Quando Umberto Eco dichiarò che, in sintesi, i social media hanno dato diritto di parola a legioni di deficienti, non mostrò altro che la punta dell’iceberg di una problema molto più profondo, ormai radicato nel tessuto sociale del nostro tempo e nella mentalità umana. Mai come oggi potremmo trovare calzanti analogie fra il nostro tempo e il saggio dello psicologo e filosofo Erich Fromm: Essere o avere; anche se forse, a dirla tutta, il titolo più idoneo alla nostra realtà sarebbe Essere o apparire.
I social e la gestione coatta del web hanno dato modo non solo a tanti, a tutti, di mettere bocca su qualsiasi cosa, ma di avere un palco dove esibire e celebrare se stessi e una propria presunta arte. Questo termine, arte, oggi ha perso valore e significato. La parola arte, nel suo concetto più vasto, definisce ogni tipo di forma creativa ed estetica che, avvalendosi di abilità innate e acquisite, sviluppate grazie ad accorgimenti stilistici e tecnici derivanti dallo studio e dall’esperienza, riesce a suscitare emozioni e messaggi tramite un linguaggio che potremmo definire universale, in quanto frutto di un indubbio codice maturato nei secoli. Dunque l’arte non è solo l’effetto di un fattore puramente emotivo, ma un vero linguaggio che si acquisisce studiando. Ogni innovazione artistica, come ci insegnano in particolare molti maestri della letteratura e della pittura, trova origine nelle basi classiche dell’arte in questione.
Riepilogando, l’arte non è solo un puro guizzo emotivo, ma il frutto di una disciplina appresa nel tempo grazie a studio e dedizione. Oggigiorno, invece, essere un’artista sembra una cosa facilissima, un merito e un titolo raggiungibile in un attimo, giusto il tempo di pubblicare una frase o una foto su Facebook.

La pubblicazione di un libro con un minuscolo editore o addirittura in self publishing ci rende scrittori. Uno spettacolo teatrale allestito in un sottoscala fa di noi dei registi o drammaturghi. Un banale cortometraggio prodotto dalla municipalità di turno ci rende dei registi o sceneggiatori. Una comparsa in una qualsiasi fiction fa di noi degli attori, e una banana appesa al muro ci rende degli scultori. Il tutto, tragicamente, ci fa credere di essere artisti.
Fosse anche una banana appesa al muro una scultura, potrebbe comunque essere definita arte al pari – o almeno sulla scia – di un capolavoro di Donatello?
Non è più il solo concetto di creatività a essere svilito, quanto il metro di misura che separa l’arte da un qualsiasi lavoro creativo. Inoltre, anche sul concetto di lavoro creativo, e ancor più di lavoro in sé, ci sarebbe tanto da discutere. Ovunque ci si presenta come scrittori, drammaturghi, attori, sceneggiatori e pittori, ma poi, a conti fatti, da dove si prendano realmente i soldi per campare lo si dice raramente: milioni di artisti che trovano il proprio sostentamento in lavori per nulla artistici o addirittura da famiglie larghe di mano, pronti a nascondere questo aspetto con le unghie e con i denti.
Mi sovviene la bellissima scena del film Ecce Bombo in cui Nanni Moretti chiede alla figlia dei fiori: «Sì, ma i vestiti, il cibo, le sigarette come le compri?», e lei risponde in modo vago con un: «Faccio cose, vedo gente».
Ora, se questa distorsione dell’arte coinvolgesse solo migliaia, fossero anche milioni, di sconosciuti che giocano sui social network, non ci sarebbe nulla da preoccuparsi; se questa deturpazione del concetto di talento riguardasse solo qualche Influncer, degli Youtubers o qualsiasi altro fenomeno improvvisato che sfrutta i social network, non ci sarebbe nulla di pericoloso. Il problema è che non ci si trova in un panorama artistico/culturale di alto valore deturpato dall’invasione di artisti improvvisati, anzi, è proprio l’attuale scenario artistico/ culturale – se tale si può definire – a far passare il messaggio che fare arte è facile, alla portata di tutti, e che ci si può persino arricchire senza molti sforzi: altro messaggio fasullo, in quanto ben pochi creativi, soprattutto in ambito editoriale, vivono soltanto grazie alla propria “arte”.
Oggigiorno un libretto che parla di corna arriva in finale a grandi premi letterari, un film pieno di camorristi stereotipati vince grandi premi, e un qualsiasi cabarettista che appare in tv può ambire ai più prestigiosi teatri.

Non si tratta più solo di svilimento del concetto d’arte, quanto una confusione dei ruoli, una Babele in cui non si riesce più a definire la differenza fra creatività, arte, e semplice intrattenimento.
È incredibile come questa necessaria divisione dei ruoli fosse più chiara duecento anni fa che oggi, una regressione che non ha portato solo a creare un calderone pieno di incapaci, ma un tale appiattimento del concetto artistico in ambito letterario da far passere come capolavori del libri che non possono neppure reggere il paragona con la narrativa d’intrattenimento di duecento anni fa.
L’arte anziché progredire regredisce, una situazione che dovrebbe farci porre delle domande.
Un esempio lampante è di certo il capolavoro di Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo. Terminato nel 1844, oggi è conosciuto come un capolavoro della letteratura, ma all’epoca si trattava di un romanzo d’appendice pubblicato sui feuilleton: in sintesi l’equivalente di un fotoromanzo. Eppure Il conte di Montecristo è un classico della letteratura, un libro rimasto nella storia, un’opera che chiunque, persino chi non ha letto il libro, conosce.

Ma cosa rende immortale un libro?
Lo stile, la lingua? Anche, certo, ma soprattutto il messaggio universale che l’opera riesce a fornire: l’arte è un linguaggio antico, abbiamo appunto detto.
Quando un’opera riesce a colpire emotivamente e intellettualmente i più grandi valori e dilemmi umani, a far scattare quelle domande fondamentali da sempre presenti nello spirito umano, allora essa ha un linguaggio universale e immortale: è arte. Ora, se duecento anni fa persino la narrativa d’intrattenimento si prefissava lo scopo di avere un livello non solo qualitativo alto, ma artistico, quanto più ciò dovrebbe succedere oggi, visto che si dà per scontato che l’essere umano si evolva nel tempo?
Riassumendo, è la storia di Edmond Dantès, giovane marinaio appena tornato a casa, in procinto a essere promosso capitano e a sposare l’amata Mercédès, ma proprio il giorno delle nozze è tradito da un suo sottoposto, il perfido e fasullo Danglars, intenzionato a diventare capitano al posto di Edmond. Danglars, usando i sentimenti che Fernand nutre verso sua cugina Mercédès, con una lettera anonima denuncia Edmond come complottista bonapartista, facendolo arrestare. Caso vuole che prima del ritorno a casa Edmond era stato incaricato dal suo capitano, deceduto durante il viaggio, di consegnare una lettera che si rileverà essere davvero un messaggio importante dei bonapartisti, un complotto in cui è coinvolto il vecchio Noirtier, nientemeno che il padre di un magistrato del re, Gérard de Villefort.
Villefort, pur di celare la presenza di suo padre nel complotto, brucia la lettera trovata nella cabina di Dantès, di cui egli stesso ignora il contenuto, e senza proferire parola con nessuno lo fa rinchiudere nelle segrete del castello di If, in cui resta per quattordici anni prima di riuscire a evadere grazie al buon abate Faria, da tutti creduto pazzo perché millanta di possedere la mappa di un enorme tesoro nascosto appunto nell’isola di Montecristo.
Mi fermo qui, anche se, come già detto, dubito che qualcuno non conosca la trama intera di questo storico libro.
Ma cosa rende immenso Il conte di Montecristo?
È davvero difficile scrivere di questo libro, ancor più citandone semplici parti, perché la trama precedentemente riassunta è colma di personaggi principali e numerosi personaggi secondari che, diversamente da semplici comparse, hanno comunque ruoli fondamentali nella storia. Infatti questo romanzo è ricco di svolte e colpi di scena, ma soprattutto è un intreccio perfetto di avvenimenti: nessun personaggio, nessun evento, nessuna azione è lasciata al caso, fa tutto parte di un meccanismo complesso che ha la precisione del miglior orologio.
Durante la lettura si resta affascinati nello scoprire che personaggi inizialmente insignificanti in realtà sono fondamentali per la riuscita del piano tessuto dal conte di Montecristo: una vendetta programmata in ogni minimo particolare, al punto che persino i servitori di cui il conte si serve non sono stati da lui scelti a caso, ma come ogni altra persona sono pedine in un enorme disegno.
Leggendo le vicende del conte si resta affascinati da quest’uomo capace di imbastire una simile vendetta, un uomo che prevede tutto, conosce tutto, guida gli eventi come il più abile burattinaio. Ma il vero burattinaio è appunto Dumas, perché tutto nasce dalla sua fantasia ed è ricamato sulla carta grazie alla sua abilità di narratore.
Ecco perché scrivere in modo degno di questo capolavoro è impossibile, ogni suo tassello spiega l’altro, ogni ricamo ne inizia un altro, è un gigantesco viaggio in una storia complessa in cui ci si immerge in sentimenti quali la rabbia, l’odio, l’invidia, l’egoismo, la malvagità, la vendetta, ma anche la misericordia e l’amore. Un struttura complessa, ben diversa da quella degli attuali romanzi di intrattenimento, ma che non da sola ha permesso a questo libro di diventare appunto un classico della letteratura, quanto i messaggi in esso contenuti, sempre universali e attuali perché toccano le corde intime della natura umana.
Cercherò di darvi alcuni esempi della grandezza di questo libro, anche se, come scritto, non è cosa facile da fare estrapolandone alcune parti. Voglio cominciare con i dialoghi iniziali, proprio per mostrarvi quanto siano diversi dai dialoghi di molti libri d’intrattenimento moderni, e non solo, anche di pluripremiati romanzi.

«Ebbene signor Morrel» disse Danglars, «siete già al corrente della disgrazia, vero?»
«Sì, sì, povero capitano Leclère! Era un uomo bravo e onesto.»
«E soprattutto un eccellente marinaio, invecchiato fra cielo e acqua, come si conviene a un uomo incaricato degli affari di una casa così importante come quella Morrel e Figlio» rispose Danglars.
«Ma,» osservò l’armatore seguendo con gli occhi Dantès, che cercava il punto adatto per l’ancoraggio «mi sembra che non occorra essere un vecchio marinaio, come dite voi, Danglars, per conoscere bene il mestiere. Ecco il nostro amico Edmond che fa bene il suo, e mi sembra un uomo che non abbia bisogno di chiedere consigli a nessuno.»
«Sì» disse Danglars, gettando su Dantès un’occhiata obliqua in cui balenò un lampo d’odio «sì, è giovane, e perciò non teme nulla. Non appena il Capitano è morto, ha preso il comando senza consultare nessuno e ci ha fatto perdere un giorno e mezzo all’isola d’Elba, invece di tornare direttamente a Marsiglia.»
«Quanto a prendere il comando della nave» disse l’armatore, «era suo dovere farlo, come secondo; invece, a perdere un giorno e mezzo all’isola d’Elba ha fatto male, a meno che la nave non avesse qualche avaria da riparare.»
«La nave stava bene, come sto bene io e come desidero che stiate sempre voi, signor Morrel, e questa giornata e mezzo è stata persa per un capriccio, per il solo piacere di scendere a terra, ecco tutto.»
«Dantès» disse l’armatore, rivolto al giovane «venite qui.»
«Scusate, signore,» rispose Dantès «sarò da voi fra un istante.» Poi, rivolto all’equipaggio:
«Calate l’ancora!» gridò.
Subito l’ancora cadde e la catena scivolò rumorosamente. Dantès restò al suo posto, nonostante la presenza del pilota, fino a che la manovra fu terminata, quindi disse:
«Abbassate la fiamma a mezz’albero, la bandiera a mezz’asta, incrociate i pennoni!»
«Vedete,» disse Danglars, «si crede già capitano, parola mia.»
«E lo è, infatti» rispose l’armatore.
«Sì, signor Morrel, salvo che manca la vostra firma e quella del vostro socio.»
«Diamine! Perché mai non dovremmo confermarlo in questo posto?» replicò l’armatore. «É giovane, lo so, ma mi sembra in gamba e molto esperto nel suo mestiere.»
Un’ombra passò sulla fronte di Danglars.
«Scusate, signore Morrel,» disse Dantès, avvicinandosi «ora che la nave è ancorata, eccomi da voi: mi avete chiamato, vero?»
«Volevo domandarvi perché vi siete fermato all’isola d’Elba.»
«Non lo so nemmeno io, signore: ho eseguito l’ultimo ordine del capitano Leclère, che in punto di morte mi affidò un plico per il gran maresciallo Bertrand.»
«L’avete dunque visto, Edmond?»
«Chi?»
«Il gran maresciallo.»
«Sì.»
Morrel si guardò intorno e tirò in disparte Dantès.
«E come sta l’imperatore?» domandò con interesse.
«Bene, da quanto ho potuto giudicare coi miei occhi.»
«Avete visto anche l’imperatore?»
«È entrato dal maresciallo mentre ero da lui.»
«E gli avete parlato?»
«A dire il vero, è stato lui a parlarmi» rispose Dantès,n sorridendo.
«E cosa vi ha detto?»
«Mi ha fatto delle domande sulla nave, sulla data della partenza da Marsiglia, sulla rotta che aveva seguito e sul carico che portava. Credo che, se fosse stata vuota e io ne fossi stato il proprietario, la sua intenzione sarebbe stata di acquistarla. Ma gli ho spiegato che io non ero che un semplice secondo, e che il bastimento appartiene alla casa Morrel e Figlio. “Ah!” mi ha risposto “la conosco. I Morrel sono armatori da generazioni, e ho conosciuto un Morrel che serviva nel mio stesso reggimento, quando ero di guarnigione a Valenza.»
«E vero, è vero!» esclamò l’armatore tutto contento. «Era Policar Morrel, mio zio, che poi divenne capitano; Dantès, voi direte a mio zio che l’imperatore si è ricordato di lui, e lo vedrete piangere, il vecchio brontolone. Andiamo, andiamo» continuò il vecchio armatore battendo amichevolmente la mano sulla spalla del giovane, «avete fatto bene a eseguire le istruzioni del capitano Leclère e fermarvi all’isola d’Elba, benché se si venisse a sapere che avete consegnato un plico al maresciallo e parlato con l’imperatore, ciò potrebbe senza dubbio compromettervi.»
«Come volete che mi comprometta?» replicò Dantès. «Io non so nemmeno ciò che ho consegnato, e l’imperatore mi ha fatto le stesse domande che avrebbe rivolto al primo venuto… Ma scusate,» riprese Dantès «ecco i funzionari della Sanità e della Dogana che ci raggiungono. Voi permettete, vero?»

Questo breve dialogo presente nelle prime pagine del libro, proprio all’inizio, non solo è perfetto per la sintesi, ma soprattutto perché ogni battuta non è stata scritta a caso.
Scrivere i dialoghi, ancor più nei romanzi di intrattenimento, è la cosa più difficile che esista. Spesso i dialoghi diventano solo un modo per andare da una scena a un’altra, o peggio spiegoni che dicono tutto sulla storia, sui fatti che, per pigrizia o per incapacità, l’autore non fa vivere sulla pagina.
Qui in poche battute vengono forniti in modo velato ma sapiente dettagli fondamentali riguardanti le tre persone coinvolte. Capiamo subito che Danglars è una persona subdola, e un attimo dopo scopriamo che è invidioso di Edmond Dantès, diversamente da Morrel che ne ha una grandissima considerazione. Mentre Dantès ci appare rispettoso, laborioso e persino ingenuo, Danglars è subito palesemente inquadrato come un complottista, uno che sta cercando di intralciare la strada di Edmond.
Inoltre in questo breve dialogo sono presenti delle accurate semine.
Scopriamo che Danglars sa che Dantès ha fatto scalo all’isola d’Elba. Sappiamo che Dantès ha consegnato una lettera a un maresciallo di Napoleone, però senza conoscerne il contenuto, e veniamo a conoscenza anche del fatto che Morrel è un ex bonapartista che nutre ancora nostalgia per l’impero di Napoleone.
Sono tutti dettagli che serviranno più avanti, fra centinaia di pagine, parte dei sapienti tasselli di cui parlavamo.
Altro particolare sta nella veloce caratterizzazione dei personaggi. Abbiamo da subito tre personalità diverse, e ogni personaggio in questo libro, persino il più piccolo, è un mondo a sé.
Qui abbiamo visto uno dei tre antagonisti di Dantès, voglio mostrarvene un altro per farvi vedere sia come Dumas riesca a tracciare perfettamente la psicologia dei propri personaggi, quanto la sua lingua sappia essere alta, persino in un romanzo d’appendice.
Appena Villefort uscì dalla sala da pranzo, si tolse la maschera allegra per assumere l’aria grave di un uomo chiamato al supremo compito di pronunciarsi sulla vita di un suo simile. Ora, malgrado la mobilità del suo volto, mobilità che il sostituto aveva spesso studiato, come deve fare un bravo attore, davanti allo specchio, questa volta fece molta fatica ad aggrottare le sopracciglia e a rendere severi i lineamenti.
In effetti, a parte il pensiero della linea politica seguita dal padre, che poteva, se non se ne fosse allontanato completamente, compromettere il suo avvenire, Gérard di Villefort in questo momento era tanto felice quanto è concesso a un uomo di esserlo. Già ricco di suo, a ventisette anni occupava un posto elevato nella magistratura, stava per sposare una bella ragazza, che amava non appassionatamente ma con la ragione, come può amare un sostituto procuratore del re; e, oltre la bellezza, che era notevole, la signorina di Saint – Méran, la sua fidanzata, apparteneva a una delle famiglie a quel tempo più favorite a corte; e oltre all’influenza del padre e della madre di lei, che, non avendo altri figli, poteva essere consacrata tutta intera al loro genero, portava in più al marito una dote di cinquantamila scudi che, grazie alle “speranze” (parola atroce inventata dai sensali di matrimonio), poteva un giorno aumentare con una eredità di mezzo milione. Tutti questi elementi riuniti componevano dunque per Villefort un quadro di felicità abbagliante, al punto che gli sembrava di vedere delle macchie solari quando guardava a lungo la sua vita interiore con la vista dell’anima.

Per voce e per lingua questo brano non potrebbe mai passare come parte di un romanzo d’appendice, almeno paragonato ai romanzi d’intrattenimento degli ultimi trent’anni. Anzi, potrebbe senza dubbio soppiantare tanti presunti capolavori dei nostri giorni.
Al di là di questo, la descrizione di Villefort è chiarissima. La sua figura è delineata perfettamente, e non solo, fa da specchio a quella di Dantès, suo nemico.
Villefort come Dantès sta facendo carriera, ma rinnegando la figura paterna. Come Dantès sta per sposarsi, ma non è innamorato, il suo è un matrimonio di interessi. Come Dantès è all’apice della felicità, ma diversamente da lui è pronto a tutto per mantenerla. Non a caso Villefort è il giudice che dirà al giovane Dantès, poco prima di rinchiuderlo nelle segrete di If, questo dialogo che racchiude tutto ciò che è lui e che Dantès ancora non è.
«Però, invece che nemici, potrebbero esserci degli invidiosi. State per essere nominato capitano a diciannove anni, che è una condizione elevata per la vostra età. State per sposare una giovane donna che vi ama, ed è una rara felicità in ogni luogo della terra. Questi due favori del destino potrebbero avervi procurato delle invidie.»
«Sì, avete ragione. Voi dovete conoscere gli uomini meglio di me, quindi è possibile; ma se questi invidiosi dovessero essere tra i miei amici, vi confesso che preferisco non saperlo, per non essere costretto a odiarli.»
«Avete torto, signore. Bisogna sempre, per quanto è possibile, tenere gli occhi aperti intorno a sé; e in verità mi sembrate un così bravo giovane, che per voi contravvengo alle regole ordinarie della giustizia e cercherò di aiutarvi a far luce sulle cose riferendovi la denuncia che vi ha portato davanti a me. Ecco il foglio d’accusa: ne riconoscete la scrittura?»

Qui vediamo di quale freddezza sia capace Villefort, la freddezza di cui ora è sprovvisto Edmond Dantès, ma che invece caratterizzerà il conte di Montecristo.
Lo stesso Villefort che, ancora senza saperlo, sta per condannare Dantès pur di salvare il proprio futuro, è al tempo stesso il primo mentore del conte di Montecristo: una trovata geniale che oggi, al più, molti avrebbero distrutto creando un antagonista stereotipato, come i tanti che si vedono in alcuni romanzi di genere. Invece Villefort ha mille sfumature. Opportunista ma galante, ligio al dover ma avido, persino buono, come vediamo qui, ma pronto a macchiarsi di crimini indicibili pur di salvare se stesso.
Creare un antagonista è spesso più complesso che dar vita al protagonista, perché quando si tratta di cattivi si rischia sempre di cadere in qualche cliché. In questo libro ne esistono tre di antagonisti: l’invidioso Danglars, che abbiamo già visto, l’innamorato Fernand, e infine l’irreprensibile procuratore del re pronto a vendere la propria anima al male pur di mantenere il potere.
Uno agisce per invidia, senza sapere cosa il suo gesto causerà; il secondo opera accecato dalla gelosia e dall’amore; il terzo, a conti fatti, fa del male perché è un codardo, un uomo incapace di uscire dall’ombra paterna.
Quest’ulteriore estratto completa la psicologia di Villefort e, al tempo stesso, vi mostrerà la complessità di questo “romanzo d’intrattenimento”.
Ma il dolore non si lascia respingere così. Come la freccia mortale di cui parla Virgilio, l’uomo ferito lo porta con sé. Villefort rientrò, chiuse la porta, ma giunto nel salone le sue gambe vacillarono; emise un sospiro simile a un singhiozzo e si lasciò cadere sopra un divano.
Allora nel fondo di quel cuore malato nacque il primo germe di un’ulcera mortale. Quell’uomo, che lui sacrificava alla sua ambizione, quell’innocente che pagava per le colpe di suo padre, gli apparve pallido e minaccioso, mentre dava la mano alla sua fidanzata, pallida come lui, e si trascinava dietro il rimorso, non quello che fa sussultare il malato come i furiosi della fatalità antica, ma quel tintinnio sordo e doloroso che in certi momenti colpisce al cuore e lo lacera con il ricordo di un’azione passata; lacerazione, in cui lancinanti dolori corrodono un male che si approfondisce sempre più fino al giorno della morte.
Allora nel cuore di quest’uomo vi fu ancora un momento di esitazione. Già parecchie volte aveva richiesto, e senza altra emozione che quella della lotta del giudice con l’accusato, la pena di morte contro gli imputati; giustiziati grazie alla sua fulminante eloquenza, che aveva abbagliato o i giudici o la giuria, non avevano lasciato nemmeno un’ombra sulla sua fronte, perché questi imputati erano colpevoli, o almeno tali li credeva Villefort. Ma questa volta era una cosa ben diversa: la pena del carcere perpetuo veniva inflitta a un innocente, a un innocente che era sul punto di essere felice e del quale egli distruggeva non solo la pace ma anche la felicità: questa volta non era più un giudice, era un carnefice.

Oltre alla meravigliosa definizione di questo personaggio, ciò che ancora una volta colpisce è la voce e la lingua di Dumas. La cura per ogni parola, le similitudini mai banali, le immagini che riesce a tessere scavando nella psiche dei suoi personaggi.
La sua scrittura diventa eccelsa, vivida, soprattutto quando descrive l’inferno vissuto in prigione da Edmond Dantès e di cui, purtroppo, posso portarvi solo una parte.
Nessuna distrazione poteva quindi venirgli in aiuto: il suo spirito energico, che non avrebbe amato che di prendere il volo attraverso l’età, era forzato a restare prigioniero come un’aquila in gabbia. Egli allora si aggrappò a una sola idea, la girò e la rigirò da tutte le parti, divorandola per così dire a denti aguzzi come nell’Inferno di Dante lo spietato Ugolino divora il cranio dell’arcivescovo Ruggieri. Dantès non aveva avuto che una fede passeggera, basata sulla volontà; la perse come altri la perdono dopo avvenimenti infelici. Solo, egli non ne aveva approfittato.
La rabbia subentrò all’ascetismo. Edmond lanciava bestemmie che inorridivano il carceriere, feriva il suo corpo contro i muri della prigione, inferociva contro tutto ciò che lo circondava, e soprattutto contro se stesso, alla minima contrarietà che lo faceva sentire un granello di sabbia, un filo di paglia, un soffio d’aria. Allora gli ritornava in mente la lettera di denuncia che aveva visto, che gli aveva mostrato Villefort, che aveva toccato; ogni riga fiammeggiava sul muro come il Mane, Thecel, Phares di Baldassarre. Si diceva che era l’odio degli uomini e non la vendetta di Dio che lo aveva immerso nell’abisso in cui si trovava; invocava per questi uomini sconosciuti tutti i supplizi di cui la sua ardente immaginazione poteva farsi un’idea e trovava che i più terribili erano ancora troppo leggeri e soprattutto troppo brevi per loro, perché dopo il supplizio veniva la morte e nella morte c’era, se non il riposo, almeno l’insensibilità del corpo, che gli somiglia.
A forza di dire a se stesso, a proposito dei suoi nemici, che nella morte vi era la calma e che chi vuole punire crudelmente deve farlo con altri mezzi che non la morte, cadde nella tetra immobilità dell’idea del suicidio: maledetto chi, sulla china dell’infelicità, si ferma a queste tristi idee! È come uno di quei mari morti che si estendono come l’azzurro delle onde pure, ma nelle quali il nuotatore sente lentamente i piedi affondare in una melma fangosa che lo attrae a sé, lo assorbe, lo inghiotte. Una volta preso in tal modo, se il soccorso divino non lo aiuta, è tutto finito, e qualunque sforzo egli tenti, lo affonda ancora di più nella morte. Questo stato di agonia morale è meno terribile della sofferenza che lo precede e del castigo che forse lo seguirà; è una specie di consolazione vertiginosa che ci mostra il precipizio ma, nel fondo del precipizio, il nulla.
Arrivato a questo punto, Edmond trovò qualche consolazione in questo pensiero; tutti i suoi dolori, tutte le sue sofferenze, questo corteggio di spettri che essi si trascinavano dietro parvero involarsi dalla prigione dove l’angelo della morte poteva posare il suo piede silenzioso. Dantès guardò con calma la vita passata, con terrore la vita futura, e scelse questo punto di mezzo che gli sembrò essere un luogo di asilo.
Qui il registro di Dumas arriva a picchi davvero alti, quasi poetici. Da notare le citazioni colte, ben diverse da quelle che oggi potremmo trovare nella narrativa d’intrattenimento. Inoltre, un ulteriore aspetto, ma ben più importante, sta nel messaggio che il testo offre.
La sofferenza di Dantès è attuale perché universale. Ogni uomo ha fatto esperienza dell’ingiustizia, ogni uomo ha provato un dolore soffocante, ogni uomo si è sentito sul punto di non farcela più, di annegare, di arrendersi.
Cos’è la vita? Esiste la felicità? C’è qualcuno capace di farci giustizia? C’è una giustizia, oppure la vita è semplicemente ingiusta? E se così fosse, meglio continuare a soffrire oppure mettere fine a ogni dolore?
Domande intime e perpetue in ogni essere umano, in ogni epoca; domande che rendono appunto un libro immortale, un classico della letteratura.
Dumas, pur scrivendo un romanzo a puntate, un’opera per tutti, non ha potuto fare a meno di scavare dentro di sé e trovare le stesse domande dolorose che accompagnano la vita di ogni essere umano, per poi riversarle sula pagina. Ma un classico della letteratura non smuove solo le domande interiore dell’uomo, no, in molti casi porta il lettore a confrontarsi con la parte alta di sé, quella bellezza che, oggi più che mai, stiamo perdendo: la forza dello spirito umano.

Infatti da quella sera i due prigionieri stabilirono un piano di educazione, che cominciò a essere messo in pratica il giorno dopo. Dantès aveva una memoria prodigiosa, una estrema facilità di comprensione: la predisposizione della sua mente per la matematica lo rendeva atto a comprendere ogni cosa per mezzo del calcolo, mentre la poesia del marinaio correggeva tutto quanto poteva esserci di troppo materiale nella dimostrazione ridotta all’aridità delle cifre e alla precisione delle linee; del resto egli conosceva già l’italiano e un poco di arabo, che aveva imparato nei suoi viaggi in Oriente. Con l’aiuto di queste due lingue comprese subito il meccanismo di tutte le altre, e in capo a sei mesi iniziò a parlare lo spagnolo, l’inglese, il tedesco.
Come aveva detto all’abate Faria, sia che la distrazione che gli procurava lo studio gli paresse già libertà, sia che fosse, come abbiamo già visto, rigido osservatore della sua parola, non parlava più di fuggire e le giornate per lui passavano rapide e istruttive. In capo a un anno era già un altro uomo.
Questa stupenda parte, personalmente la mia preferita, istoria alla perfezione la forza della natura umana: forza, come scritto precedentemente, spesso dimenticata. Inoltre è meraviglioso vedere come Edmond Dantès trovi come unica consolazione durante la prigionia lo studio, e come questi lo cambi, facendolo diventare nel tempo quello che sarà il conte di Montecristo.
È la rinascita di Jean Valjean, di Gian dei Brughi, di ogni eroe della letteratura che richiama il Daimon che è in noi: la voglia di qualcosa di alto.
Ironico pensare come fino a poco tempo fa, durante i mesi di clausura vissuti a causa della pandemia, i media, i giornali, chiunque fosse in grado di una minima influenza sul popolo non abbia mai menzionato questo passaggio, questo libro, questo personaggio che è l’esempio lampante di come non solo resistere durante le avversità, ma di come fortificarsi.
Ma credo, anzi, ne sono sicuro, che oggi i potenti abbiano ben poco interesse che la gente legga, tanto meno di forgiare eroi come il conte di Montecristo.
Mi fermo qui perché, come detto, è impossibile rendere giustizia a questo libro: il solo modo per farlo è leggerlo. Però, alla luce di quanto detto, e soprattutto alla luce degli estratti che avete letto, dovremmo tutti chiederci il perché di questo immenso dislivello fra la letteratura di duecento anni fa, persino quella di intrattenimento, e la nostra attuale narrativa.
Che gli scrittori non siano più capaci di porsi domande intime? Che siano i lettori a non volersi più interfacciare con la complessità della natura umana? O magari che siano entrambe le cose, no, guidate da un sistema che ci vuole tutti pigri, addomesticati, in tutto diversi da un uomo come il conte di Montecristo.