Parole che danzano dipingendo nuovi mondi

Esistono libri che si rimpiange di aver letto, ma non in senso negativo, quanto perché durante la lettura ci si accorge che dopo non si potrà trovare di meglio in un altro testo. Sono libri rari, tesori inestimabili che racchiudono il senso intimo della letteratura.

Forse non a casa gli autori di questi preziosi capolavori hanno scritto ben poco, perché probabilmente a loro volta non avrebbero potuto fare di meglio: superare quel meraviglioso grido che hanno inciso sulla carta e nei secoli.

Purtroppo nel caso di Bruno Schulz la sua opera letteraria fu stroncata da una pallottola sparata da un ufficiale della Gestapo il 19 novembre 1942.

Sono sicuro che molti non conoscono neppure il nome di questo magnifico scrittore, ritenuto oggi uno dei più grandi (se non il più grande) esponente della letteratura polacca.

Nato da una famiglia ebrea della Galizia orientale nel 1982, a Drohobyč, è stato uno scrittore, pittore e critico letterario, ma “grazie” all’olocausto compiuto dalla Germania la maggior parte dei suoi scritti sono andati perduti, fra cui il suo unico romanzo, all’epoca incompiuto, denominato Il Messia.

Come si può immaginare dalle sue origini e dal periodo storico in cui è vissuto, Schulz non ha avuto una vita facile. Ultimo di tre figli, a ventitré anni ha perso suo padre Jacob Schulz, figura che ritorna – con potenza – in diversi suoi racconti. A causa della morte di suo padre, e certamente anche per l’insorgere della Prima Guerra Mondiale (parliamo del 1915), Schulz lascia gli studi presso il Politecnico di Leopoli e, solo nel 1917, trasferitosi a Vienna, cerca di riprendere gli studi di architettura, ma ancora una volta senza poterli ultimare.

Tornato in Galizia si dedica alla scrittura e al disegno, ma trova sostentamento solo grazie a un posto come insegnante di disegno al ginnasio: lavoro che svolgerà fino al 1941, quando le leggi razziali gli impediranno di continuare.

In questa vita travagliata, Schulz ha unito spesso la letteratura al disegno. Infatti, i primi racconti che inizia a pubblicare nel 1933, nove anni prima della sua morte, contengono 42 illustrazioni dello stesso autore. Parliamo de Le botteghe color cannella e de Il sanatorio all’insegna della clessidra, arrivati a noi nel 1971 grazie a Einaudi, a oggi ancora disponibili nell’edizione del 2001 edita dalla stessa casa editrice e contenente anche lettere, scritti politici, recensioni e saggi, nonché la meravigliosa postfazione al Processo di Kafka, tradotto in polacco dallo stesso Schulz. Non a caso la scrittura di Schulz rievoca molto lo stile inquietante, onirico e al tempo stesso realistico di Kafka; inoltre, proprio come Kafka, Schulz non cerca di scrivere una storia, di imbastire una trama precisa, ma bada a imprimere su carta veri e propri incubi. La scrittura di Schulz, come quella di Kafka, avviluppa il lettore in un vortice sensoriale, di forme bizzarre che prendono vita. Sono proprio queste due opere a portare Schulz all’attenzione dei tre più grandi esponenti della letteratura polacca dell’epoca: Roman Ingarden, Stanisław Ignacy Witkiewicz e Witold Gombrowicz, di cui Schulz diventa amico, iniziando così a collaborare con alcune riviste.

Purtroppo non tutti i suoi articoli e le sue recensioni sono state recuperate, mentre le lettere con i suoi tre amici sono andate quasi tutte perdute.

Insomma, Schulz incarna la bellezza distrutta dall’ottusa violenza umana.

Tornando alle sue opere, personalmente credo di non aver letto mai nulla di più fantastico, perfetto, vivo.

Se Kafka immerge il lettore in un incubo vischioso e tetro, Schulz lo paralizza in un mondo vivo che ondeggia attorno a lui e che gli scivola sulla pelle in eufonie di colori, sprizzi di profumi, danze di voci e orchestre di battiti d’ali. Se le similitudini si prefiggono lo scopo di mostrare una figura retorica fondata sulla somiglianza logica o fantastica, e le metafore di sostituire un termine proprio con uno figurato, in seguito a una trasposizione simbolica di immagini, con Schulz le similitudini e le metafore vengono letteralmente squarciate da un vera e propria metamorfosi delle parole e delle immagini da esse scaturite. Ci troviamo in un mondo reale, ma in continua trasformazione, dove le pareti diventano ali di uccelli che battono veloci, gli uomini si trasformano in animali, stoffe danzano in un cielo colorato e la luce acquisisce una forma fisica, polposa come il sole tramutatosi in un frutto. Eppure tutto resta reale. Le botteghe sono pur sempre botteghe, le strade rimangono strade, il padre resta il padre.

Non è una trasformazione definitiva, no, è di più: è continua metamorfosi; ecco perché parlavo di un mondo vivo che ondeggia attorno al lettore, perché se normalmente un narratore ha l’abilità di trascinare il proprio lettore in un mondo, Schulz invece lo stordisce in un’estatica bellezza che gli ruota attorno, tanto che il lettore resta incantato nel contemplare un mondo che si gonfia attorno a lui, un creato che si dilata per poi prosciugarsi di colpo e riemergere in animali alati, in cascate colorate e ondate di profumi.

A oggi solo uno scrittore mi ha donato le sensazioni che ho avuto leggendo Bruno Schulz, e non era un narratore, ma un poeta: Arthur Rimbaud.

Ma come sempre lasciamo che sia la parola scritta di Schulz a mostrare ciò che io cerco a tentoni di spiegare.

A luglio mio padre partiva per la cura delle acque e mi lasciava con mia madre e mio fratello maggiore in pasto alle giornate estive arroventate e abbacinanti. Inebriati di luce, sfogliavamo il gran libro delle vacanze, le cui pagine avvampavano tutte di sole e avevano nel fondo la polpa, dolce fino alla nausea, delle pere dorate.

Adela tornava nei mattini luminosi, come Pomona dalle fiamme del giorno infuocato, e versava dal canestro le bellezze variopinte del sole: lucide ciliegie, gonfie d’acqua sotto la buccia trasparente, visciole nere, misteriose, il cui profumo prometteva assai più di quel che il gusto manteneva; albicocche, che celavano nella polpa dorata il succo di lunghi pomeriggi; e accanto a quella schietta poesia della frutta, Adela scaricava ancora quarti di carne, turgidi di forza e di sostanza, con la tastiera delle cotolette di vitello, e verdure algiformi, simili a meduse o cefalopodi uccisi: materiale crudo del pranzo, dal sapore ancora indefinito e sterile, ingredienti vegetali e tellurici dal profumo selvatico e campestre.

Ogni giorno la grande estate trapassava da parte a parte il buio appartamento al primo piano dell’edificio che dava sulla piazza del mercato: silenzio di sprazzi d’aria tremolanti, rettangoli di luce immersi in un loro sogno rovente sul pavimento; una melodia d’organo di Barberia strappata alla più profonda vena dorata del giorno; due, tre battute di un ritornello, suonato chissà dove su un pianoforte, sempre ripetute, svanenti nel sole sui marciapiedi bianchi, perdute nel fuoco delle profondità del giorno. Finite le pulizie, Adela faceva ombra nelle stanze abbassando le tende di tela. I colori calavano allora di un’ottava, la stanza si riempiva d’ombra, quasi fosse immersa nella luce di profondità marine, riflessa ancor più nebulosamente negli specchi verdi, e tutto l’ardore del giorno respirava sulle tende, appena ondeggianti nei sogni dell’ora meridiana.

La ricerca del giusto aggettivo che in questo caso non completa né spiega la parola, ma le dà vita, rende questo pezzo – l’attacco del racconto – una vera danza dei sensi. Ma c’è altro, qualcosa che il lettore attento nota subito ma non capisce, non immediatamente; ne resta stordito e al tempo stesso esterrefatto.

La realtà nella pagina si sta muovendo, si gonfia e si trasforma, diventa materia organica pulsante attorno al lettore.

Riceviamo il primo colpo sin da subito, quando Schulz scrive: “le cui pagine avvampavano tutte di sole e avevano nel fondo la polpa, dolce fino alla nausea, delle pere dorate”.

La luce si trasforma in polpa viva, dorata, e così ogni oggetto, ogni pietanza, ogni sguardo. Tutto diventa altro. Non similitudini, non metafore, ma una vera trasformazione della realtà descritta con una cura talmente vivida da vederla, annusarla, toccarla.

Una simile architettura della parola non può essere elaborata a tavolino, c’è di più nella scrittura di Schulz, una visione infantile e innocente ma dettata dalla triste consapevolezza di un adulto. È istinto metabolizzato, pulsione cardiaca consapevole, immagini che dal cuore della mente scivolano spontanee e vivide sulla pagina.

Ma non sono solo gli ambienti e gli oggetti a trasfigurarsi, e non solo i ricordi e le sensazioni della voce narrante godono di una vita fisica, no, nella scrittura di Schulz persino le persone più squallide, ordinarie, si trasformano al punto da portare nella carne immagini concrete della loro natura interiore.

 

Noi ci sedemmo al loro fianco, quasi al margine del loro destino, un po’ confusi della passività con cui si abbandonavano a noi senza ritegno, e bevemmo acqua e sciroppo di rose, bevanda meravigliosa, che mi parve racchiudere l’essenza profonda di quel torrido sabato.

Zia Agata si lagnava. Era quello il tono fondamentale della sua conversazione, la voce di quella carne bianca e feconda, che pareva straripare dal corpo stesso, a stento e sconnessamente raccolta dalla massa, nei gladi di una forma individuale, e in quella massa già moltiplicata, pronta a ingrossarsi, a ramificarsi, e a riprodursi in famiglia. Era, la sua, una fecondità quasi autogenica, una femminilità priva di freni e morbosamente rigogliosa.

 

Mi fermo qui, anche se il pezzo continua con l’esposizione altrettanto meravigliosa del marito di questa donna.

Come abbiamo letto la situazione parte in modo ordinario, in un contesto tradizionale e persino noioso, eppure quando Schulz scrive: “Noi ci sedemmo al loro fianco, quasi al margine del loro destino”, avvertiamo inconsciamente di stare per assistere a qualcosa di tanto solenne quanto mostruoso.

E cosa ci mostra Schulz?

Una donna, una normalissima moglie abituata a stare in casa e a vivere solo per dare alla luce dei bambini.

Ma come ce la mostra?

Non sappiamo neppure darle una vera forma, una collocazione. Non è più una donna, no, ma neppure una bestia, né un mostro; è una creatura nuova, ecco cosa, materia vivente e carnosa che esprime l’essenza di questa donna.

Nella scrittura di Schulz ogni personaggio, anche il più insignificante, diventa indimenticabile nella trasposizione fisica del proprio mondo interiore, visto con gli occhi stupefatti di un bambino che ingurgita voracemente la realtà.

Chiave di volta non solo in questa storia, ma proprio nell’opera di Schulz, è la figura del padre: opprimente, mostruoso, folle, eppure saggio, sognatore e di una tenerezza fanciullesca. Il padre, in questo racconto, straborda fino a emergere ovunque, diventando ogni cosa, gonfiandosi sulle pagine fino a esplodere in chiazze paterne.

Quando mio padre si immergeva nello studio di grossi manuali di ornitologia e ne sfogliava le pagine colorate, pareva che proprio da esse prendessero il volo quei fantasmi pennuti e riempissero la stanza di uno svolazzio colorato, di lembi di porpora e brincelli di zaffiro, verde rame e argento. Al momento dei pasti essi formavano sul pavimento una falda colorata e ondeggiante, un tappeto vivente che ad ogni incauta intrusione si dileguava, si dissolveva in fiori mobili, svolazzanti nell’aria e si andava infine a posare nelle regioni superiori della stanza. Mi è rimasto particolarmente impresso nella memoria un condor, un uccello immenso, dal collo nudo, dalla faccia rugosa e cosparsa di escrescenze. Era un asceta magro, uno di quei lama buddisti dall’atteggiamento pieno di imperturbabile dignità, che osservano il cerimoniale ferreo proprio della loro grande casta. Quando sedeva di fronte a mio padre, immobile nella posizione scultorea delle secolari divinità egizie, l’occhio coperto da un velo biancastro che spostava di lato fin sulla pupilla, per chiudersi completamente nella contemplazione della propria augusta solitudine, sembrava, col suo profilo di pietra, il fratello maggiore di mio padre. Uguale il tessuto del corpo, dei tendini e della pelle dura e rugosa, uguale il volto secco e ossuto, identiche le orbite profonde e corneiformi. Persino le mani, le lunghe, magre, nodose mani di mio padre, dalle unghie ricurve, rassomigliavano agli artigli del condor. Vedendolo così addormentato, non potevo sfuggire all’impressione di trovarmi di fronte a una mummia, alla mummia rinsecchita, e perciò rimpicciolita, di mio padre. Credo che questa straordinaria rassomiglianza non fosse sfuggita neppure a mia madre, benché non abbiamo mai sollevato questo argomento. È significativo che il condor e mio padre usassero in comune il vaso da notte.

Questo pezzo è a dir poco magnifico. Dalle pagine di un libro emergono uccelli che scopriamo fisici, reali, e a loro volta colorano le pareti, formano tappeti che poi svaniscono e, nel loro centro, un uccello che ci appare umano al punto che lo confondiamo con il padre: non capiamo più chi sia l’uccello e chi il padre. La mutazione avviene invisibile già nella descrizione del volto dell’uccello, accresce nel suo sguardo, nella posizione assunta, fino a balzare all’improvviso sulle mani del padre: non più zampe, ma mani, quelle del padre.

Quello stormo di uccelli che si tramuta in mobili e tappeti e nel soffitto stesso in cui svanisce, ci mostra non solo l’ambiente in cui vive il padre, ma la sua natura; così come il condor è immagine riflessa del padre, ma immagine via, non una metafora; al punto che nell’ultima frase ci chiediamo se davvero esista questo condor, o se l’animale e l’intera stanza non sia il rigonfiamento vivo e pulsante del padre.

Tutto è vivo, mutabile, è un disegno di colori che si muovono mostrando in tutto e per tutto il padre seppur egli, all’apparenza, non muove un muscolo.

 

Ero sconcertato. Ricordavo in realtà quell’invasione di scarafaggi, il flusso nero e brulicante che aveva riempito l’oscurità di un notturno andirivieni da ragno. Tutte le fessure erano piene di antenne tremolanti, ogni spiraglio poteva vomitare all’improvviso uno scarafaggio, da ogni spaccatura dell’impianto poteva sbucare una di quelle folgori nere, lanciata in un folle zig zag lungo il pavimento. Ah, quel selvaggio delirio di panico, tracciato con una linea nera guizzante sulle mattonelle! Ah, quelle grida terrorizzate di mio padre, che balzava di sedia in sedia con un giavellotto in mano! Senza toccare cibo né bevanda, il volto chiazzato per la febbre, una smorfia di disgusto impressa attorno alla bocca, mio padre era completamente inselvatichito. È evidente che nessun organismo può sopportare a lungo una simile carica di odio. Una spaventosa repulsione aveva trasformato la sua faccia in una pietrificata maschera tragica, in cui soltanto le pupille, nascoste sotto la palpebra inferiore, erano all’erta, tese come corde, in perenne sospetto. Con un urlo selvaggio balzava all’improvviso dal sedile, correva alla cieca in un angolo della stanza e già alzava il giavellotto con infilzato un enorme scarafaggio che agitava disperatamente il groviglio delle sue zampe. Adela giungeva allora in soccorso di mio padre, pallido per l’orrore, e prendeva in consegna la lancia insieme col suo trofeo per annegarlo nel secchio. E tuttavia, già allora non avrei saputo dire se queste immagini mi venivano istillate attraverso i racconti di Adela, o se io stesso ne ero stato testimone. Mio padre, a quel tempo, non possedeva più quella capacità di resistenza che protegge le persone sane dal fascino della repulsione. Invece di tenersi lontano dalla terribile forza d’attrazione di quel fascino, mio padre, ormai in preda alla follia, vi si assoggettava sempre più. Le tristi conseguenze non si fecero attendere. Ben presto i primi sintomi sospetti apparvero riempiendoci di paura e di tristezza. Il comportamento di mio padre cambiò. La sua pazzia, l’euforia del suo eccitamento svanirono. Nei gesti e nella mimica cominciarono a mostrarsi segni di cattiva coscienza. Prese ad evitarci. Si nascondeva per giornate intere negli angoli, negli armadi, sotto la trapunta. Lo vedevo talvolta mentre si osservava pensieroso le mani, si esaminava la consistenza della pelle, delle unghie, sulle quali cominciavano ad apparire macchie nere, simili a scaglie di scarafaggio.

In questo estratto, al di là di quanto già detto, ossia della capacità evocativa di Schulz e del suo riuscire a reinventare la realtà, a mutarla, vorrei farvi notare con quale precisione tutto appare reale ma, al tempo stesso, si infiltra in noi il sospetto che ogni cosa non rappresenti altro che la figura paterna. È una situazione dinamica, velocissima, caotica, e nonostante la sua assurdità ci appare vera, così vera da avvertila come gigantesca; eppure, verso la metà del testo, quando la lotta lentamente si placca e ci si focalizza sul padre, nel vedere ora la sua stanchezza, la sconfitta della sua follia, la battaglia a cui abbiamo assistito riappare nella fuga del padre: il suo nascondersi ovunque, immagine folle che richiama appunto l’invasione degli scarafaggi vissuta poco prima, e, infine, le sue mani sulle quali cominciano ad apparire macchie nere “simili a scaglie di scarafaggio”.

Non è solo trasformazione della realtà, né semplice metamorfosi della natura umana, quanto ricreazione dei pensieri e dei sentimenti attribuendo a essi fatti, eventi vivi, reali. Ma tutto ciò è talmente perfetto da poterlo solo sospettare, intuire, supporre. Non si ha più la certezza di cosa sia reale e di cosa sia trasfigurazione del reale, perché tutto è realtà e sogno al contempo: due mondi che si intrecciano e si scambiano contemporaneamente, velocemente, in una danza talmente armoniosa da divenire un unico cosmo.

Personalmente, lo ripeto, non ho mai letto nulla di simile. Nella scrittura di Schulz c’è qualcosa di magico, di alchemico. La sua scrittura è impossibile da dimenticare, resta impressa nella mente e nel cuore come un marchio a fuoco.

E pensare che se non fosse stato per la violenza umana, avremmo ancora tanto da leggere di questo immenso maestro della letteratura.

Vi lascio con un ultimo meraviglioso estratto.

– Smerciare, Jakub! Vendere, Jakub! – gridavano tutti, e quelle grida ripetute in continuazione ritmavano in coro e si trasformavano lentamente nella melodia di un ritornello intonato da tutte le gole assieme. Allora mio padre si dette per vinto, saltò giù dall’alta cornice e con un grido si gettò sulle barricate di stoffa. Ingigantito dall’ira, il capo rigonfio in un pugno purpureo si lanciò come un profeta in lotta sulle scorte di tessuti e prese a scatenarsi contro di quelle. Faceva forza con tutto il peso del corpo sulle possenti balle di lana, sollevandole dal loro posto, si infilava sotto immense pezze di stoffa e le scaricava sul banco con sordo fracasso. Le balle volavano dispiegandosi con un frullo nell’aria a formare immensi stendardi, gli scaffali esplodevano da ogni parte in scoppi di drapperie, cascate di stoffe, come sotto i colpi della verga di Mosè.

Così si disperdevano le provviste degli armadi, violentemente espulse, rovesciandosi in ampie fiumane. Così scorreva via il contenuto variopinto degli scaffali, cresceva, si moltiplicava, inondando tutti i banchi ed i tavoli.

Le pareti del negozio sparirono sotto le potenti formazioni di quella cosmogonia di tessuti, sotto quelle catene montuose che si accatastavano in impotenti massicci. Ampie vallate si aprivano fra pendii scoscesi, mentre le linee dei continenti tuonavano nel vasto pathos delle vette. Lo spazio del negozio si ampliava nel panorama di un paesaggio autunnale, pieno di laghi e di lontananze: su quello sfondo mio padre si aggirava fra le pieghe e le valli di una fantastica terra di Canaan, vagava a grandi passi, le mani profeticamente levate al cielo, e plasmava il paesaggio a colpi di ispirazione. E in basso, ai piedi di quel Sinai sorto dalla collera di mio padre, il popolo gesticolava, imprecava, adorava Baal e contrattava. Affondavano le mani dentro le pieghe morbide, si drappeggiavano nelle stoffe colorate, si avvolgevano in dòmini e mantelli improvvisati, e parlavano confusamente e senza posa.

Mio padre sorgeva improvvisamente al di sopra di quei gruppi di acquirenti ingigantito dalla collera, e tuonava dall’alto contro gli idolatri col suo verbo possente. Quindi, trascinato dalla disperazione, si arrampicava ancora sulle alte gallerie degli armadi, correva all’impazzata lungo le tavole degli scaffali, lungo le assi rimbombanti delle impalcature nude, inseguito dalle immagini di spudorata lussuria che supponeva svolgersi alle sue spalle nelle profondità della casa. I commessi avevano proprio allora raggiunto il balcone di ferro all’altezza della finestra e, appesi alla balaustra, avevano afferrato Adela alla vita e la tiravano verso la finestra, mentre lei sbatteva gli occhi e si trascinava dietro le gambe snelle inguainate di seta. Mio padre, annichilito dall’odiosità del peccato, si integrava, mediante la collera dei gesti, nell’orrore del paesaggio; e intanto in basso lo sconsiderato popolo di Baal si abbandonava a un’allegria sfrenata. Una passione parodistica, un’epidemia di riso si era impadronita di quella marmaglia. Come si poteva esigere serietà da loro, da quel popolo di batacchi e di schiaccianoci? Come si poteva esigere comprensione per le gravi angosce di mio padre da quei macinini che macinavano incessantemente una colorata poltiglia di parole? Sordi ai fulmini di quella collera profetica, i mercanti in cappe di seta si accovacciavano a piccoli gruppi intorno alle montagne sinuose di tessuto, discutendo animatamente, in mezzo a scoppi di risa, sulla qualità della merce. Quella borsa nera polverizzava nelle sue lingue veloci la nobile sostanza del paesaggio, la triturava in un impasto di chiacchiere e quasi l’inghiottiva.

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