Insegnare a scrivere per insegnare a leggere

I libri buoni, quelli belli, insegnano sempre qualcosa al lettore. Non parlo di un insegnamento morale, quanto umano: un buon libro fa scoprire al lettore qualcosa che riguarda se stesso e il mondo che lo circonda; ma prima ancora, un buon libro inculca nel lettore l’amore per la lettura.

È assurdo pensare che oggi leggere risulti una passione da intellettuali, visto che si impara a leggere sin da bambini, eppure guardandomi attorno vedo sempre persone considerare noi lettori come una sorta di élite, spesso siamo additati come snob, sapientini, persino radical chic. Leggere un semplice testo di narrativa, dei racconti, un romanzo, oggi per molti è al pari di studiare decine di tomi di filosofia, al punto che di frequente mi sembra di essere visto come uno dei ricchi e saccenti intellettuali che nell’ottocento discorrevano nei salotti della Parigi aristocratica.  

E pensare che la lettura di un testo di narrativa dovrebbe essere la semplice base per giungere anche a una minima istruzione.

Credo che sia il metro di giudizio dell’odierna società a essere falsato, l’asticella del sapere è stata abbassata di parecchio, la meritocrazia si è tramutata in una distorta libertà che è solo libertinaggio. Oggi chiunque esponga il proprio pensiero in un programma televisivo è reputato al pari di un critico d’arte. Qualsiasi scrittore di narrativa può erigersi a letterato, definirsi un intellettuale; così come un comico può occupare una carica presso le Nazioni Unite.

Per soddisfare l’egocentrismo di molti, addirittura alimentarlo e lodarlo, si è creata una società in cui tutti possono tutto, ognuno può mettere bocca su tutto e farlo senza la dovuta preparazione.

In un simile panorama è naturale che leggere appaia come qualcosa di superfluo, una fatica per sgobboni, secchioni e fanatici: gente pesante e “all’antica” che non capisce il tempo presente.

Umberto Eco, e così alcuni suoi alunni, in un saggio dedicato all’innovazione del seriale profetizzava la scomparsa di quello che definiva “Lettore di primo livello”, ossia un lettore debole, diversamente dai lettori forti da lui battezzati “Lettori di secondo livello”.

Sintetizzando, il cosiddetto lettore di primo livello è colui che nella lettura cerca un piacere puramente emotivo, gli basta che il testo sia per lui empatico a livello personale, inconsciamente cerca conferme che portino a consolare i propri pensieri, anziché aprirsi alla ricerca del nuovo.

Questo tipo di lettore, secondo Eco, era destinato a svanire per seguire intrattenimenti che non necessitano neppure dello sforzo della lettura: prodotti creati per dare un piacere emotivo immediato e per confermare risposte anziché far nascere domande; piaceri buoni in molti casi, per carità, ma che non dovrebbero penalizzare la gioia di leggere un libro.

Basti pensare alla serialità. Ogni sceneggiatore sa che una serie TV rispetta un disegno ben prestabilito. Tutto è programmato per soddisfare lo spettatore, si prevedono le sue reazioni, gli si dà ciò che vuole. Certo, esistono serie TV che sono veri capolavori, ma sono purtroppo rare, così come oggi è rara la vera letteratura e il vero cinema.

Perché? Appunto perché sono prodotti studiati per l’intrattenimento, raramente per far dilatare la mente o addirittura per fare arte; dunque rispettano un canovaccio funzionante, accomodante e privo di pretesse.
Un esempio lampante? Quentin Tarantino ha diretto la regia di una delle puntate di ER, Medici in prima linea.
Avete notato il genio di Tarantino nella suddetta puntata?

No, magari nemmeno l’avete notato, e questo perché Quentin era chiamato a rispettare determinate norme di sceneggiatura.

Ecco perché i lettori di primo livello, quelli che leggevano solo narrativa di intrattenimento, sono sempre di meno. Questo inevitabile fenomeno ha fatto maturare due pericolosi aspetti in ambito culturale e sociale: molti libri che un tempo sarebbero rientrati nella narrativa di intrattenimento, oggi sono visti come capolavori della letteratura; quelli che un tempo erano semplicemente lettori forti, oggi sono visti come intellettuali: questo per la gioia di qualche pallone gonfiato e a danno di chi è additato come snob solo perché ama leggere.

Un altro fenomeno, forse il più tragico, è l’aumento vertiginoso di aspiranti scrittori che, semplicemente forti di una connessione internet e di un programma di scrittura, non solo si cimentano nella stesura di un romanzo, ma ambiscono a facili pubblicazioni rese tali dal Self Publishing e da minuscole realtà editoriali, e lo fanno senza divorare libri, senza neppure avvicinarsi ai classici della letteratura; anzi, reputano addirittura accademici coloro che leggono i classici, quasi farlo non fosse semplicemente la base per potersi avvicinare alla scrittura narrativa, così come la lettura per i bambini è il principio perché essi possano scrivere un tema o un riassunto.

Non a caso troviamo sempre più scrittori emergenti che scrivono libri palesemente ispirati da fiction o film, e autori affermati che scrivono romanzi cui stile di scrittura ricorda quello di una sceneggiatura.

I libri sembrano non essere più la pietra angolare di chi si avvicina alla scrittura.

Ogni volta che faccio queste riflessioni, praticamente ogni giorno (lo so, sono palloso!), penso a un libro che è per me una piccola Bibbia personale: Asino chi legge, scritto da Antonella Cilento e pubblicato da Guanda Editore nel 2010.
Abbiamo già dedicato due articoli ad Antonella, mia maestra di scrittura creativa e preziosa amica, ma per chi non li avesse letti la presento di nuovo.

Antonella è scrittrice, giornalista e maestra di scrittura creativa. Autrice di sedici romanzi, di diversi racconti e di drammaturgie, ha esordito nel 1997 con il romanzo Ora d’aria, finalista e segnalato al Premio Calvino. Vincitrice del Premio Tondelli nel 1999, del Premio Viadana e del Premio Fiesole nel 2002, vincitrice del Premio Boccaccio nel 2014 e, nello stesso anno, finalista al Premio Strega con Lisario o il piacere infinito delle donne, edito da Mondadori, incarna a mio dire l’icona vivente dell’amore per la letteratura: amore che da oltre 27 anni insegna presso la sua scuola di scrittura creativa, Lalineascritta. Eppure tutti coloro che conoscono Antonella, donna d’immensa cultura che può essere tranquillamente definita un’intellettuale del nostro tempo, restano colpiti in particolare da tre cose: la sua umiltà, la sua disponibilità e il suo amore per la lettura.

È proprio questo amore per la lettura che Antonella da oltre 27 anni con i suoi corsi cerca di donare a ogni suo alunno: insegna a scrivere, sì, ma lo fa sempre a partire da un capolavoro della letteratura, creando così nuovi lettori forti, ciò di cui veramente oggigiorno abbiamo bisogno.

Asino chi legge è in parte una biografia della vita di Antonella, eppure, proprio per la sua umiltà e maestria nell’usare la parola scritta, al pari di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, questo libro potrebbe passare per un romanzo di pura fantasia.

Scrivere un libro autobiografico è sempre pericoloso, perché si rischia di cadere nell’autocelebrazione: problema che Antonella non ha minimamente, in quanto in questo libro non è di se stessa che parla, ma dell’importanza della lettura.

Il libro narra le vicende di Antonella durante il suo lavoro come maestra di scrittura creativa, ci parla delle sue esperienze non da scrittrice, ma da maestra di scrittura, e nel farlo ci dona sempre un costante, caloroso messaggio: leggere è importantissimo!

Seguiamo Antonella nei quartieri napoletani, da quelli malfamati a quelli delle cosiddette famiglie perbene. Entriamo con lei nelle aule scolastiche, la seguiamo mentre insegna ai bambini e in ogni passo che facciamo con lei, in ogni pagina, troviamo sempre la vera protagonista di questa storia: la lettura, di cui Antonella si fa portatrice per vocazione.

Sono diciassette anni che entro nelle scuole come Esperto Esterno e, se conto anche gli anni in cui lo facevo non per insegnare scrittura creativa ma per fare laboratori di teatro, in effetti, sono più di venti anni che mi inserisco fra insegnanti e studenti. Sono un cuscinetto, sono la realtà che entra nella scuola, sono l’Autore che improvvisamente si manifesta come Vivo e non come morta biografia di un’antologia. E faccio tante diverse cose insegnando scrittura: mostro tecniche che la scuola non insegna, risolvo problemi di relazione, riporto i ragazzi alla lettura, suggerisco letture a insegnanti che non leggono o non sanno bene come orizzontarsi fra i libri; a volte, riporto anche ragazzi che hanno abbandonato l’obbligo a scuola. Dalla letteratura alla mediazione, dal laboratorio al problem solving. Una sola cosa di sicuro non faccio: entrare in classe, fare lezione e andarmene.

Quasi sempre il laboratorio produce effetti: sui ragazzi o sui bambini, sugli insegnanti, su di me che partecipo e insieme li guardo.

Nell’aula la prof che mi aspetta, la tutor, è molto giovane, bionda, gentile. I ragazzini sono pochi, non più di quindici. Nel corso delle trenta ore diminuiranno e bisognerà redarguire le famiglie per farli venire, bisognerà farli firmare anche se non c’erano, non in ottemperanza agli obblighi di legge, ma per evitare che lo svuotamento dell’aula faccia saltare il PON, ovvero il progetto europeo che finanzia nel Sud Italia, fino al 2013, i laboratori come il mio.

Ci salutiamo, creiamo un’atmosfera informale, le faccette fetentelle sono simpatiche, sono vispe. Ma si vede subito che non sarà facile tenerle ferme in un banco. Che avete letto, che vi piace leggere? Prufissuré, ma qua’ leggere, che palle.

Andate al cinema?

Eh…!

Ma vi piacciono i film?

Sì, i film gli piacciono ma li vedono a casa, sul pc o in televisione. Non sono mai entrati in una sala cinematografica.

Iniziamo a fare gli esercizi di libera scrittura secondo il metodo che ho sviluppato in questi anni: scrivono per cinque minuti senza mai cancellare né rileggere. Per una volta non si vedranno correggere la grammatica, né la sintassi, né la punteggiatura. Sono contenti ma anche strafottenti: prufissuré e quanno maje ce penzammo a ‘sti cose?, sghignazza Salvatore, uno magro magro, con la faccia lunga e gli occhi ancora da bambino.

Ci divertiamo, la cosa funziona. Ogni tanto propongo una lettura, la prof mi segue e, nell’altro modulo, quando sarà lei a ripetere gli esercizi inventandosene di analoghi a quelli che propongo, riesce a replicare piuttosto bene il risultato che ottengo io nell’aula.

In queste prime pagine entriamo nel mondo di Antonella, eppure, come scritto prima, al centro del suo mondo, come al centro del libro stesso, c’è sempre la lettura.

La vediamo in una scuola, assieme a una classe di ragazzini, e subito, prima ancora di scrittura, si parla di lettura.

Qual è la prima domanda che Antonella pone ai bambini: Che avete letto, che vi piace leggere?

Da questa domanda dovrebbe partire ogni laboratorio di scrittura. Questo dovrebbero chiedere al pubblico gli scrittori che vanno in TV, anziché celebrare se stessi: parlare di libri! E sempre i libri sono al centro della storia anche quando Antonella s’interfaccia con le professoresse: suggerisco letture a insegnanti che non leggono o non sanno bene come orizzontarsi fra i libri; adulti, insegnanti che hanno perso il gusto della lettura, aprono solo i libri che servono loro per le lezioni, quasi il loro compito fosse insegnare una determinata materia scolastica e basta, anziché trasmettere ai ragazzi la cultura, cui principio è appunto la lettura.

Alla base di ogni lezione di Antonella, del suo peregrinare fra queste pagine, c’è la missione di diffondere l’amore per la lettura.

Da qualche anno, invece, leggere è considerato un errore, una perdita di tempo, un insignificante vizio. Studiare e leggere, è ormai noto, non ti porteranno da nessuna parte, non ti apriranno le porte del mondo del lavoro, non faranno di te una persona migliore.

Però, scrivere vogliono scrivere tutti. Hanno un romanzo nel cassetto, specie i più insospettabili.

Un tale impiegato in un’azienda pubblica venne da me, una volta, chiedendomi le regole per scrivere un romanzo di successo. Cos’ha letto?, chiesi. Io, robot di Isaac Asimov. Bene, risposi, e poi? Solo quello, mi disse orgoglioso.

Insegno a scrivere perché così insegno anche a leggere, e a leggere con occhio critico, perché è un modo di scoprire l’inatteso piacere dell’uso delle doppie e, al tempo stesso, vedere il mondo intorno a noi in 3D, come direbbero in certe classi che conosco.

Insegno a scrivere in ogni tipo di scuola perché ne vale sempre la pena, perché la colpa non è mai dei ragazzi o dei bambini ma nostra, degli adulti che non leggono.

In questo meraviglioso estratto che, a mio dire, lettori e scrittori dovrebbero incorniciare, vediamo evolversi la questione di cui abbiamo letto appena qualche pagina prima; in più emerge un altro fattore, una questione esposta con le mie riflessioni prima che iniziassi a mostrarvi questo libro: Molti non vogliono leggere però tutti vogliono scrivere!

Già, perché tutti sentiamo il bisogno di dire qualcosa, e nell’attuale società tutti ci crediamo capaci di esprimere qualcosa di unico, perché siamo i migliori, siamo vincenti, possiamo tutto anche senza studiare, anche senza leggere.

E di che stupirsi? Non è il messaggio che oggi, a dieci anni da questo libro, è propinato con forza ovunque, dai media finanche dai politici. Non ho mai letto un libro? Beh, posso fare l’Influencer e arrivare a Mondadori; non ho una laurea e tanto meno un master? Sciocchezze! Posso comunque diventare Ministro.

Uno sfacelo che ha avuto origine con l’impoverimento dei lettori, perché, se come abbiamo detto leggere è alla base dell’istruzione, non leggere è il principio dell’analfabetismo.

E perché non abbiamo più lettori?
L’abbiamo detto prima, citando il pensiero anche di Eco: perché le persone cercano piaceri più veloci.

È il piacere, il punto: la gioia di leggere.

Confrontandomi con alcuni aspiranti scrittori riscontro spesso due tipologie di pensiero: Faccio fatica a leggere i classici, ma so che sono indispensabili per chi vuole scrivere; e ancora: Leggere i classici è indispensabile per scrivere.
Due modi di pensare che hanno un sotto testo evidente e drammatico: leggere è una fatica.

Nel primo concetto leggere è palesemente esternato come una fatica accettata come una sforzo; nel secondo pensiero, seppur giusto, è la motivazione a essere sballata, perché ci si impegna a leggere per puro dovere.

Leggere è bellezza. Da piccoli, prima del bombardamento dei media, ancor prima di guardare i cartoni animati alla TV ascoltavamo le fiabe, no? E cosa ha fatto Antonella nel primo estratto da me riportato? Ha detto ai ragazzini cosa o come scrivere? No, li ha lasciati liberi di esprimersi, di scrivere di getto, poi ha letto assieme a loro. Perché solo facendo riscoprire la bellezza della lettura, delle storie scritte, leggere non sarà più un atto forzato, ma una gioia, un piacere migliore dei tanti altri piaceri che, buoni che siano, non stimolano l’intelletto e i sentimenti quanto la lettura.

In ogni scuola dove vado i prof e gli studenti masticano il boccone del testo all’infinito, analizzandolo fino a che non perde ogni sapore, quindi lo sputano in un test o in un saggio breve (si fosse capito cos’è…) e chiudono il libro (che fatica!) con la sensazione che non avranno mai più voglia di leggere in vita loro.

Insomma, dico alla prof insorta, se puoi, molla le sequenze!

Davveeeero???, mi chiede.

È come se si fosse messa in discussione una verità di fede: il Terzo Stato si agita nei banchi.

Sì, mollale. La tecnica non precede il sentimento. Tu hai in classe ragazzini che hanno bisogno di innamorarsi della letteratura, di sentire il bisogno dei libri prima di analizzarli. Falli leggere e basta. Leggi loro ad alta voce con espressione. Ogni ragazzino troverà qualcosa nei libri in cui identificarsi: le storie sono state scritte apposta, parlano di noi.

Fare innamorare, ecco lo scopo. Non leggere per analizzare, non leggere per imparare, ma leggere per scoprire una storia e in essa trovare la nostra storia. Poi ci verrà da analizzare la tecnica, poi ci verrà voglia di studiarla, ma tutto nascerà dall’amore per la lettura, dunque non sarà più costrizione.

Questo meraviglioso estratto, parte di una cornice bellissima che poi di certo leggerete, spiega benissimo ciò che ho espresso prima di riportarvelo: o meglio, i miei ragionamenti sono appunto frutto di questo estratto, essendo esso il pensiero di Antonella, mia maestra.

Leggere è crescita, non lo studio matematico di un manuale d’ingegneria. Leggere è bellezza.

Certo, se uno è arrugginito farà fatica, è normale, ma quale persona in sovrappeso o infiacchito da una vita sregolata potrebbe mai fare da subito tre ore di palestra al giorno?

Però, come abbiamo detto prima, tutti ambiscono a essere scrittori, e non è l’amore per la storia a guidarli, ma l’ambizione, l’egocentrismo, la convinzione che un libro darà loro la fama, li farà sentire migliori di altri.
Se con i bambini – terreno ancora fertile – l’influenza della società è ancora lieve, con gli adulti che si approcciano alla scrittura è molto più difficile agire: sradicare in loro la convinzione che tutti possono tutto e che leggere è superfluo.

Niente crescita, niente trasformazione, niente cambiamento, niente studio. E non è colpa solo della tv, perché anche i loro genitori sono convinti che le cose vadano così e anche alcuni loro insegnanti: poiché hanno a che fare con bambini, ad esempio, le maestre pensano di poter propinare loro testi teatrali senza né capo né coda che parlano scherzosamente del lavoro in classe. Non sanno come si scrive un testo teatrale, non hanno idea di come si scrive una storia, mi chiedono solo «come faccio il colpo di scena», «come faccio il finale». Ma quale colpo di scena, se la scena non c’è? Quale finale, se la storia non c’è?

E poi protestano: ma, insomma, quanti libri che acquistiamo in libreria non hanno né capo né coda? Non hanno una storia? E il sottotitolo a quest’osservazione è: se possono quelli, non possiamo noi? Non siamo anche meglio noi?

Attenzione, questo è IL PENSIERO ITALIANO in questo momento storico: se è così facile, perché io no?

Ragazzi, prof, maestre, spiego: non è facile. State prendendo lucciole per lanterne e prima o poi un lavoro mal fatto si fa scontare. C’è un sapere da apprendere, c’è un lavoro da fare, c’è una disciplina da assumere per scrivere. Non è facile, è difficilissimo.

Purtroppo “il periodo storico” di cui parla Antonella in questo libro è oggi altrettanto attuale, anzi, ingigantito, calcificato nel tessuto sociale e culturale.

Parlando di aspiranti scrittori, tutti vogliono scrivere senza alcuno sforzo, senza disciplina, senza regole.

Può sembrare un controsenso se paragonato a quanto detto prima riguardo la libera scrittura, ma non lo è affatto, perché scrivere al fine di rendere un’opera pubblicabile è un lavoro durissimo (benché, appunto, oggi molti scrittori affermati e colmi di sé fanno passare il messaggio opposto), e si arriva a questo passando dal primo gradino: l’amore per la lettura; poi si passa all’amore per la scrittura, e via con lo studio, l’esercizio quotidiano, e infine, magari, cercare di essere uno scrittore di professione.

Oggi è l’inverso: voglio essere uno scrittore, ma non voglio leggere tanto, non voglio studiare; esempio fortificato da persone che, a seguito di un libro scritto sotto commissione, si vantano di essere arrivate a grandi editori senza mai aver aperto un libro.

Ma un lavoro mal fatto prima o poi si fa scontare.

Fortunatamente esistono ancora persone, scrittrici e maestre che ogni giorno contrastano questa mentalità.

E non importa se scrivi libri per professione, se sei uno scrittore, perché in questo paese di pesci tutti uguali, come scriverebbe Jennifer del Liceo Garibaldi, basta aver stampato un libretto a proprie spese o pubblicato esercizi di latino per qualche misconosciuto librario locale per essere «scrittori».

Vaglielo a spiegare, poi, ai ragazzi che ti guardano con faccia da pesce qualsiasi autori gli nomini, da Primo Levi a Beppe Fenoglio, da Elsa Morante a Strindberg, che lo scrittore, la scrittrice, sono altro. Disciplina, vocazione, parole passate di moda. Del resto, anche gli insegnanti meno infartati, ti inseguono disperati perché vogliono il prodotto. Facciamo il libretto per i ragazzi, facciamo il cortometraggio, facciamo il romanzo collettivo.

E se frenassimo tutti? E se guardassimo un istante solo al fatto che qui, in queste classi, non hanno nemmeno idea del perché gli stiamo facendo fare tante cose? E se invece di fare ci occupassimo di capire?

E se frenassimo tutti? E se invece di fare ci occupassimo di capire?

Credo che queste parole di Antonella forniscano pienamente la risposta ai nostri problemi attuali in una società dove tutti si credono in grado di fare tutto, con facilità, senza formazione né sacrificio, riempiendo il nostro tempo di un vuoto cosmico che non lascerà nulla alle nuove generazioni, se non un concetto del tutto deturpato di ciò che è l’arte, la creatività, la sapienza.

Se non facciamo inversione di marcia i nostri figli avranno come accademici persone formate tramite Wikipedia, scrittori che non hanno mai aperto un classico della letteratura, registi e sceneggiatori che ignorano i capolavori del cinema, artisti improvvisati che paragonano una mela attaccata al muro a un’opera di Caravaggio. E per invertire la rotta abbiamo bisogno di tornare agli albori, riprendere le radici dell’insegnamento, l’ambrosia che ci veniva data da bambini: la lettura.

Dobbiamo tornare a leggere, poi verrà tutto il resto.

Ringrazio ancora Antonella per aver scritto questo meraviglioso libro, potente nella sua schietta e veritiera analisi della società di allora (e di oggi), e per la guida che esso ci offre.

Non posso che essere fiero di avere una maestra simile.

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