La porta di casa era già spalancata. Il corridoio era pieno di persone che non vedevo da anni, immobili come statue.
Contro le pareti, sembravano lì per accogliere il mio passaggio.
C’era pure il papà di Alfonso, Giannino Vitagliano, proprio lui che aveva sempre giudicato mio padre un cafone, un animale. Era venuto anche Sciabolone. Nel vedermi mi pose la mano sulla spalla, incapace di guardarmi negli occhi, come tutti.
Avanzavo in quel varco di carne, mano nella mano di Lia. Udivo appena qualche sospiro, la fasulla pena di quei deficienti che non avevano mai sopportato né me né mio padre.
In fondo al corridoio la luce della camera da letto dei miei era accesa, da essa giungevano pianti, lamenti e voci.
Riconobbi il gemito doloroso di mia madre ed ebbi voglia di andare via, perché più della morte di mio padre mi terrorizzava il pensiero della sofferenza di mia madre e di ciò che avrei dovuto fare per lenirla.
Era seduta accanto al letto, stravolta dalle lacrime, la mano ferma sul corpo esangue di mio padre ridotto solo a un corteccia di pelle.
In piedi alle sue spalle c’era mia sorella, lo sguardo chino per non vedere cosa era rimasto di suo padre.
In un angolo c’era mio fratello.
Lia continuava a tenermi forte la mano, ma non la guardai, non dissi nulla, insieme a lei avanzai lento verso il letto, seguito dagli sguardi invisibili di tutti i presenti e di mio fratello che dalla sua tana sembrava fiutasse ogni mio passo.
Appena raggiunsi mia madre, lei, senza riuscire ad alzarsi, mi afferrò il braccio e mi tirò a sé.
Sentivo le sue lacrime bagnarmi il petto, come se volessero scavarmi nelle carni ed entrami nel cuore. Sembrava mi stesse chiedendo di ridarle Onofrio, e perché, non lo capivo.
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