Omar di monopoli: saper narrare di un territorio e di una cultura senza cadere nei cliché

Una delle grandi difficoltà del nostro tempo è narrare l’Italia meridionale senza cadere nei cliché.

Da napoletano ne ho viste di tutti i colori: la pizza, il sole, il mandolino; il napoletano sempre spensierato e gioviale; il napoletano sfaticato ma simpatico; il boss, il ladruncolo, il parcheggiatore abusivo e le bigotte pettegole.

Certo, anche queste cose fanno parte di Napoli, ma una città, un popolo, è ricco di sfumature: ci vuole ben altro che un cliché per identificare una voce, un luogo.

Oggi questa piaga non è solo presente, ma sembra voluta, ricercata, una moda. Autori affermatissimi che scrivono luoghi comuni sulla cordialità napoletana, altri che usano frasi fatte per descrivere la bellezza del popolo napoletano (a mio dire una forma orrenda di razzismo), altri ancora scrivono di commissari che divorano sfogliatelle e pizze come non ci fosse un domani; e questo per non parlare dei camorristi dalla barba lunga e con un frasario fra volgare e film di Spike Lee.

Tutto ciò a me non sembra letteratura, ma qualunquismo. E se l’appartenenza a una determinata regione si può narrare solo con questi luoghi comuni, allora ben vengano i palazzoni di Milano, immagine molto più diretta pur essendo a sua volta un cliché.

Si sente la mancanza di autori come Starnone, Rea, Franchini o Montesano (e molti altri), capaci di narrare l’appartenenza a una terra senza cadere nel banale, nel ridicolo.

Lo stesso problema, ahimè, è vissuto da scrittori originari di regioni al di sotto della capitale campana, o che scrivono di esse.

Uno che si è contraddistinto, a mio dire, è Niccolò Ammaniti.

Pur essendo romano, è riuscito a narrare in modo eccellente la vita di un piccolo bambino, Michele Amitrano, abitante di Acqua Traverse, un immaginario paesino siciliano composto da poche case, del tutto immerso fra campi di granoturco.

A mio dire, questa storia semplice, talmente veloce e ben fatta da poterla leggere in un giorno, è il libro migliore di Ammaniti.

Eppure anche qui ci sono delle stonature.

Se Michele e la sua combriccola di amici sono meravigliosi, lo sono di meno le loro famiglie: salvo per il pittoresco e ben fatto Felice, fratello Del Teschio, amico di Michele.

I genitori, infatti, hanno un linguaggio e un modo di fare che poco richiama al territorio in cui si ambienta la storia. Questo è un peccato. Certo, dovrei scrivere dettagliatamente del libro per farvi capire cosa intendo, ma in ogni caso sono piccolezze: Io non ho paura è un piccolo capolavoro fatto davvero bene, e da leggere assolutamente.

Un libro invece che, a mio dire, non ha punti deboli ed esprime con lucida chiarezza un territorio, una cultura, una lingua, è Nella perfida terra di Dio, di Omar Di Monopoli, Adelphi edizioni.

Libro edito nel 2017, narra le vicende di due fratelli: Gimmo e il piccolo Michele, bambini cresciuti a Rocca Bardata, orfani di madre e abbandonati dal loro papà, Tore Della Cucchiara, fuggito dal paese perché accusato dell’omicidio di sua moglie, ma ritornatovi dopo la morte di ‘mbà Nuzzo, suo suocero e pittoresco personaggio di Rocca Bardata, visto da tutti come un santone.

Il punto di vista dei personaggi è sincero e reale. Ognuno di essi trasuda della formazione caratteriale del luogo in cui vivono, senza però mai cadere nel tranello del cliché, né diventando strabordanti di una “meridionalità” che rende grotteschi (in senso negativo) i personaggi. Qui ogni personaggio ha una voce, è caratterizzato in mille sfumature, come lo stesso Tore della Chucchiara: volgare a tratti, cafone ma non troppo, paesano eppure uomo di mondo, padre assente ma che si mostra premuroso. Lo stesso boss del paese, Carmine Capumalata, pur mantenendo i tratti del tipico criminale del meridione, non rasenta nel cliché, o peggio, nel ridicolo, come i boss visti in alcuni libri persino best-seller. Carmine ha un passato ben definito, è un uomo colmo di contradizioni, lo si vede persino tessere rapporti con delle suore, e al tempo stesso lo si osserva in situazioni davvero squallide.

L’intreccio, eccellente, muove la vicenda in un tempo passato e in un tempo presente, svelando lentamente la storia dei personaggi, il motivo del ritorno di Tore, la morte di sua moglie, e portando il lettore a voler scoprire cosa succederà a Gimmo e al piccolo Michele.

Nel libro sono trattati persino temi come la falsità delle istituzioni ecclesiastiche, l’abuso edilizio, persino lo sciacallaggio mediatico, eppure tutto è fatto in modo ordinario, non eclatante, così da non rendere il romanzo un’accozzaglia di luoghi comuni su situazioni e persone coinvolte in esse.

Persino il ritmo serrato e le sparatorie, che hanno battezzato il romanzo come “Un western pugliese”, non sono mai plateali da risultare fasulle, né colme di quei tratti che, ahimè, hanno reso famoso il meridione.

Sono essenziali, realistiche, non usate per attirare ma funzionali alla storia e al viaggio dei personaggi.

Ma al di là della trama, dell’intreccio e della struttura dei personaggi, ciò che permette a questo romanzo di narrare con fedeltà un territorio e chi lo vive è la lingua.

Seppur essendo un libro articolato in più sotto trame, questo è quello che si chiama “un romanzo di lingua”, perché è la voce autoriale di Omar a rendere perfetta l’opera: non per niente Adelphi sceglie solo autori con una voce autoriale unica e definita.

La voce di Omar, seppur pregna degli elementi della sua terra, non risulta mai poco letteraria, anzi, è talmente matura da fondere un utilizzo alto della lingua a un lessico popolano, cosa che mi ricorda molto Flannery ‘O Connor e, per certi aspetti, il Franchini di “Quando scriviamo da giovani”.

Ma visto che stiamo parlando di voce autoriale, lasciamo che sia Omar a mostrarcela.

L’impronta rancida della malattia non voleva saperne di abbandonare la stanza in cui il vecchio mbà Nuzzo aveva tirato le cuoia tre giorni prima, allignando ostinata anche nel soggiorno ronzante di mosche incattivite dal caldo, quando il pick-up color caffelatte, un Volkswagen sbiadito e smarmittato che sembrava pronto per il ferravecchio, spuntò oltre il limite del cancello e si fece strada lentamente sul vialetto soffiando neri sbuffi di gas di scarico e smuovendo piastre di fango raggrumato.

Gimmo, in piedi sotto la veranda, non riconobbe subito suo padre alla guida. Né poté farlo Michele, accovacciato su una sdraio cadente qualche metro più in là, visto che era poco più che un poppante la notte in cui i lampeggianti vennero a portarsi via l’uomo.

Quando il camioncino, in un prolungato stridore di ganasce, si arrestò a pochi metri dalla catapecchia incavata, i ragazzi abbandonarono le loro posizioni per affacciarsi guardinghi e allarmati sul cortile.

Ce vulìti? chiese Gimmo issandosi sulle punte dei piedi per sembrare meno mingherlino. L’altro, veloce come un furetto, era sgattaiolato oltre la porta a zanzariera alle loro spalle e adesso stava porgendo al fratello una doppietta da caccia col calcio intarsiato.

Che minchia vorresti fare con quello? lo irrise il nuovo arrivato mentre scantonava dalla vettura. Era alto, la faccia irsuta e sabbiosa traversata da un candore efferato, tipo quelle delle bestie; ai piedi dei rutilanti stivali da cowboy sulle cui cuciture sfilacciate un paio di galline, chiocciando curiose, erano già scattate a far la posta.

Il nonno l’hanno portato ieri al camposanto, lo avvisò allora Gimmo, levando appena al suo indirizzo la duplice canna antracite del fucile. Se volevate parlare cu iddu mi sa che un viaggio a vuoto avete fatto.

L’uomo s’era acchinato a grinfiare una borsa di pelle dal cassone posteriore: si voltò a scrutare il ragazzo dritto negli occhi e gliela gettò ai piedi.

Ti sì fattu grande, disse snudando i denti bianchi, proprio n’ommo fatto e finito. Mò però smettila di fare il ganghisterro con me e aiutami a portare le valigie dientru casa.

Il ragazzo, riconosciutolo, d’acchito s’impietrì.

Tu qua non ci puoi stare, si mise a balbettare dondolando la matassa di capelli cinerini, questa non è più casa tua! Poi, ripresosi a malapena dallo stupore, guardò fisso il padre e puntandogli addosso l’arma arrugginita gli strillò furioso: assassino!

Direi un attacco eccezionale, no? In una pagina è mezza abbiamo visto dove siamo, chi sono i personaggi principali, come vivono e in parte i loro conflitti.

Dalla parola “mbà Nuzzo” sappiamo dove siamo; così come riconosciamo subito l’età di Gimmo e Michele da ciò che stanno facendo. Inoltre, sappiamo che il padre di entrambi è stato portato via dalla polizia quando Michele era solo un poppante, e vediamo da subito che non lo vogliono in casa.

Ma al di là di questo, la cosa più sorprendete è la lingua: “L’impronta rancida della malattia non voleva saperne di abbandonare la stanza in cui il vecchio mbà Nuzzo aveva tirato le cuoia tre giorni prima”; un linguaggio forte, metaforico, mischiato a un linguaggio duro, rozzo: un continuo contrasto, come la terra in cui è ambientata la storia. O ancora, un sapiente mischiare una lingua alta a immagini rudimentali: “Era alto, la faccia irsuta e sabbiosa traversata da un candore efferato, tipo quelle delle bestie; ai piedi dei rutilanti stivali da cowboy sulle cui cuciture sfilacciate un paio di galline, chiocciando curiose, erano già scattate a far la posta”.

Questo significa dare voce a una terra e a una cultura, e farlo senza cadere nel pacchiano, nei luoghi comuni o dando un tono caricaturale ai personaggi.

I dialoghi poi, sono davvero fantastici. Il modo in cui Omar mischia il dialetto all’italiano è bellissimo, come nel seguente estratto:

Dammi due chili di fagioli, due chili di piselli e un sacco di patate, ordinò perentorio Della Cucchiara rivolto al proprietario. E pure quattro bottiglie di vino voglio. Roba buona, non quella sciacquatura di piedi che vi siete imparati a rifilare ai turisti da ste parti. Si girò a blandire il più piccolo dei figli con la coda dell’occhio prima di riaprire bocca. Gelato, ecco, anche un cazzo di vasetto di gelato mi devi dare. Che gusto ti piace, vagnò? chiese al bambino.

Vaniglia, rispose quello.

E dacci vaniglia, allora.

Anche qua, il linguaggio di Tore Della Cucchiara è del tutto misurato. Il dialetto è utilizzato nel modo giusto, senza eccessi tipici di best-seller che trattano di camorra. È un parlare quotidiano, vero, persino tenero quando Della Cucchiara, seppur rozzo, si rivolge al piccolo Michele.

Anche la descrizione degli ambienti, per quanto essi siano miseri e grezzi, è fatta con una tale maestria da renderli affascinanti, accostando immagini indigenti a una lingua colta.

Giunti in periferia superarono una chiesetta abbandonata, dove vecchie campane aragonesi ormai verdognole per l’età erano appese a una sbarra tra massicci piedritti di calcarenite. Nelle nicchie che si aprivano sulla facciata barocca sfilavano statue di santi dagli arti e dai nasi amputati due secoli prima a colpi di moschetto dei briganti. Attorno, una teoria di abitazioni malandate assortite, recinti, casupole, stamberghe bozzolose avviate a una morbida fatiscenza. Qualcuno si affacciò furtivo dalle finestre, un ciccione in groppa a un trattore sovraccarico di serramenti tagliò loro la strada senza scomporsi, una scombiccherata torma di cagnacci spelati li inseguì per un tratto breve abbaiando a squarciagola.

Sembra quasi di volare sotto le campane, poi entrare nelle nicchie, sfilare sotto gli occhi delle statue dei santi e arrivare in un mondo primitivo di casupole, trattori e cani randagi.

Con la stessa maestria, Omar ci porta nel mondo dei due ragazzini Della Cucchiara e del loro papà, Tore.

Gli occhi dell’altro rimbalzarono da lui al padre come biglie impazzite di un flipper. Nnàggia li santi, un posto dove stare lo troviamo, eruppe in uno strepito. Io di aspettare che questi si scannano tra loro sono stufo marcio. Andiamo dalle monache. Suor Caterina non ci manderà di certo via…

Tore si era fermato all’imbocco del vialetto ormai risucchiato dal buio, un botolo pustoloso affiorato dal cumulo di rottami a scodinzolargli attorno tutto allegro nonostante una zampa divorata dalla rogna, mentre gocce d’acqua grosse come pallini cominciavano a calare a scrosci improvvisi.

Lasciate perdere quelle beccamorte, disse l’uomo, tornando a dedicare ai figli il lembo più estremo della propria attenzione. Lo schianto soffocato di un tuono parve accrescergli la voce in un duplice accordo di tamburo. Quelle là la vera fonte di ogni cazzo di problema sono state, per la nostra famiglia…

Gimmo lo stava ancora guardando fitto tra le raffiche di pioggia sempre più intense. Caspita vuoi dire? chiese, senza abbassare la guardia, ma il padre, ormai nuovamente trincerato in quella ferale catalessia che gli infettava il cuore, gli andò incontro e lo ignorò scartandolo, sciaguattando con gli stivali nella fanghiglia in formazione per infilarsi dritto dentro casa. Il bambino al suo fianco ne aveva seguito il risoluto avanzare strabuzzando inutilmente i bottoni oculari e ora, in un buffo fremito d’urgenza, si grattò i capelli fradici e guardando il fratello propose: Gì, entriamo pure noi ca ni sta bagnamu com’ a due fessi!

Il lessico di questa parte è meraviglioso, mostra tutta la maestria di Omar nell’utilizzo delle parole. Ma ci mostra anche una verità profonda: Tore Della Cucchiara non è cattivo come sembra.

Sì, perché il centro della storia è proprio il rapporto di questi due bambini con il loro papà.

Voglio chiudere mostrandovi un ultimo estratto, il mio preferito.

All’inizio lasciarsi accalappiare nelle gabole dei sentimenti era stato inebriante. La stessa brama di vita che sostanziava la sua giovinezza le aveva imposto di cedere a quel richiamo senza troppa resistenza. Lui si appostava con la moto un giorno sì e l’altro pure giù alla baracca, ricorrendo alle scuse più disparate per farsi sotto a parlarle. Di tanto in tanto si presentava la sera per assistere ai sabba sempre più folcloristici del padre, affascinato, a suo dire, più dalla fila di gonzi pervenuti a implorare il miracolo che dalle reali capacità dell’uomo. Una volta si era fatto coraggio e l’aveva invitata a fare un giro. Lei, finta ritrosa, aveva accettato senza mostrare troppo entusiasmo. Erano andati alle giostre attrezzate in paese per la festa del santo patrono. Là, fianco a fianco a bordo di una macchina da scontro o volteggiando aggrappati ai sediolini del calcinculo, le loro gemellari inquietudini erano sembrate annientarsi a vicenda. Lui l’aveva fatta ridere spendendosi in affettuosità inaspettate da uno con la sua reputazione: le aveva comprato lo zucchero filato e vinto per lei un gigantesco orso di peluche al tirassegno, prendendola per mano e lustrandosi gli occhi tutto il tempo con la naturale radiosità della sua bellezza scarmigliata. E quando alla fine si era proteso a baciarla, la grinta del teppista ormai addomesticata, le aveva promesso solenne di non farla mai soffrire. La sera dopo, all’addiaccio, una coperta sbrindellata a separare i loro corpi nudi dalla nuda terra, si erano dati l’uno all’altra in mezzo ai campi, l’immensità del firmamento solcata dalle scie dei bolidi stellari che si sbrodolavano morendo nella notte della loro lunga estate senza fine.

Solo un paio di mesi più tardi, lei incinta, si erano ritrovati in un municipio a infilarsi l’anello al dito. Di nascosto, perché Nuzzo era contrario. Ma tanto lei aveva smesso da tempo di dar credito ai suoi rari strali. Scambiare Tore per il cavaliere senza macchia che non era l’aveva resa euforica. E dissennata. Un’amazzone invincibile finalmente libera dalle diuturne rampogne paterne, preoccupata solo di affogare, ubriacarsi, perdersi nelle dolci menzogne che si sussurravano voluttuosamente lei e il suo ganzo nella loro alcova non più clandestina.

Amore naufragato.

Speranze irrancidite.

Per me questa parte è poesia pura. Ecco come si narra di una cultura, di un luogo, di un vissuto che forma dei personaggi, non dei pupazzi.

Ancora complimenti a Omar Di Monopoli, sperando che possa regalarci altri libri meravigliosi come Nella perfida terra di Dio.

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