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Che io chiamo arte: Marosia Castaldi, una scrittrice che merita giustizia

Con Franz Kafka abbiamo mostrato più di una volta quella che potremmo definire la cecità editoriale, o forse sarebbe giusto dire che non si tratta di cecità, quanto di una vista sin troppo acuta ma indirizzata a ciò che richiede il mercato: dare al popolo il prodotto che domanda anziché educarlo alla bellezza.

Più volte ho esposto il mio pensiero, ovvero il non essere contrario alla letteratura di intrattenimento e persino alle autobiografie, spesso autocelebrative, scritte da qualche Ghostwriter per il vip di turno. Non sono questi i problemi dell’editoria, lo ricordo ancora una volta, il problema sussiste quando il livello qualitativo di ciò che viene spacciato per letteratura cala in modo notevole.

La letteratura di intrattenimento o il libruncolo del vip non fa danno alcuno, anzi, potrebbe portare soldi alle case editrici e queste case editrici potrebbero investirli per pubblicare libri di alta qualità e dar spazio a nuove voci, magari difficili da piazzare perché poco affini alle richiesta del mercato, ma innegabilmente degne di essere pubblicate.

Purtroppo non sempre accade. A Kafka non è successo. Superato da incapaci, o comunque da scrittori meno geniali di lui, è morto da sconosciuto, come se non fosse il genio della letteratura che oggi tutti riconosciamo.

A mio dire il successo postumo è lo sbeffeggio a una vita di sofferenze e di umiliazioni, di rifiuti e di frustrazione, quasi una voce ipocrita sussurrasse al malcapitato: «Oh, ci scusi tanto, ci dispiace che lei abbia sofferto, fatto lavori che detestava pur di tirare avanti mentre vedeva altri meno bravi di lei passarle davanti. Ci perdoni per averla lasciata a morire da solo, non avevamo capito il suo genio. Ne siamo davvero spiacenti».

Il vaffanculo ci starebbe tutto, no?

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Scrittori e menestrelli

Ogni giorno, appena sveglio, mi chiedo quale sia il motivo che porti una persona a scrivere. È la prima domanda che mi pongo quando apro gli occhi, l’ultima che accompagna il mio sonno dopo ore notturne perse fra parole, caratteri, verbi, aggettivi e frasi; ingerendo e vomitando vocaboli e immagini fino all’alba, senza riuscire mai ad afferrarli pienamente e, infine, schiacciato, arrendendomi a morire mentre il mondo si risveglia, desiderando solo un altro giorno per provarci ancora.

Cosa porta mai a sopportare questa follia? E la si vive per davvero? L’audace lotta per congiungere l’invisibile al visibile. Strappare qualcosa dal cuore, dalla mente, dalle vene e da ciò che chiamiamo anima e trasfigurare quel qualcosa, appena una bozza di consapevolezza, in immagini, in volti, chiazze di ricordi e di voci.

È follia pura voler incarnare la memoria, renderla ancora viva quando è invece materia morta, sepolta, vivida solo in flebili respiri che avvertiamo appena un attimo nel silenzio dei nostri sguardi: i momenti in cui ci perdiamo a fissare la sagoma del riflesso di noi stessi, sbiadita e consumata nella frenesia della vita.

Ogni giorno mi chiedo se io sia capace di scrivere, se ne abbia la forza, la costanza, la vocazione, la pazzia. Ogni giorno mi interrogo su cosa sia uno scrittore: termine oggi – più di ieri – usurpato, denigrato, violentato. E mi chiedo se io lo voglia davvero fare: e cosa fare? Che tipo di scrittore essere, e che tipo di uomo? Qual è il senso di questa lotta per raggiungere quell’immagine che ti picchia nel torace di continuo, ossessivamente: l’urlo di una bestia che non ti fa dormire, se non stordito dall’alcool?

La memoria, il ricordo, l’ossessione di una vita che sai mortale: la tua esistenza fatta di attimi che vuoi inchiodare sulla pagina, come le farfalle di Nabokov.

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