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Che io chiamo arte: Marosia Castaldi, una scrittrice che merita giustizia

Con Franz Kafka abbiamo mostrato più di una volta quella che potremmo definire la cecità editoriale, o forse sarebbe giusto dire che non si tratta di cecità, quanto di una vista sin troppo acuta ma indirizzata a ciò che richiede il mercato: dare al popolo il prodotto che domanda anziché educarlo alla bellezza.

Più volte ho esposto il mio pensiero, ovvero il non essere contrario alla letteratura di intrattenimento e persino alle autobiografie, spesso autocelebrative, scritte da qualche Ghostwriter per il vip di turno. Non sono questi i problemi dell’editoria, lo ricordo ancora una volta, il problema sussiste quando il livello qualitativo di ciò che viene spacciato per letteratura cala in modo notevole.

La letteratura di intrattenimento o il libruncolo del vip non fa danno alcuno, anzi, potrebbe portare soldi alle case editrici e queste case editrici potrebbero investirli per pubblicare libri di alta qualità e dar spazio a nuove voci, magari difficili da piazzare perché poco affini alle richiesta del mercato, ma innegabilmente degne di essere pubblicate.

Purtroppo non sempre accade. A Kafka non è successo. Superato da incapaci, o comunque da scrittori meno geniali di lui, è morto da sconosciuto, come se non fosse il genio della letteratura che oggi tutti riconosciamo.

A mio dire il successo postumo è lo sbeffeggio a una vita di sofferenze e di umiliazioni, di rifiuti e di frustrazione, quasi una voce ipocrita sussurrasse al malcapitato: «Oh, ci scusi tanto, ci dispiace che lei abbia sofferto, fatto lavori che detestava pur di tirare avanti mentre vedeva altri meno bravi di lei passarle davanti. Ci perdoni per averla lasciata a morire da solo, non avevamo capito il suo genio. Ne siamo davvero spiacenti».

Il vaffanculo ci starebbe tutto, no?

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Deridere il mondo per mostrare la dolorosa verità: ‘E ppatane so’ bbone cotte!

Raccontare un’epoca in cui regna il disincanto e dove il perseguimento di un ideale è pura illusione di avere un ideale da rincorrere, non è facile, l’ho detto più volte, si rischia di diventare melensi, di esagerare. Allora si cerca sempre di renderla affascinante questa nostra realtà e nel farlo la si camuffa, la si contorce. Qui a Napoli, poi, siamo pieni di scribacchini che campano di luoghi comuni, di pizze, sfogliatelle, il vicinato gentile e ‘o Vesuvio ‘e ‘stu cazz!

O camorra o speranza che affiora anche nel più misero vicolo: criminalità oppure Peppeniello cu ‘a pizza a portafoglio n’man e magari ci mettiamo pure ‘o barbone saggio ca’ dice: «Comme ven’, accussì c’ha pigliammo, diceva ‘a nonna».

Non è il volto di Napoli, non è il volto della nostra epoca appiattita, svuotata e ridotta a un freddo dedalo di cunicoli in cui tutti corrono e corrono inseguendo il bisogno di sentirsi speciali, quando invece non esistono lotte, rivoluzioni, passioni epiche e grandi imprese da raggiungere, che siano esse materiali o intellettuali. Esistono invece i soldi che sono indispensabili, lavori odiati da svolgere per portare “il piatto a tavola”, anni e anni di vita che scorrono per poi non lasciare alcuna traccia.

Dunque o si sfocia in tragedie colme di affabulazione, oppure si punta all’individualismo: raccontare il singolo dramma famigliare di un individuo e ridurre la società a un ristretto numero di persone.

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Scrivere per vocazione o scrivere per egocentrismo?

Non capisco perché oggigiorno tutto ciò che ruota attorno ai libri, intesi come libri di narrativa o di poesia e non certo quelli scolastici, purtroppo, risulta affascinante. Il controsenso è che, statisticamente, l’Italia è una nazione con pochi lettori. Eppure tutti scalciano per scrivere un libro o per lavorare in ambito editoriale. Tutti hanno una storia da scrivere e vogliono scriverla, pubblicarla, farla leggere. Oggi è più facile trovare una persona che abbia scritto un romanzo, anziché una che abbia semplicemente letto, che so, I miserabili, tanto per menzionare uno dei classici basilari per chi intende fare narrativa.

Proprio quest’ondata di aspiranti scrittori ha dato il via a folate di addetti ai lavori in ambito editoriale: o meglio, spesso presunti addetti ai lavori.

Conosco centinaia di persone che frequentano corsi per diventare scrittori, correttori di bozze o editor, e poi non conoscono la differenza fra una scena e un sommario.

Cattivi maestri? Alcune volte sì, ma non sempre, fortunatamente. Io credo che la chiave sia nel quesito iniziale: perché tante persone sono affascinate dai libri? Cosa vogliono davvero dai libri?

Vorrei poter rispondere nel modo più ovvio, ossia perché leggere è bellissimo, ma ciò va in contrasto con i dati che mostrano una nazione in cui si legge sempre di meno.

Che dunque i libri siano diventati un prodotto di moda? Qualcosa da esibire tipo una bella borsetta, un cappellino? Continua a leggere Scrivere per vocazione o scrivere per egocentrismo?