Esistono libri che ti segnano al punto tale da non volerne parlare per paura di usare le parole sbagliate, di non lasciar passare con chiarezza la bellezza che ti ha travolto.
Uno di questi libri è La trilogia della città di K, della bravissima scrittrice e purtroppo poco produttiva Ágota Kristóf.
Nata il 30 ottobre 1935 a Csikvánd, un villaggio dell’Ungheria, e trasferitasi con suo marito nel 1956 a Neuchâtel, a causa dell’arrivo in Ungheria dell’Armata Rossa, è stata drammaturga, scrittrice di poesia e di narrativa, ma, dopo anni in fabbrica, ha raggiunto il successo internazionale solo nel 1987 con Le grand cahier, edito nel 1986 e poi portato a noi italiani da Guanda nel 1988, con il titolo Quello che resta; infine, pubblicato da Einaudi nel 1998 con il titolo Il grande quaderno, uno dei tre libri che forma appunto La trilogia della città di K.
Con ogni probabilità proprio il duro lavoro in fabbrica ha permesso ad Ágota Kristóf di scrivere ben poco, purtroppo; famosa la sua dichiarazione in un’intervista: «Due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera». Senza contare che, come lei stessa ha sempre ammesso, non è mai riuscita a padroneggiare pienamente il francese, lingua appresa a Neuchâtel e adottata per la sua scrittura letteraria, al punto che definiva se stessa un’analfabeta, titolo della sua autobiografia uscita per la prima volta nel 2004. Ma forse proprio questa peculiarità ha reso unica la scrittura di Ágota Kristóf, la sua forma essenziale, ridotta all’osso, dove non c’è spazio per leziosità di alcun genere.

Quando sento parlare di sintesi il mio pensiero corre subito ad Ágota Kristóf. L’essenzialità della sua scrittura avvolge il dramma in un silenzioso manto di gelida nebbia in cui ogni azione è netta, precisa, e in quanto tale potente come una coltellata.
Immaginate di entrare in una vecchia stanza e trovare a terra il cadavere di una donna, poi davanti a lei una bambina seduta sul divano che vi fissa in tutta tranquillità dicendovi: «Niente, la mamma è morta».
Più della scoperta del cadavere sarebbe la tranquillità della bambina a scioccarvi, a rendere tutto ancor più inquietante, no?
Beh, questo è l’effetto della scrittura di Ágota Kristóf.
Ma passiamo al suo capolavoro, La trilogia della città di K, libro che, come già detto, è arrivato a noi diviso in due libri da Guanda: Quello che resta, edito nel 1988, e la prova, pubblicato nel 1989. Successivamente i due libri sono stati raccolti da Einaudi insieme al terzo libro, La terza menzogna, e usciti in un unico romanzo nel 1998.
Si tratta però di un’unica storia cui protagonisti sono i gemelli Lucas e Klaus, suddivisa in tre atti che potrebbero essere letti anche singolarmente, ma che trovano l’apice nella loro totalità.
Il primo libro, Il grande quaderno, ha un utilizzo del punto di vista narrante meraviglioso. Narrato in prima persona plurale secondo il punto di vista dei due fratelli gemelli, ci sembra di sentire il loro comune pensiero, la loro voce unita in una sola, tanto che le prove che vivono e le sofferenze in cui camminano ci sembrano duplicate, eppure vissute con il rassegnato distacco tipico dei bambini cresciuti fra mille difficolta, consci di una sola cosa: che vogliono e devono sopravvivere.
Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche.
Camminiamo a lungo. La casa di Nonna è lontana dalla stazione, all’altro capo della Piccola Città. Qui non ci sono tram, né autobus, né macchine. Circolano solo alcuni camion militari.
I passanti sono pochi, la città è silenziosa. Si può udire il rumore dei nostri passi; camminiamo senza parlare, nostra Madre tra noi due.
Davanti alla porta del giardino di Nonna nostra Madre dice:
˗ Aspettiamo qui.
Aspettiamo un po’, poi entriamo in giardino, giriamo intorno alla casa, ci accovacciamo sotto una finestra da cui giungono delle voci. La voce di nostra Madre:
˗ Non c’è più niente da mangiare in casa nostra, niente pane, carne, verdura, latte. Niente. Non posso più sfamarli.
Un’altra voce dice:
˗ E allora ti sei ricordata di me. Per dieci anni non ti eri mai ricordata. Non sei venuta, non hai scritto.
Nostra Madre dice:
˗ Sapete bene perché. A mio padre volevo bene, io.
L’altra voce dice:
˗ Sì, e adesso ti ricordi che hai anche una madre. Arrivi qua e mi chiedi di aiutarti.
Nostra Madre dice:
˗ Non domando niente per me. Vorrei solamente che i miei bambini sopravvivessero a questa guerra. La Grande Città è bombardata giorno e notte, e non c’è più da mangiare. I bambini sfollano in campagna, da parenti o estranei, dove capita.
L’altra voce dice:
˗ Allora non avevi da mandarli da qualche estraneo, dove capitava.
Nostra Madre dice:
˗ Sono i vostri nipotini.
˗ I miei nipotini? Non li conosco nemmeno. Quanti sono?
˗ Due. Due bambini. Gemelli.
L’altra voce chiede:
˗ E degli altri cosa ne hai fatto?
Nostra Madre chiede:
˗ Quali altri?
˗ Le cagne mollano lì quattro o cinque piccoli per volta. Se ne tengono uno o due, gli altri li annegano.
L’altra voce ride molto forte. Nostra Madre non dice niente e l’altra voce chiede:
˗ Hanno un padre almeno? Non sei posata, che io sappia. Non sono stata invitata al tuo matrimonio.
˗ Sono sposata. Il Padre è al fronte. Non ho sue notizie da sei mesi.
˗ Allora puoi farci una croce sopra.
L’altra voce ride ancora, nostra Madre piange. Ritorniamo davanti alla porta del giardino.
Nostra Madre esce dalla casa con una vecchia.
Nostra Madre ci dice:
˗ Ecco vostra Nonna. Resterete con lei per un po’, fino alla fine della guerra.
Nostra Nonna dice:
˗ La guerra può durare ancora molto. Ma li farò lavorare, stai tranquilla. Il cibo non è gratis nemmeno qui.
Nostra Madre dice:
˗ Vi manderò dei soldi. Nelle valigie ci sono i loro vestiti. E nello scatolone lenzuola e coperte. Siate buoni, piccoli miei. Vi scriverò.
Ci bacia e se ne va piangendo.
Nonna ride molto forte e dice:
˗ Lenzuola, coperte! Camicie bianche e scarpe di vernice! Vi insegnerò io a vivere!
Facciamo la lingua a nostra Nonna. Lei ride più forte battendosi sulle cosce.

Una parola in più o una parola in meno rovinerebbe questo struggente attacco di romanzo.
Solo nella seconda pagina sappiamo che i due bambini sono gemelli, ma li avvertiamo tali da subito, da come guardando le cose. La situazione ci è chiara immediatamente nella sua tragicità, eppure ogni descrizione è minima, le città neppure hanno un nome e così i personaggi. Tutto è visto dal punto di vista solidale di due bambini, persino le didascalie che precedono i dialoghi, normalmente odiose quando usate male, qui dànno alla perfezione la focalizzazione del punto di vista dei due gemelli.
La fine poi è sublime: nessun eccesso di melanconia, solo una mamma che piange e saluta i propri bambini, lì a subire gli eventi, mentre la loro nonna se la ride.
Questo tono, questo punto di vista quasi passivo dei due bambini ci accompagna in tutto il primo libro, ed è proprio questa voce che guarda con gelida indifferenza eventi drammatici ad angosciarci.
Il solo modo per Lucas e Klaus di restare vivi, mai identificati singolarmente ma sempre uniti in un’unica voce, è stare insieme e fortificarsi. Come due spettri vagano nel mondo osservando tutto, subendo in silenzio ma assorbendo ogni cosa per poi capire come affrontarla.
È domenica. Acchiappiamo un pollo e gli tagliamo la gola, come abbiamo visto fare a Nonna. Lo portiamo in cucina e diciamo:
˗ Bisogna cuocerlo. Nonna.
Lei si mette a strillare:
˗ Chi vi ha dato il permesso? Non avete il diritto! Sono io che comando qui, razza di stronzetti! Non lo cuocerò mai! Preferisco crepare!
Diciamo:
˗ Non fa niente, lo cuoceremo noi.
Cominciamo a spennare il pollo, ma Nonna ce lo strappa di mano:
˗ Non ci sapete fare! Piccoli sporcaccioni, tormento della mia vita, punizione divina, ecco cosa siete!
Mentre il pollo cuoce Nonna piange:
˗ Era il più bello. Hanno preso il più bello. L’hanno fatto apposta. Ormai era pronto per il mercato di martedì.
Mangiando il pollo diciamo:
˗ È molto buono questo pollo. Ne mangeremo tutte le domeniche.
˗ Tutte le domeniche? Siete matti? Volete rovinarmi?
˗ Mangeremo un pollo tutte le domeniche, che voi lo vogliate o no.
Nonna si rimette a piangere:
˗ Ma cosa gli ho fatto? Miseria di una miseria! Vogliono farmi morire. Una povera vecchia indifesa. Non me lo merito. Io che sono così buona con loro!
˗ Sì, Nonna, voi siete buona, molto buona. Infatti è per bontà che ci cuocerete un pollo tutte le domeniche.
Quando si è calmata, le diciamo ancora:
˗ Quando ci sarà qualcosa da uccidere, vogliamo essere chiamati. Lo faremo noi.
Dice:
Vi piace molto, eh?
˗ No, Nonna, a dire il vero non ci piace per niente. È per questo che dobbiamo abituarci.
Dice:
˗ Ho capito. È un nuovo esercizio. Avete ragione. Bisogna saper uccidere quando è necessario.
Cominciamo con i pesci. Li prendiamo per la coda poi sbattiamo la testa contro un sasso. Ci abituiamo in fretta a uccidere animali destinati a essere mangiati: galline, conigli, anatre. Poi uccidiamo animali che non sarebbe necessario uccidere. Acchiappiamo delle rane, le inchiodiamo su un’asse e le sventriamo. Acchiappiamo anche delle farfalle, le attacchiamo con uno spillo su un cartone. Dopo un po’ ne abbiamo una bella collezione.
Un giorno impicchiamo a un ramo il nostro gatto, un maschio fulvo. Impiccato, il gatto si allunga, diventa enorme. Ha dei sussulti, delle convulsioni. Quando non si muove più, lo stacchiamo. Resta disteso sull’erba, immobile, poi bruscamente si alza e fugge.
Dopo lo vediamo qualche volta in lontananza, ma non si avvicina più alla casa. Non viene neanche a bere il latte che mettiamo davanti alla porta in un piattino.
Nonna dice:
˗ Questo gatto diventa sempre più selvatico.
Diciamo:
˗ Non preoccupatevi, Nonna, ci occupiamo noi dei topi.
Fabbrichiamo delle trappole, e i topi che si fanno prendere li anneghiamo nell’acqua bollente.

Il distacco dei due gemelli da ogni evento li rende invece ancora più vicini a noi, atroci, spietati. Inoltre dai loro occhi vediamo tutti i personaggi, fra cui la Nonna, presenza opprimente, dura, falsa, persino divertente.
Uno dei personaggi più belli del primo libro è senza dubbio la giovane Labbro leporino.
Peschiamo con la lenze nel ruscello. Labbro – leporino arriva di corsa. Non ci vede. Si corica nell’erba, alza la sottana. Non ha mutande. Vediamo le sue natiche nude e i peli tra le gambe. Noi non abbiamo ancora i peli tra le gambe. Labbro – leporino ne ha, ma molto pochi.
Labbro – leporino fischia. Arriva un cane. È il nostro cane. Lo prende tra le braccia, si rotola con lui nell’erba. Il cane abbaia, si divincola, si scuote e parte di corsa. Labbro – leporino lo chiama con voce dolce accarezzandosi il sesso con le dita.
Il cane torna, annusa più volte il sesso di Labbro – Leporino e si mette a leccarlo.
Labbro – leporino allarga le gambe, spinge la testa del cane sul ventre con entrambe le mani. Respira molto forte e si contorce.
Il sesso del cane diventa visibile, è sempre più lungo, è sottile e rosso. Il cane solleva la testa, cerca di arrampicarsi su Labbro – leporino.
Labbro – leporino si volta, è sulle ginocchia, volge il didietro al cane. Il cane posa le zampe anteriori sul dorso di Labbro – leporino, con gli arti posteriori che tremano. Cerca, si avvicina sempre di più; si mette fra le gambe di Labbro – leporino, s’incolla alle sue natiche. Si muove molto rapidamente, avanti e indietro. Labbro – leporino grida e, dopo un momento, cade sul ventre.
Il cane si allontana lentamente.
Labbro – leporino resta coricata per un po’, poi si alza, ci vede, arrossisce. Grida:
˗ Piccoli spioni! Cos’avete visto?
˗ Ti abbiamo vista giocare con il nostro cane.
Chiede:
˗ Sono sempre vostra amica?
˗Sì, e ti permettiamo di giocare col nostro cane quando vuoi.
˗ E non direte a nessuno quello che avete visto?
˗ Non diciamo mai niente a nessuno. Puoi contare su di noi.
Si siede sull’erba e piange:
˗ Solo le bestie mi vogliono bene.
Domandiamo:
˗ È vero che tua madre è matta?
˗ No. È soltanto sorda e cieca.
˗ Cosa le è successo?
˗ Niente. Niente di speciale. Un giorno è diventata cieca e dopo un po’ è diventata anche sorda. Dice che per me sarà la stessa cosa. Avete visto i miei occhi? La mattina, quando mi sveglio, le ciglia sono incollate, i miei occhi pieni di pus.
Diciamo:
˗ È certamente una malattia che la medicina può curare.
Dice:
˗ Può darsi. Ma come faccio ad andare da un dottore senza soldi? A ogni modo non ci sono dottori. Sono tutti al fronte.
Domandiamo:
˗ E le tue orecchie? Hai male alle orecchie?
˗ No, con le orecchie non ho nessun problema. E credo che non li abbia neanche mia madre. Fa finta di non sentire niente, le fa comodo quando le chiedo qualcosa.

Direi che questo pezzo si commenta da solo. Labbro – leporino già leggendo soltanto questo estratto risulta un personaggio eccezionale, e il suo evolversi nel primo libro è sublime, ma preferisco non rovinarvi la sorpresa.
Passando agli altri due libri presenti nella Trilogia della città di K, velocemente voglio farvi notare alcuni aspetti, per prima cosa il cambio, o meglio la maturazione, della voce autoriale della Kristóf, fedele a quello che è ora la vicenda di Lucas adulto. Inoltre, diversamente dal primo libro, il secondo è narrato in terza persona.
Vi riporto alcuni estratti per farvi comprendere, stralci in cui si vede la relazione fra Lucas, Yasmine e il suo bambino menomato, Mathias.
˗ Crescevo. Mio padre mi accarezzava i seni, diceva: «Presto sarai una donna e te ne andrai con un ragazzo». Io dicevo: «No, non me ne andrò mai». Una notte, nel sonno, gli ho preso la mano, l’ho messa tra le mie gambe. Ho premuto le sue dita e ho conosciuto il piacere per la prima volta. La sera dopo, sono stata io a chiedergli di darmi ancora questo piacere infinitamente dolce. Piangeva, diceva che non si doveva, che era male, ma io ho insistito, l’ho supplicato. Allora, si è chinato sul mio sesso, lo leccava, lo succhiava, lo baciava, e il mio piacere fu ancora più intenso della prima volta. Una sera si è steso sopra di me, ha messo il suo sesso tra le mie cosce, diceva: «Stringi le gambe, stringi forte, non lasciarmi entrare, non voglio farti male». Per anni abbiamo fatto l’amore così, ma è arrivata la notte in cui non ho potuto resistere. Lo desideravo troppo, ho allargato le gambe, ero completamente aperta, è entrato dentro di me.
Yasmine tace, guarda Lucas. I suoi grandi occhi neri brillano, le labbra carnose si schiudono. Tira fuori un seno dalla camicia e chiede:
˗ Vuoi?
Lucas l’afferra per i capelli, la trascina in camera, la rovescia sul letto di nonna e la prende mordendole la nuca.
I giorni successivi, Lucas torna nelle osterie. Riprende a camminare per le strade deserte della città.
Quando rientra va direttamente in camera sua.
Una sera, però, ubriaco, apre la porta della camera di nonna. La luce della cucina illumina la stanza. Yasmine dorme, il bambino anche.
Lucas si spoglia ed entra nel letto di Yasmine. Il corpo di Yasmine è bollente, quello di Lucas è gelato. Lei è voltata verso il muro, lui si stringe contro la sua schiena, mette il suo sesso tra le cosce di Yasmine.
Lei stringe le cosce, geme:
˗ Padre, oh, padre!
Lucas le dice all’orecchio:
˗ Stringi. Stringi più forte.
Lei si dimena, respira con difficoltà. Lui la penetra, lei grida.
Lucas mette la mano sulla bocca di Yasmine, le copre la testa col piumino.
˗ Zitta. Sveglieremo il bambino!
Lei gli morde le dita, gli succhia il pollice.
Quando è finita, restano distesi qualche minuto, poi Lucas si alza.
Yasmine piange.
Lucas va in camera sua.
E ancora…
Quando il bambino è a letto, Lucas entra nella sua stanza, si siede sul bordo del letto:
˗ Non mi immischierò più negli affari tuoi, Mathias. Non ti farò più domande. Quando vorrai lasciare la scuola, me lo dirai, non è vero?
Il bambino dice:
˗ Non lascerò mai la scuola.
Lucas chiede:
˗ Dimmi, Mathias, piangi qualche volta la sera quando sei da solo?
Il bambino dice:
˗ Sono abituato a stare da solo. Non piango mai, lo sai.
˗ Sì, lo so. Ma non ridi neanche mai. Quando eri piccolo, ridevi sempre.
˗ Doveva essere prima della morte di Yasmine.
˗ Che dici, Mathias? Yasmine non è morta.
˗ Sì. È morta. Lo so da molto tempo. Se no sarebbe già tornata.
Infine…
Un ragazzino alza gli occhi, sorride a Lucas. Ha i capelli biondi, gli occhi azzurri, è la prima volta che viene.
Lucas non riesce a staccare gli occhi dal bambino. Si siede dietro il banco, apre un libro e continua a guardare il bambino sconosciuto. Un dolore acuto, improvviso, attraversa la sua mano sinistra poggiata sul libro. Ha un compasso piantato nel dorso della mano. Quasi paralizzato dall’intensità del dolore, Lucas si gira lentamente verso Mathias:
˗ Perché l’hai fatto?
Mathias sibila fra i denti:
˗ Non voglio che lo guardi!
˗ Non guardo nessuno.
˗ Sì! Non mentire! Ho visto che lo guardavi. Non voglio che lo guardi in quel modo!
Lucas toglie il compasso, preme il fazzoletto sulla ferita:
˗ Salgo a disinfettarmi.
Quando riscende, i bambini non ci sono più. Mathias ha tirato giù la saracinesca:
˗ Gli ho detto che oggi si chiudeva prima.
Lucas prende Mathias in braccio, lo porta nell’appartamento, lo mette a letto.
˗ Che hai, Mathias?
˗ Perché lo guardavi, il ragazzino biondo?
˗ Mi ha ricordato una persona.
˗ Una persona che amavi?
˗ Sì, mio fratello.
˗ Non devi amare nessuno al di fuori di me, neanche tuo fratello.

È meraviglioso vedere come lo stile della Kristóf resti invariato nonostante il cambiamento della sua voce, qui più matura, al punto che il dolore si avverte più vicino, consapevole.
Il terzo libro, di cui posterò solo un estratto, rivede nuovamente i fratelli insieme.
Non voglio anticipare nulla, anche perché questo libro è pieno di colpi di scena, ci tengo solo a mostrarvi come in questo stralcio la dolorosa voce di Ágota Kristóf raggiunge l’apice, pur senza perdere mai lucidità, restando gelida, mai vezzosa: appunto, spietata.
Papà dice a Mamma:
˗ Metti a letto i bambini. Ti devo parlare.
Mamma dice:
˗ Andate a letto. Verrò a raccontarvi una favola. Salutate vostro padre.
Baciamo Papà, poi andiamo nella nostra camera, ma ne usciamo subito dopo in silenzio. Ci sediamo nel corridoio, proprio dietro la porta del salotto.
Papà dice:
˗ Vado a vivere con lei. C’è la guerra, non ho tempo da perdere. L’amo.
Mamma chiede:
˗ Non ci pensi ai bambini?
Papà dice:
˗ Anche lei aspetta un bambino. È per questo che non posso più tacere.
˗ Vuoi il divorzio?
˗ Adesso non è il momento. Dopo la guerra si vedrà. Intanto riconoscerò il bambino che nascerà. Può darsi che non ritorni. Non si sa mai.
Mamma chiede:
˗ Non ci ami più?
Papà dice:
˗ Non è questo il problema. Vi amo. Mi occuperò sempre dei bambini e di te. Ma amo anche un’altra donna. Riesci a capirlo questo?
˗ No. Non ci riesco, e non lo voglio capire.
Sentiamo uno sparo. Apriamo la porta del salotto. È stata Mamma a sparare. Ha la rivoltella di Papà. Spara ancora. Papà è per terra, Mamma continua a sparare. Accanto a me, Lucas casca a terra anche lui. Mamma getta la rivoltella, urla, s’inginocchia accanto a Lucas.
Ecco, ancora una volta senza eccessi, senza liricismi, urla o pianti, Ágota Kristóf riesce a spaccare il cuore del lettore. Magistrale la situazione vista con gli occhi dei bambini, come nel primo libro, eppure qui, diversamente si avverte una maggiore consapevolezza del dramma, segno appunto dell’evento non vissuto nel tempo presente, ma ricordato.
Una scrittrice meravigliosa, un’anima grandiosa che purtroppo, a causa di una società insensibile, è stata scoperta troppo tardi.
Da Ágota Kristóf ogni scrittore o aspirante tale può imparare non solo la potenza della sintesi, ma anche come si possono mostrare persone, luoghi e situazioni senza abbondare in descrizioni superflue.
Davvero un libro da leggere, assolutamente, come ogni altro capolavoro di Ágota Kristóf