 14 anni e quando esce viene marchiato come forzato recidivo, pericoloso, di conseguenza vagabonda senza trovare lavoro e senza traccia alcuna dei suoi precedenti legami. A Digne incappa nel pio monsignor Myriel che gli dà ospitalità per la notte e lo fa rifocillare. Ma vissuto com’è vissuto, cosa può fare Jean Valjean?

Semplice, ruba dei candelabri d’argento e scappa, ma è acciuffato da alcune guardie e riportato da Myriel, assieme alla refurtiva. Però a sorpresa di Jean Valjean il monsignore dichiara alla guardia di avergli volontariamente regalato i candelabri, togliendolo dai guai.

E come può reagire uno come Jean Valjean dinnanzi a un simile gesto di carità e amore?

Ricordiamo chi era Jean Valjean prima di essere condannato ingiustamente, no?

Si converte! O meglio, torna se stesso.

Grazie ai due candelabri, che però non vende, e a una somma a lui donata da monsignor Myriel, decide di cambiare vita.

Dunque, ecco, una svolta positiva mette in moto la storia e lo fa risvegliando i desideri che Jean Valjean si porta nel cuore: vivere una vita dignitosa.

Trasferitosi a Montreuil-sur-mer si rifà una vita e diventa Monsieur Madeleine. Lavorando sodo riesce ad acquistare un vecchia fabbrica e grazie a essa dà lavoro a tantissime persone (Altro conflitto positivo: torna l’uomo generoso che ruba per sfamare gli altri), ristabilendo prosperità nella cittadina al punto che decidono di eleggerlo sindaco.

Come vediamo, le azioni di Jean Valjean sono coerenti, e tutte le svolte sono in salita verso un bene, ma a Montreuil-sur-mer incappa nel ligio e cinico ispettore Javert, uomo che ha lavorato in prigione al tempo in cui Jean Valjean era carcerato e che in lui scorge i tratti di un forzato di cui non ricorda il nome, tenendo per sé i sospetti ma indagando.

Qui la narrazione fa un salto temporale di circa otto anni e vengono inseriti altri personaggi, e con loro iniziano i guai anche per Jean Valjean, perché, come abbiamo detto, ogni personaggio è guidato da un conflitto esploso in lui, e questo conflitto si scontra con il suo mondo interiore, ma anche con quello affettivo e sociale, in cui sono immersi gli altri personaggi della storia.

Senza questo, non si può neppure azzardare a pensare a un intreccio.

Comunque sia, conosciamo la giovane e bella Fantine, una ragazza di buona famiglia che, dopo essere stata sedotta e abbandonata da un avvenente e ricco giovane, incinta, decide di fuggire via, pur di mantenere con sé la propria bambina: la piccola Cosette.

Dunque, quali sono i conflitti che esplodono in Fantine a seguito dell’abbandono del ragazzo e della scoperta di essere incinta?

Lei è cresciuta in una famiglia benestante e dunque rigida, questo le ha inferto una sorta di pudore, ma al tempo stesso Fantine è una ragazza che si è fatta imbrogliare da uno che, da come viene mostrato, è un uomo di certo abituato a sedurre e abbandonare le donne, identificabile palesemente come un dongiovanni. Dunque Fantine è anche una sognatrice, un cuore puro, e come tale non intende abbandonare sua figlia.

Fuggita, mostra ancora una volta la propria ingenuità affidando la piccola Cosette ai Thénardier, un’avida famiglia che possiede una misera locanda a Montfermeil. Fantine, infatti, sa bene che difficilmente una ragazza madre potrebbe trovare lavoro, quello che non sa è che i Thénardier intendono solo incassare i soldi che Fantine promette di mandare loro mensilmente, e intanto usare la piccola Cosette come sguattera.

Fantine si trasferisce a Montreuil-sur-Mer, dove trova lavoro proprio nella fabbrica di Jean Valjean – ora l’onesto e amato sindaco Madeleine – amato da tutti perché, appunto come è logico seguendo la psicologia del personaggio, con l’accrescere della sua fortuna è aumentata la sua benevolenza verso i cittadini.

Però la malvagità di una vecchia, gelosa di Fantine, fa sì che lei perda il posto perché denunciata come ragazza madre. Fantine cade in miseria, il suo solo pensiero è quello di mandare i soldi a Cosette, dunque, dopo mille tentativi per trovare del denaro, finisce a fare la prostituta.

Anche qui, nel male, la risposta al problema coincide con il desiderio di Fantine: proteggere Cosette. I problemi diventano più grandi, la risposta è ancora più grande; se lei non paga Cosette finirà in strada? Lei dunque è pronta anche a prostituirsi.

Fantine crede che il responsabile del suo licenziamento, e dunque della sua miseria, sia il signor Madeleine, che invece neppure sa della sua esistenza. Una sera, ubriaca, aggredisce un cliente e viene arrestata, per poi essere condotta da Javert.

Qui Madeleine, ossia Jean Valjean, esercita il proprio potere contro l’ispettore, così da liberare Fantine, ma inimicandosi ancor di più l’ispettore Javert, sempre più intenzionato a fare verità.

Jean Valjean si prende cura di Fantine, le promette di ridarle la bambina, ma proprio quando si mette sulle sue tracce, uno spiacevole caso gli impedisce di salvarla: un ladro viene arrestato e scambiato per lui, dunque rischia la galera a vita.

E cosa fa Jean Valjean? Un gesto ancora più grande di quelli fatti precedentemente, perché la svolta è più grande, di conseguenza il conflitto che smuove il personaggio: va al processo e confessa la propria identità.

Mi fermo qui, per non rovinare la sorpresa a quei miserabili che non hanno ancora letto I miserabili: provvedete subito!

Comunque, avete notato come persino un semplice riassunto non risulta slacciato? Persino quando nella storia facciano un lungo salto temporale.

Perché?

Perché le decisioni dei personaggi vengono prese seguendo la dinamica Causa/Effetto e sono sempre coerenti con il conflitto interiore che smuove ognuno di essi: conflitto che, come avete visto, intreccia a livello mentale, affettivo e sociale i personaggi.

Ma come si fa?

Ricordando lo schema di Robert McKee presente in Story, Omero edizioni, come abbiamo detto ogni personaggio per poter compiutamente esistere sulla pagina deve essere animato da un conflitto interiore che si riverbera sulla sua condizione fisica (e viceversa). Il conflitto, così come lo definisce Aristotele, nella tragedia è un’antica colpa, un senso di colpa, talvolta. Ma può trattarsi anche di un aspetto del carattere che diventa centrale, persino un eccesso di empatia può essere un conflitto e risultare la molla in base alla quale il personaggio si caccerà nei guai.

Intanto, McKee dice che però il personaggio deve riflettere il suo conflitto su un secondo livello, i rapporti familiari (famiglia d’origine e tutti quelli che fanno famiglia intorno al personaggio) e anche su un terzo livello, i rapporti sociali del personaggio (per esempio il lavoro), appunto come abbiamo visto.

Okay, Robert McKee, ma come si fa?

Potrei scannerizzare tutto il meraviglioso e utilissimo manuale di McKee, e così tanti altri manuali di scrittura, ma non cambierebbe nulla, e non certo perché studiare non serve, anzi, studiare è la base, ma solo perché per rendere i nostri personaggi credibili non basta la tecnica, no, un esercizio puramente stilistico si vede subito, e annoia il lettore forte; l’improvvisazione, poi, peggio ancora.

Dunque, come si fa? Si fa che se un conflitto non inquieta prima noi, difficilmente potrà farlo con il lettore, perché vuol dire che non ci importa fino e in fondo di ciò che scriviamo. Questa cosa fa la differenza, e non la si apprende da un manuale, è una delle prime cose che ti insegnano nelle scuole di scrittura serie: attingere da ciò che ci tormenta. Scrivere qualcosa che per noi è importante. Dar vita a un’immagina radicata in noi e che vediamo come indispensabile.

Non vuol dire scrivere di noi, è diverso, né di un fatto vissuto, ma di un pensiero, un’immagine che si è impressa nella nostra testa e diventa per noi fondamentale. Se fosse solo autobiografia, allora Bret Easton Ellis per scrivere American Psycho avrebbe dovuto essere un serial killer, e aveva semplicemente quell’immagine ossessiva da portare su carta, era per lui necessaria, come tantissimi prima e dopo di lui; com’era fondamentale per Hugo parlare delle divergenze sociali, pur non essendo lui un povero.

C’è un’immagine radicata in chi non scrive per gioco (e purtroppo ne esistono tanti) che diventa pura ossessione. Julio Cortàzar lo definiva Nucleo atomico di una storia, ossia un’immagine così potente in noi da creare altre immagini, appunto una storia.

Cosa rende necessario ciò che inventiamo? Quali sono le ragioni sensibili che ci portano alla scrittura?

Può essere un’immagine del nostro passato, qualcosa che abbiamo visto in strada e non abbiamo mai dimenticato, una delusione, una ferita, una gioia, un sopruso, l’aver assistito a un omicidio, aver visto le persone morire di fame.

La nostra vita mentale, affettiva e sociale ci porta a vedere infinite cose, ma non tutto resta in noi, perché non tutto è importante, e in narrativa ciò che non serve va eliminato. Dunque la prima cosa è trovare il Nucleo atomico della nostra scrittura, tralasciando tutte le altre cose che ci porterebbero a scrivere storie banali e creare personaggi privi di sangue e di carne. Trovato quello, allora le immagini inizieranno a sorgere da se, si potranno raccogliere i pezzi, proprio come faceva Simenon con le sue cartelline, e la storia sarà reale, i personaggi vivi, perché li conoscerete a fondo.

Come vedete non si tratta solo di studiare una tecnica, ma è qualcosa di più, di molto intimo, perché la scrittura, quella vera, quella necessaria, è sempre qualcosa di intimo.

Non a caso questo Nucleo atomico si trova nel contesto mentale, affettivo e sociale in cui viviamo, e non a caso lo percepiamo solo noi, formati e plasmati in modo unico nel nostro contesto mentale, affettivo e sociale, reagendo alla vita in un determinato modo a seconda dei conflitti che ci portiamo dentro. Sì, perché se un personaggio di un romanzo ha dei conflitti che si muovono in un determinato modo, perché non dovrebbe essere lo stesso per noi? E se non riusciamo a scovare il nostro vissuto, i nostri conflitti, come possiamo sperare di comprendere appieno i conflitti di una creatura immaginaria?

Dunque, vedete, la risposta c’è, ma è la più difficile, non è una tecnica che si apprende a memoria, non è un mero esercizio stilistico. Se lo scrittore non va a fondo nei propri conflitti, nella propria storia, a costo di scontrarsi con i propri demoni, non potrà mai trovare la sua immagine di controllo, dunque la sua scrittura sarà sempre disonesta, piatta, perché non dirà ciò che davvero l’ossessione, di conseguenza i i personaggi non saranno ossessionati, ma solo pupazzi.

Vi lascio consigliandovi Memorie intime di Georges Simenon, edito da Adelphi. Leggetelo. Poi leggete una decina di suoi romanzi a casa, non i gialli, e vedrete che i personaggi di Simenon funzionano sempre perché in essi ci sono le stesse ossessioni dell’autore.

Spero che questo articolo vi sia stato utile.

2 pensieri riguardo “Se una storia non nasce da un’inquietudine, perché scriverla?”

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