Provo sempre una forte tristezza quando vedo bravissimi scrittori dimenticati dalla massa e, peggio, superati in fama da autori commerciali, quelli di cui vediamo i mattoni esposti in bella vista negli autogrill, per capirci. Fra questi non posso fare a meno di pensare al bravissimo Sándor Márai, scrittore e giornalista ungherese naturalizzato statunitense, nato nel 1900 e morto nel 1989.
Il suo nome a molti non dirà di certo nulla, eppure le sue opere sono state tradotte qui in Italia dalla prestigiosa Adelphi.
Di origini aristocratiche, ha conosciuto la povertà poco prima degli anni trenta. Mal visto dal regime nazista e, dopo la Seconda Guerra mondiale, perseguito anche dai comunisti, nel 1948 fu costretto a lasciare l’Ungheria assieme a sua moglie Ilona Matzner, donna di origini ebraiche.
Non voglio dilungarmi ulteriormente sulla vita di Márai, ho voluto semplicemente accennarvi quanto sia stata strana e travagliata la sua vita solo perché questo aspetto traspare pienamente nei suoi testi.
Autore di circa settanta libri fra romanzi, racconti e poesie, ha raggiunto la piena fama grazie al libro Confessioni di un borghese, pubblicato nel 1934 in Ungheria.
Con ogni probabilità il romanzo che lo ha reso celebre qui in Italia è invece Le braci, edito in Ungheria, senza successo, nel 1942, e poi ripubblicato successivamente nel 1990, otto anni prima che fosse pubblicato qui in Italia da Adelphi.
La prosa di Márai si mostra consapevole, matura e precisa in questo libro, benché la trama si articoli in due tempi storici: quello del presente vissuto e quello del passato ricordato.

Ambientato nel 1940 in un castello ai piedi dei Carpazi, narra l’amicizia fra Henrik e Konrad, ormai vecchi e separati non soltanto dal tempo, quanto da scelte diverse, gelosie, menzogne e inganni.
Henrik, stanco e solo, incurante del proprio rango e delle ricchezze, ha come unico desiderio rivedere Konrad e mettere finalmente un punto alla loro comune storia.
Il tempo del presente si svela nella decadenza di Henrik e, soprattutto, nella sua sola e unica ossessione: Konrad.
In un alternarsi fra il disfacimento di ogni sogno, vissuto nell’oggi, e la pienezza dei desideri rincorsi nel passato, arriviamo fino al tenzone finale fra i due amici, un duello che, ancora una volta, non avrà luogo nel presente, ma nello loro comunque memoria.
È sempre difficile muovere la storia in due periodi temporali diversi senza che questi sembrino slacciati, il rischio più grande è che il tempo presente si tramuti in un contorno statico utile solo a raccontare la vera storia che si svolge nel passato, ma non è questo il caso di Márai, benché ciò che accade nel presente, ossia durante l’attesa dell’ultimo incontro fra Henrik e Konrad, avviene fra quattro mura, nella quotidiana solitudine di un vecchio stanco e consumato dagli anni.
È proprio il dolore presente di Henrik a rendere forte la storia che lui rammenta nel guardare un qualsiasi oggetto, nel vedere se stesso, nell’udire un singolo rumore.
L’immobilità e la solitudine di Henrik porta il lettore a chiedersi cosa sia mai accaduto fra lui e Konrad.
Come già detto, elemento forte di questo libro è proprio nella prosa: un linguaggio che riporta a un tempo antico, pur non essendo mai eccessivamente alto, mai noioso e sempre evocativo.
Dalla scrittura di Márai traspare pienamente la nostalgia per un tempo lontano, per i luoghi abbandonati, per una vita di ricordi trasfigurata nei suoi personaggi; una nostalgia che attanaglia con violenza il lettore da subito, sin dalle prime pagine:
«Dunque è tornato» disse ora ad alta voce in mezzo alla stanza. «Quarantun anni. E quarantatré giorni».
E vacillò, come se pronunciando quelle parole avesse esaurito le forze, come se solo adesso si rendesse contro dell’enorme quantità di tempo che significano quarantun anni e quarantatré giorni.

Qui ci viene presentata subito la pietra angolare su cui si regge l’intero libro: il tempo trascorso.
Non quarantun anni, ma quarantun anni e quarantatré giorni: l’ossessione di contare ogni anno, ogni giorno, ogni minuto.
Capiamo subito che l’attesa del vecchio Henrik non è ordinaria, ma è l’attesa di un’intera vita, una vita che lui ha vissuto solo e sempre concentrato su quel momento, su quando si sarebbe trovato di nuovo faccia a faccia con Konrad.
Un altro elemento su cui soffermarsi è l’utilizzo che Márai fa delle similitudini.
I nazisti della grammatica e della forma, spesso incapaci di comprendere persino la più lampante voce autoriale, di certo avranno storto il naso dinnanzi al susseguirsi rapido e immediato di quei due come, ma l’utilizzo in crescente delle similitudini fa parte proprio della potenza narrativa di Márai.
Personalmente la mia scrittura è ricca di similitudini. Ricordo ancora la prima volta che la bravissima Giulia Ichino lesse un mio racconto, ben tre anni fa: apprezzò molto le similitudini, sì, eppure mi mostrò quanto il mio abusarne le rendesse deboli.
Conservo ancora gelosamente le pagine in cui lei cerchiò in rosso tutti i miei come o simili a.
Cosa sto cercando di dire? Che strafare è un errore, certo, ma non è il caso di Márai. Il suo non è un caricare inutilmente e ripetere qualcosa di già detto, ma un accentuare con maggior forza un concetto fondamentale e farlo con un crescente preciso e consapevole.
Márai sa dove vuole arrivare, sa dove vuole condurre il lettore: nel pensiero ossessivo dei suoi personaggi.
A quel tempo aveva sedici anni ed era molto bella. Era bassa di statura, ma muscolosa e tranquilla come se il corpo fosse a conoscenza di qualche segreto. Come se nascondesse qualcosa, nelle ossa, nel sangue, nella carne, il mistero del tempo e della vita, qualcosa che non si può comunicare agli altri e non si può tradurre in una lingua diversa: un segreto che le parole non sono in grado di sostenere. Era la figlia del postino del villaggio, aveva partorito un bambino all’età di sedici anni e non aveva mai detto a nessuno da chi lo avesse avuto. Aveva allattato il generale perché aveva molto latte; quando suo padre l’aveva cacciata di casa, si era trasferita al castello. Non possedeva nulla, soltanto il vestito che indossava e, in una busta, una ciocca di capelli del bambino morto.

Qui si parla di Ninì, la domestica di Henrik, la sola persona con cui lui ha ancora un legame.
Come di certo avete capito il generale è Henrik. Comunque sia, non è tanto ciò che accade in questo estratto che conta, quanto com’è scritto.
Anche qui, come nel testo precedente, l’utilizzo delle similitudini è abbondante ma non esagerato né superfluo, tanto meno incontrollato. Márai con precisi e profondi affondi di coltello ci porta fin nel midollo di un personaggio che, altrimenti, avrebbe rischiato di passare in secondo piano.
Il suo incalzare suscita interesse e al tempo stesso inquietudine, perché sono appunto inquietanti i personaggi creati da Márai, specchio della sua vita di certo colma di ricordi.
Anche qui l’elemento cardine è il tempo: il tempo passato, la giovinezza svanita, il cambiamento inarrestabile e incontrollabile di un’esistenza ormai giunta al termine.
Quell’amicizia durava ormai da quattro anni, i ragazzi cominciavano a isolarsi dal mondo e coltivavano dei segreti. Il loro rapporto diventava sempre più profondo, sempre più affannoso. Il figlio dell’ufficiale della guardia era fiero di Konrad, si glorificava della sua amicizia, gli sarebbe piaciuto presentarlo a tutti come si fa con un’opera d’arte, con un capolavoro, e allo stesso tempo avrebbe voluto tenerlo lontano da tutti per timore che qualcuno potesse sottrargli la persona che amava.
La profondità del rapporto fra Henrik e Konrad, qui appena agli albori, svela senza menzionarlo il peso del tempo sul corpo dell’ormai vecchio generale, perché se la narrazione si sposta da un tempo presente a un tempo passato deve avere un senso, la storia raccontata deve condurci a ciò che ha creato, non deve fungere solo da elemento decorativo.
La grandezza dell’amicizia fra i due giovani ci porta alla decadenza del loro attuale rapporto e ci spinge a voler capire il perché questi due uomini, una volta talmente uniti, non si vedono da quarantun anni e quarantatré giorni.
Le braci di un’amicizia, di due vite ormai giunte agli sgoccioli, ma anche le braci dell’esistenza di Márai di cui il libro è pregno, perché, si sa, un buon libro è tale solo quando un autore riesce a trasfigurare la propria intimità sulla pagina scritta.

Tutti rimasero impressionati, perché nella sua voce risuonava la stessa tristezza che vibra in quella degli esuli quando parlano della patria e della casa lontana. L’ufficiale della guardia, leggermente piegato in avanti, osservò con attenzione l’amico del figlio, come se lo vedesse per la prima volta. Quella sera, quando rimase solo col figlio nel fumoir, gli disse:
«Konrad non diventerà mai un vero soldato».
«Perché?» chiese spaventato il ragazzo.
Ma sapeva che suo padre aveva ragione. L’ufficiale della guardia alzò le spalle, accese il sigaro, allungò le gambe verso il camino e contemplò il fumo che saliva dal sigaro. Con la calma e il tono di superiorità dell’esperto, disse:
«Perché è un uomo diverso».
Fu solo parecchi anni dopo, quando il padre non era più in vita, che il generale arrivò a comprendere quella frase.
In questo estratto traspare nitida, seppur velata, l’immagine dell’autore.
Il romanzo già da molti elementi traccia il vissuto di Márai: L’educazione rigida di Henrik proveniente da una nobile famiglia e, in contrapposizione, Konrad, figlio di una famiglia decaduta che ora, dalla Galizia, risparmia ogni soldo per aiutarlo a studiare.
Ogni pagina è colma di elementi che richiamano alla nobiltà dell’Est Europa del novecento, ma al tempo stesso alla povertà, all’emarginazione, alla differenza di classe sociale che, a prescindere dalla volontà dei due amici, condiziona la loro amicizia.
Márai è sia Henrik che Konrad, e la frase: “la stessa tristezza che vibra in quella degli esuli quando parlano della patria e della casa lontana” svela quanto sia intima la scrittura di Márai.
Ecco cosa fa di questo libro un capolavoro da leggere assolutamente, in esso è racchiuso il senso atavico della letteratura: raccontare una storia personale, qualcosa che ci sta davvero a cuore, e farlo con la maturità di chi sa lasciarla andare perché sia essa a vivere, non il proprio egocentrismo.