antonio franchini: redattore di ferro, scrittore sensibile

In un precedente articolo ho già parlato di Antonio Franchini e del suo meraviglioso libro Quando scriviamo da giovani. Redattore storico della narrativa italiana Mondadori, dal 1991 al 2015 ha portato la casa editrice milanese a innumerevoli successi, fra cui la scoperta di casi letterari quali Giordano e Saviano. Lasciata Mondadori ora si occupa della narrativa italiana e della saggista per Giunti.

Oltre che il più grande redattore italiano contemporaneo, Franchini, come già scritto nel precedente articolo a lui dedicato, è uno scrittore eccelso, a mio dire paragonabile a quei rari casi di scrittori al di fuori dell’ordinario come Giuseppe Montesano o Arnaldo Colasanti: prodigi unici in ambito letterario, almeno qui in Italia.

Un vero peccato che Franchini, come i due illustri nomi a lui accostati, a causa dei suoi numerosi impegni editoriali possa scrivere poca narrativa.

Vincitore del Premio Bergamo nel 1997, del Premio Fiesole Narrativa Under 40 e del Premio Mondello Autore italiano nel 2003, la sua scrittura risulta precisa, alta e raffinata seppur concreta ed evocativa, al punto da rendere appassionante quanto un Classico della letteratura anche un testo che potrebbe essere definito un reportage narrativo come I gladiatori, bellissimo libro pubblicato nel 2005 da Mondadori nella collana P.B.O.

I gladiatori è un viaggio nel mondo del pugilato, ma non solo, perché scava nelle radici non soltanto dello sport ma del senso atavico della lotta e nel cuore dei lottatori. Antonio, narratore e protagonista di questo meraviglioso libro, in un viaggio nelle palestre di vecchie borgate romane conduce il lettore nel mondo segreto del pugilato, quello che non si vede in televisione; così come le storie di uomini di cui spesso si vedono solo i colpi sferrati sul ring. Sono proprio le storie di questi uomini, nuovi gladiatori, ad arrivarci grazie alla sapiente e raffinata scrittura di Franchini.

Antonio, da vero cronista e ricercatore, cuce con maestria vicende, ricordi, sogni e delusioni in una fitta e ordinata ragnatela in cui possiamo perderci non solo nelle borgate romane o nelle vecchie palestre, ma viaggiare assieme a uomini che hanno girato il mondo per una passione da inseguire. Perché al centro di questo libro non c’è uno sport, ma il cuore umano. Credo infatti che sia questa la vera pietra angolare di questo libro, ciò che non lo rende solo un reportage riguardante uno sport, ma un vero e proprio scavare nelle esistenze di chi lo pratica e donarle a noi, così come sono, con la sensibile capacità narrativa di cui Franchini è capace e che procedo subito a mostrarvi.

Non è facile raccattare in giro per l’Europa otto uomini di più di centro chili capaci di stare su un ring.

Non è facile trovare uomini alti quasi due metri che abbiano voglia di combattere e sappiano muoversi con la grazia che rende accettabile un massacro.

Disposti sì, se ne trovano quanti se ne vuole, con tutte queste guerre che fanno profughi, regimi che fanno esuli, carestie che fanno disperati.

Quelli che naturalmente peserebbero ottantacinque, novanta chili, si devono bombare.

Si riconoscono subito, sono i più plastici, i più belli, all’apparenza, e spesso i più fragili, perché la loro stazza è chimica, illusoria rispetto a coloro che hanno addosso un quintale e più di carne maldisposta, ma autentica e cattiva.

Antonio Franchini (© PIERGIORGIO PIRRONE / MARGOPHOTO / Lapresse)

Da questo attacco di libro capiamo subito che l’opera di Antonio è ben più, come già scritto, di un viaggio nel mondo del pugilato, ma una scoperta dell’uomo pugile.

“La grazia che rende accettabile un massacro”, questa frase è a mio dire da incorniciare.

Noi vediamo l’apparenza, lo spettacolo, lo show; ma cosa c’è dietro di tutto ciò lo vediamo davvero? Capiamo che stiamo assistendo alla lotta di due uomini? Una lotta vera, non come quella nei film; una lotta senza odio, senza rancori, senza vendette da compiere o motivazioni che vadano oltre al voler vincere perché non si sa far altro che combattere; la lotta diventa qualcosa che hai nel sangue e non si può costruire per quanta forma si dia al corpo.

Lo show, l’apparenza, non può surclassare il cuore di un lottatore celato in un quintale di carne maldisposta, ma autentica e cattiva.

I gladiatori morivano, anche se meno spesso di quanto possiamo immaginare – un caso di morte ogni dieci scontri, secondo un calcolo fatto oggi – mentre i nostri atleti non muoiono, generalmente, i colpi però li segnano.

La differenza tra il presente e il passato – tra l’arena polverosa e il ring illuminato – è più d’intensità che di sostanza, anche se noi alimentiamo l’illusione di non dover morire mai, noi per cui la morte non è conclusione ovvia ma bastardo accidente.

Per la verità, la sola, la semplice idea del combattimento ha sempre dovuto rimandare, anche presso gli antichi, a qualcosa di più antico, come se non fosse mai esistita epoca abbastanza remota da non considerare l’affrontarsi di due uomini un rito troppo barbaro per essere vissuto con naturalezza.

Qui assistiamo a quanto da me scritto inizialmente riguardo la scrittura di Antonio Franchini, la sua capacità di mischiare un linguaggio alto a uno ordinario, presente, al punto da creare immagini vivide ed evocative che restano impresse non solo nella mente, ma nelle retine.

Questo significa usare con cura le parole, quasi esse servissero a formare un puzzle dove ogni singolo pezzo ha tassativamente il proprio posto dove collocarsi, altrimenti il disegno resta incompleto.

Al di là dell’indiscusso talento di Antonio e della sua prosa raffinata e precisa, questo brano ci riporta a quanto letto prima e lo completa: non è solo di pugilato che stiamo parlando ma di qualcosa di più profondo che ha radici antiche, incomprensibili e spaventose ma al tempo stesso necessarie, persino nei tempi più remoti, e che nel nostro tempo trova voce in nuovi gladiatori che, proprio come allora, terminato lo spettacolo finiscono dell’ombra, visibili a noi solo il tempo di un incontro.

Antonio e proprio all’uomo che ci conduce.

«Questo, Antonio, è Michele Orlando, un grande pugile e un grand’uomo. Ti ricordi quando ti ho fotografato, Michele? Quand’è stato? Due anni fa? Adesso sei appena tornato da Miami, non è così, Michele? Sei andato da Don King. Che cos’hai concluso con Don King, Michele?»

«Ha detto vediamo. In Italia, tanto, non mi fanno più combattere. Non ci vuole combattere nessuno con me in Italia. Lo sai quanta gente ha finito di fà la boxe dopo avermi incontrato, lo sai? In Europa devi avere un manager e io non ho nessuno. Mi faccio tutto da solo, non ho nessuno all’angolo, non ho il preparatore atletico, non ho il dietologo, ma almeno l’avversario me lo devono dare, o no? Sennò che faccio, me li do da solo i cazzotti? Mi hanno fatto fare il mondialino, l’anno scorso, e l’ho vinto, poi me l’hanno fatto cadere perché non l’avevo difeso entro sei mesi. Ma è colpa mia se non ci avevo l’avversario? Non ci vuole fà nessuno con me.»

«E tu sei un passionale, Michele, tu fai la boxe col cuore, con l’anima, Michele. Tu sei venuto dalla Sicilia solo per fare la boxe, non è vero, Michele?»

«Dieci anni fa sono venuto e adesso ho trent’anni. Non ho più molto tempo, mi devono fare combattere. Dieci anni per cosa? Tu hai mai sentito parlare di Michele Orlando? Sono venuto da Palermo perché i miei fratelli mi hanno detto vai tu a fare il pugile, noi siamo troppo violenti. Vacci tu a Roma, che sei il più calmo di noi. In dieci anni mi sono comprato la pizzeria, ma se non avevo la pizzeria, me lo dici tu come campavo?»

Stilisticamente è bellissimo vedere questo alternarsi di registro: la capacità di Franchini di spaziare fra una scrittura alta, dotta, a una narrazione di borgata, così da dare voce reale ai suoi personaggi.

In questo meraviglioso dialogo, tanto semplice (nel gergo usato, non certo nella forma e nel contenuto) quanto efficace, senza melanconie né eccessi, vediamo con pienezza il dramma di un uomo e in esso l’icona di tanti che come lui hanno dato tutto per un sogno.

Da aspirante scrittore non posso che sentirmi toccato intimamente dal dialogo di Michele Orlando.

Le opportunità negate, i colpi bassi, il tempo che scorre inesorabile e i soldi che non bastano, ridursi a fare un qualsiasi lavoro pur di campare.

Michele Orlando è un pugile, è un sognatore, è un essere umano.

«Guarda, Antonio, guarda quel Franco Citti. Nun sembra Franco Citti? L’ho fotografato molte volte, guardalo là, con quella faccia da operaio, da carpentiere, da campione de questa Roma… de questa Roma… dostoieschiana. Guardalo là, nun cià voglia de fà un cazzo, ma è un grande pugile. Come ti chiami? Te ricordi di me? Sò il fotografo.»

L’uomo è steso sul pavimento del ring, su un fianco, puntato sul gomito, nella posa di uno che s’alza dal letto o di un convitato che si allunga sul triclinio a un simposio: «A Maggi, dov’è che se combatte sabato?»

«A Monterotondo. Ve dovete trovà là alle sette. Poi ve dico tutto.»

«E quanto ce danno?»

«E quanto te devono dà? Er rimborso spese, te danno. Se ce escono anche cinquanta euro, appena lo dicono a me, ve lo dico a voi. Che fai steso là? Allenate, no?»

Anche qui, come nel precedente estratto, senza affabulazione alcuna, senza profusioni, anzi, in una situazione a prima vista persino grottesca, Franchini ci mostra un dramma inesorabile in poche battute.

Er rimborso spese, te danno. Al massimo cinquanta euro, già: allenarsi, salire sul ring, prenderle o magari ferire qualcuno, tutto per forse cinquanta euro.

“Franco Citti” rappresenta la realtà al di là delle luci di un galà, il volto dell’uomo che sta dietro il cerone di un clown, e quanto vediamo è doloroso, spietato, come le due pagine che sto per riportarvi.

Per quel che riguarda le tecniche di combattimento che sarebbero necessarie per salire sul ring del K1, cioè tirare pugni e calci, Bob Sapp non sa fare niente.

Tira i pugni sbracciando, annaspando col busto in avanti e, benché le sue cosce possano reggere il frontone di un tempio, è assai raro vederlo alzare una gamba per accennare un calcio.

Ogni combattimento di Bob Sapp segue uno schema fisso. Suona il gong e lui corre addosso all’avversario come se il suo intento fosse non tanto colpirlo ma calpestarlo. L’avversario arretra e indietreggiando lo bersaglia con pugni in faccia e calci nelle gambe. Di solito Bob Sapp continua ad avanzare, abbranca la sua preda alle corde e a questo punto o riesce in qualche maniera a colpirla o la soffoca opprimendola sotto la propria mole, finché non interviene l’arbitro a districare un groviglio di membra altrimenti inscindibili.

Quelli che affrontano Bob Sapp sono grandi kickboxer, uomini con decine di combattimenti alle spalle, padroni della tecnica e abituati al contatto pieno, non alla simulazione, ma poiché in ogni forma di confronto quasi mai è il peggiore a innalzare il livello del migliore, mentre è il più abile a perdersi nella vischiosità dell’incapace, finisce che anche gli atleti più eleganti appaiano goffi almeno quanto Bob Sapp. Colpiscono in affanno, perdono sempre la distanza giusta e quando vanno a segno devono recuperare subito la posizione per non essere travolti dalla replica.

Nonostante tutto questo, generalmente Bob Sapp, alla fine, perde.

Perde perché il regolamento non lo favorisce, perché in un incontro di kickboxing o di pugilato non è consentito calpestare l’avversario, perde perché l’arbitro lo ferma.

Coloro che amano questo sport nella sua purezza provano un senso di schifo verso Bob Sapp, che è incapace di eseguire una sola combinazione in maniera corretta, e si domandano per quale altra ragione che non sia l’appagamento del gusto degli spettatori più grossolani una bestia simile venga messa a scorrazzare su un ring; ma a me sembra che come il fool in una tragedia serve a significare al sovrano la natura illusoria del potere, così Bob Sapp dimostri  che qualunque tecnica non serve a niente se si pretende di applicarla contro una furia di quasi due quintali.

Ma verso la metà dell’incontro e di solito all’improvviso, senza nessun segno premonitore, perché tutte le botte che ha preso continuando ad avanzare sembrano essere scivolate sulle masse spropositate del suo corpo, Bob Sapp piega le ginocchia; quelle braccia rigonfie, che mulinavano colpi terribili e scomposti, adesso si congiungono davanti alla faccia, riparandovi dietro, per quanto è possibile, penosamente raggomitolato, il corpo immenso, nella posa umiliata di un bambino di fronte alla minaccia del castigo. Allora la telecamera lo riprende in primo piano, ignora il resto e si concentra sulla fronte inutilmente corrugata, sulla faccia i cui lineamenti sembrano protendersi in un disperato sforzo di capire.

A quel punto, si abbatte. Cade come rovinano i suoi simili, quelli che sembrano dover travolgere il mondo e invece, di colpo, la loro vitalità si estingue, con un black out irreparabile, come se qualcuno avesse all’improvviso staccato la presa del generatore cui il loro corpo abnorme è collegato.

Forse è la ragione per cui lo mettono sul ring, perché quest’essere simile a un golem, a un automa, al cyborg terminator che cela snodi e ingranaggi meccanici sotto un blocco di carne posticcia, “sciolga le ginocchia” come un animale sacrificato adempiendo alla solita funzione di ribadire la superiorità dell’essere umano pensante, normale, soltanto all’apparenza più fragile.

Quando se ne torna all’angolo, Bob Sapp scuote la testa, i labbroni della sua bocca da orco si contorcono nella smorfia esagerata di un mascherone tragico, poi scoppia a piangere.

La prima volta che ho letto queste pagine, arrivato alla loro conclusione, ho pianto. Bob Sapp, attenzione, è descritto solo in questa parte, appena qualche pagina, sommando quelle prima e dopo che ho tralasciato, eppure è un personaggio così vivo da poter essere materiale per un romanzo intero.

Il suo apparirci da subito come un mastodontico, incapace, goffo e brutale bestione ci porta immediatamente a entrare in empatia con lui, anche se sappiamo che nel gioco sul ring lui è il cattivo, non l’eroe capace, valoroso e affascinante. Bob Sapp è uno messo lì per divertire il pubblico, per dar loro uno spettacolo, un nemico enorme e apparentemente invincibile da vedere precipitare al tappeto.

Bob Sapp incarna ciò che è oggi un combattente: carne da macello, solo un pupazzone per il popolo affamato di emozioni.

Ma Bob Sapp ha un cuore, dei sentimenti; Bob Sapp, nell’angolo, probabilmente da solo, si dimena, sbuffa, si ribella, e infine, inerme, il gigante scoppia a piangere.

Franchini in questo libro non ha parlato solo di pugilato, ma dell’essere umano, delle sue fragilità, dei suoi sogni che spesso si scagliano contro una società violenta, insensibile, in cui questi guerrieri sono solo poveri bambini costretti a subire, seppure senza mai piegarsi.

Posso solo essere onorato di aver partecipato a diverse lezioni di Antonio e di essere stato letto da lui più volte. Spero davvero di leggere altri libri come questo, perché oggi qui in Italia abbiamo urgente bisogno di narratori come Antonio Franchini.

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