XXIII
Oggi
La prima volta che accompagnai mio padre a fare la chemioterapia non ci rivolgemmo la parola. Quella situazione, quell’intimità forzata, imbarazzava entrambi. Noi che non c’eravamo mai chiamati per nome adesso eravamo lì, in un ospedale dove la gente moriva, e forse anche Onofrio stava morendo.
Rideva. Spinto in carrozzella da una giovane infermiera cercava di convincersi di essere ancora l’uomo forte di un tempo.
«Signuri’, ma dite che quando saranno finite ‘ste flebo potrò tornare ad andare a femmine?»
L’infermiera si limitò a sorridere e con lei mia madre, al mio fianco, il volto rassegnato a una vedovanza che forse aveva accettato dal giorno in cui era andata all’altare, adesso giunta al proprio apice grazie alla consapevolezza della fine di mio padre.
Appena gli infermieri sdraiarono Onofrio sul lettino la sua espressione mutò di colpo.
Con occhi enormi, di un azzurro lucido, osservava il soffitto contrarsi su di lui, mentre gli infermieri trafficavano col suo corpo.
Quando l’ago penetrò il braccio di mio padre, lo vidi serrare gli occhi dalla dolore. Lui, l’uomo forte, quello a cui nisciun ‘o putev’ fa ‘nu cazz’, adesso era solo un bambino spaventato.
Continua a leggere Progetto editoriale: La finestra chiusa