Anzitutto con questo nuovo articolo colgo l’occasione per scusarmi della mia assenza di oltre un mese, ma, mentre quello che oggi definisco il mio primo romanzo sta girando in cerca di un valido editore, e incrocio le dita, sto lavorando al mio secondo romanzo, un testo che nasce da un lavoro di circa tre anni.
Il libro che oggi voglio proporvi è Il sale, del bravissimo Jean-Baptiste Del Amo, forse un nome sconosciuto a molti qui in Italia, ma del tutto rispettato in Francia. Un romanzo consigliatomi dalla mia maestra Antonella Cilento, proprio in virtù del romanzo a cui sto lavorando.
Jean-Baptiste Del Amo, pseudonimo di Jean-Baptiste Garcia, è un autore francese classe 81. Il romanzo che lo ha consacrato in Francia è stato Une Éducation libertine, edito da éditions Gallimard nel 2008; romanzo che ha portato alcuni critici a paragonare la voce autoriale di Jean-Baptiste Del Amo a maestri della letteratura quali Eugène Sue, Émile Zola, Honoré de Balzac, Alexandre Dumas, Pierre Choderlos de Laclos, Donatien Alphonse François de Sade e Patrick Süskind; anche se molti vedono nello stile di Del Amo una maggiore somiglianza con Flaubert, visto che Del Amo è solito pesare ogni singola parola da lui scritta.
Il romanzo Il sale: Le sel, edito dalla Gallimard nel 2010, è stato tradotto, fortunatamente, anche qui in Italia nel 2013 dalla Neo edizioni, una casa editrice indipendente che, a mio dire, sta dimostrando di avere tutte le carte in regola per contraddistinguersi in un panorama editoriale alquanto confuso.
Il sale narra la storia di una famiglia sgretolata composta dalla madre Louise, una vedova che vive da sola aggrappandosi a una dignità passata; la figlia maggiore Fanny, fuggita da Sète e rinchiusa in un matrimonio infelice, madre di una figlia morta a causa di una propria distrazione; il secondogenito Albin, pescatore e uomo talmente duro da incutere terrore in sua moglie e nei bambini; il minore, Jonas, omossessuale dal passato di eccessi, ora fidanzato e ben impiegato.

La storia si compie in una sola giornata. Louise invita i suoi figli a cena, durante la giornata prima dell’incontro lei e i suoi figli ripercorrono gli anni che li hanno divisi, su cui regna pesante la figura di Armand, marito di Louise e padre di Fanny, Albin e Jonas, un pescatore di Sète duro e imperscrutabile, morto di cancro.
Armand, come una cicatrice indelebile, è ancora presente nella vita di Louise e dei suoi figli, di cui ha segnato le esistenze.
Albin, che ha fatto di tutto per assomigliare a suo padre. Jonas, rifiutato da suo padre perché omossessuale. Fanny, vissuta all’ombra di Albin e di Jonas: il primo, stimato da suo padre; il secondo, amato morbosamente da sua madre.
La storia, narrata in terza persona, è riportata secondo il punto di vista dei quattro personaggi, eppure in ogni loro ricordo, in ogni loro gesto presente è talmente calcificata la presenza di Armand da sembrare lui il protagonista: un po’ come nel capolavoro di Domenico Starnone, Via Gemito.
Sin dalla seconda pagina, grazie a Louise, ci arriva pesante la presenza di Armand. Capiamo che quest’uomo così anaffettivo e impenetrabile è il centro dei rancori che legano i quattro personaggi.
Aveva sognato che erano tutti a tavola in una cucina. Non era certamente la loro, ma era conosciuta. Armand discuteva con i ragazzi. Lei non vedeva i loro visi, e non avrebbe saputo definirne l’età. Louise non sentiva le parole di Armand distintamente; era contrariata di questo e si convinceva che parlasse di lei, criticando il cibo o lo stato della casa. Poi si rendeva conto dello sciabordare dei propri passi, mentre camminava dal tavolo al lavello. Louise abbassava lo sguardo e vedeva una pozza d’acqua allagarsi sotto la tavola, sul pavimento, senza che nessuno se ne curasse. Armand continuava a borbottare cose incomprensibili e i bambini restavano immobili e accigliati. L’acqua non smetteva di salire e le arrivava presto alle caviglie. Louise pregava i ragazzi di reagire, di dirle cosa stesse succedendo, ma nessuno si degnava di rispondere. Tutti fissavano Armand, pietrificati.
Si ricordò della paura implacabile all’idea dell’acqua – che non smetteva di salire – stesse minacciando la tavola, il pasto e la famiglia. Nell’indifferenza di tutti, Louise cercava l’origine di quella perdita, e scopriva stupefatta che l’acqua sgorgava da Armand. Colava dalle gambe dei suoi pantaloni, dal collo e dalle maniche della camicia, dalle sue labbra di cui non riusciva, però, a distinguere i movimenti. Poi, come a volte avviene nei sogni, prese coscienza dell’assurdità della scena: Armand era morto, lui e i suoi figli non potevano essere riuniti a tavola. Quella cucina l’aveva creata lei, da cima a fondo.
In questa breve pagina, in modo elegante ma crudele, Del Amo ci mostra subito chi abbiamo davanti: una famiglia fallita; annegata, ormai, e causa della distruzione di tutto è stato proprio Armand.
Lo vediamo da subito come un uomo che incute terrore nei propri figli. Armand parla sempre, ma le sue parole sono mute: i figli non lo ascoltano, stanno lì seduti a tavola per forza, mentre Louise non riesce a comprenderne le parole, dà solo per scontato che come sempre suo marito la stia denigrando.

Magistrale le poche parole in cui Del Amo ci mostra la condizione di Louise: camminava dal tavola al lavello.
In questo vediamo chiaramente ciò che è Louise: non più una donna, ma solo una moglie e una madre; schiava di Armand, di quella casa, di quella cucina che dice di aver creato lei.
Dall’età adulta dei tre fratelli, passiamo tramite i loro ricordi agli anni dell’infanzia: anni in cui Albin cercava di emulare suo padre, affascinato e terrorizzato da lui; Fanny, quasi un’ombra che spiava sua madre e suo padre in cerca di una traccia di amore, di umanità; Jonas, così diverso dal fratello maggiore e intimorito da Armand, pronto sempre a rifugiarsi in sua madre, Louise, una donna che ormai vive senza più alcun ruolo al di fuori di quello della moglie di Armand.
Su ognuno di loro Armand, in un modo o in un altro, ha imposto il suo sigillo da patriarca, eppure non riusciamo a odiarlo, perché nella sua durezza, nei suoi silenzi, nei suoi sguardi truci vediamo il dolore di un uomo che ha subito lo stesso male da lui inferto.
Man mano che andiamo avanti nella lettura, passando dal punto di vista di Louise a quello di Fanny, da quello di Jonas a quello di Albin, sospettiamo sempre più che questa famiglia non potrà mai ritrovarsi: ormai sono peggio che sconosciuti, sono nemici. Eppure ognuno di loro, a modo proprio, cerca di capire l’origine di tale frattura, e la ritrovano nei propri gesti, in ciò che sono diventati.
Fanny osservò Martin, il movimento delle sue mascelle, e realizzò quanto suo figlio, l’unico bambino che le fosse rimasto, fosse a sua volta diventato uno straniero. Era un giovane uomo di ventidue anni. Non capiva niente dei suoi slanci, dei suoi centri di interesse. Il suo corpo le appariva sconosciuto, il suo odore non era più il proprio, da tempo. Lo fiutava, ogni volta che infornava le lenzuola sporche nel cestello della lavatrice, e restava immobile, in cantina, le lenzuola strizzate nei pugni, vinta all’improvviso dal profondo sgomento di non riconoscere nulla in quell’afrore maschile. Secondo ogni etica, avrebbe dovuto offrire al figlio l’amore, l’affetto che non avrebbe mai potuto dare a sua figlia, Ma Fanny aveva subito capito di non esserne capace. Léa le aveva strappato via tutta la vocazione a vivere per gli altri, a vivere per se stessa. Aveva spesso l’impressione di infestare una vita, di essere posseduta da sua figlia, e osservava Mathieu (suo marito) e Martin con la sensazione terribile che si fossero allontanati da lei. Si era consumata tendendo una mano di cui loro non distinguevano più nemmeno la sagoma. Occupavano una realtà comune, le loro carni si sfioravano e, ciononostante, Fanny era altrove. Abitava un altro mondo, un limbo nutrito dall’assenza di Léa.

Cos’è Fanny, se non una donna distrutta come sua madre? Moglie e madre, ma non più donna, e ormai nemmeno capace di essere davvero moglie e madre. La sua identità è svanita, scomparsa con Léa in cui aveva racchiuso tutte le aspettative del proprio ruolo, come Louise con i suoi bambini.
Allo stesso modo, Albin, specchio di suo padre, sembra chiamato alla stessa solitudine di Armand:
Lasciò il letto, pensando che anche sua madre si sarebbe alzata all’alba. L’idea del loro arrivo doveva agitarla. Lui non aveva voglia di rivedere Jonas e il suo compagno. L’orientamento che suo fratello dava alla propria vita e la relazione che manteneva con quell’uomo lo ripugnavano. La presenza di quei due gli imponeva incessantemente l’immagine dei loro corpi allacciati, del sesso di quell’uomo nella bocca o nel culo di suo fratello. Albin non avrebbe voluto riportare i loro sentimenti a quella bieca pornografia, ma non era in grado di combattere quelle visioni. Suo fratello lo nauseava, si vergognava di lui. La sua presenza era una sorta d’affronto alla propria virilità. Credeva di vedere nel suo compagno sguardi di concupiscenza. Niente gli riusciva più difficile di vederli riuniti in totale impunità sotto il tetto di suo padre.
Eppure, qualche anno dopo che Jonas aveva dichiarato la sua omosessualità, Armand aveva accettato di ricevere Hicham tra loro.
«Niente ti obbliga a farlo» aveva detto Albin a suo padre.
Camminavano sul bordo degli scogli. Le cure di Armand lo costringevano a un riposo forzato e quelle passeggiate sul lungomare restavano l’ultimo piacere concessogli. Albin ce lo portava il più spesso possibile.
«Inizia a non occuparti di quello che ci riguarda, a tua madre e a me» aveva risposto Armand prima di sorpassarlo con passo nervoso.
Albin sapeva quanto gli fosse doloroso che uno dei suoi figli fosse così tanto in contrasto con le sue aspettative, con i valori che, in ogni caso, gli aveva insegnato. Non capiva perciò quella tolleranza, quel lassismo che, ai suoi occhi, solo la malattia poteva giustificare, e si era sentito ferito dal rimbrotto di Armand. Suo padre gli aveva insegnato le cose necessarie a essere un uomo: la rettitudine e la durezza dei marinai, l’imprescindibile amore per Sète e per le donne. Jonas, invece, si era sottratto a questi precetti. Era stato il fallimento di suo padre, il disonore della famiglia. Qualche giorno dopo la camminata sugli scogli, Hicham aveva trovato posto alla loro tavola, nel salone dove, per anni, la presenza di un amante di Jonas era stata impensabile.
Albin fumava sotto il portico quando la porta si era aperta.
Jonas era uscito e gli aveva chiesto una sigaretta prima di addossarsi al muro. I loro respiri addensavano l’aria.
«Il cibo non era male, no?»
Albin avrebbe avuto voglia di schiaffeggiare quel viso sollevato. Lasciò cadere il mozzicone prima di schiacciarlo con la scarpa.
«Gli hai appena dato il colpo di grazia».
E ancora:
Albin si rasò la barba e si osservò nello specchio. Vide il riflesso di suo padre, così come l’aveva visto durante l’infanzia: un uomo asciutto, dal viso rigoroso, seccato dalla salsedine.
A questi tratti si sovrapponevano quelli del moribondo che avevano vegliato fino alla fine. Il suo corpo spandeva allora nella stanza un odore acre, essudava un’agonia che li avvolgeva, li soffocava, li obbligava a lasciare il locale per respirare un’aria che le carni di Armand non avessero corrotto. Albin si vedeva in quello specchio come la promessa di essere, un giorno, a immagine di quel corpo decaduto.
Benché fra i tre fratelli il più tratteggiato sia Jonas, Albin, essendone antagonista prima ancora che fratello, è un personaggio di una potenza inaudita.
In lui vediamo chiaramente l’impronta di Armand: Albin ne è il lascito, ma in quanto tale racchiude anche la vocazione al disamore e al fallimento di suo padre.
Per essere suo padre, Albin ha rinunciato al fratello; eppure ha visto la fine di suo padre, e guardandosi allo specchio immagina, un giorno, per se stesso lo stesso declino.
Albin è un uomo fallito, proprio come Armand.
Jonas, invece, se dalla brutale forza di Albin può sembrare una vittima, di certo non lo è nelle pagine di questo capolavoro: nemico giurato di suo padre e causa del dolore di sua madre.
Armand lanciava a suo figlio delle sfide: per esempio, raggiungere una boa lontana, di cui si distingueva solo a intermittenza la plastica rossa. Allora, si slanciava in avanti con il viso gocciolante. Le sue braccia facevano presa sulle onde e la schiena scivolava sotto l’acqua, attraversata da mille nervature pallide. Jonas provava a stargli dietro, ma presto gli mancava il fiato e iniziava a lanciare sguardi inquieti dietro la spalla, in direzione della riva e del corpo disteso di Louise, diventata nel frattempo una macchia sulla sabbia. Con una mano si schermava gli occhi e li guardava gesticolando, a volte, verso di loro. Li rimproverava sempre di essersi allontanati troppo, ma non lo faceva bonariamente. Quel gioco era, per lei, l’espressione della devozione di Armand e del coraggio giovanile di Jonas. Armand raggiungeva la boa, spariva tra le onde e poi riemergeva. Jonas voleva tornare da Louise. Voleva abbandonare suo padre in mare, ma era irretito dalla velocità con la quale Armand partiva all’assalto delle onde e finiva per restare a galleggiare sul posto, vinto da una delle sue crisi e risputando l’acqua inghiottita inavvertitamente. Dietro di lui, delle urla salivano dalla spiaggia. Il mare scintillava, bruciava le sue retine e lui strizzava gli occhi, catturato dalle immersioni di Armand che spariva ancora sotto la superfice dell’acqua. In qualunque istante, il padre poteva scomparire, inghiottito dalla corrente. Nessuno, se non lui, avrebbe visto niente. L’immensità della natura intorno covava la possibilità della morte di Armand. Questo assunto lo stregava. Ma il padre ritornava, con le braccia indurite per lo sforzo e, beffardo, si lanciava verso la riva.
Steso accanto a Louise – quando Jonas, alla fine, lo raggiungeva – il corpo di Armand risplendeva.
«Ti sei divertito?» chiedeva sua madre.
Lui si stendeva senza rispondere e osservava di sbieco il riposo del padre. Il torso di Armand si sollevava al ritmo potente del respiro. Non intuiva il senso di colpa di Jonas, del suo smarrimento dovuto all’idea dell’annegamento che sarebbe stato, se fosse avvenuto, la realizzazione effettiva dei suoi sogni da bambino.

In questa breve scena vediamo Jonas da piccolo: un bambino che ha desiderato la morte di suo padre con tutto se stesso. Un bambino che cerca di raggiungere suo padre, senza riuscirci e, schiacciato dalla sua superiorità, cerca ristoro in sua madre, senza però trovarla: complice di quel padre che lui vorrebbe vedere morto. Eppure i tratti di Armand si sono insinuati anche in lui, rendendolo freddo verso sua madre, cinico e calcolatore.
Da queste psicologie non si può che attendere un’esplosione di conflitti, ma questi conflitti tuonano nel presente in modo silenzioso ma la tempo stesso più pesanti di ogni rumore: con l’incapacità di trovarsi, anche soltanto di sfiorarsi.
Viene da chiedersi se queste persone non siano costrette a bere fino in fondo il calice di Armand prima di spezzare la catene che li lega al suo stesso destino.
Louise indovina i suoi gesti, quando si infila il pigiama. Quella maniera di tenersi al lavabo per non cadere e l’attrito della mano trascinata contro lo smalto della vasca. Quando l’ha ritrovato sul pavimento del salone, rientrando dalla spesa, Armand strisciava e piangeva di rabbia. Aveva impugnato il tavolino basso senza riuscire a rialzarsi. Più tardi, si era tagliato la tempia sinistra cadendo dal sedile del water. Louise soffoca in sua presenza, ma non può sopportare di lasciarlo solo nemmeno un istante. Tende l’orecchio alla sua tosse grassa, ai raschiamenti di gola, ai suoi respiri corti e scattosi, al catarro che sputa. Armand la disgusta, a volte. Odia l’impronta della malattia, il suo colorito giallastro e l’odore chimico che si trascina dietro. Sembra quasi un bambino, con i suoi grandi occhi infossati. Un bambino moribondo, dai gesti goffi. Entra in camera e si appoggia al muro per raggiungere il letto. Louise gli posa una mano sulla schiena – ossuta sotto il cotone del pigiama – e sente lo strazio del polmone malato come un fremito sotto il palmo. Armand si stende sul lato, con una lentezza estrema, e Louise continua a carezzargli la schiena perché si addormenti. Quando un accesso di tosse lo squassa, lei picchietta tra le sue scapole fino a che la crisi passa. Mette sul bordo del letto una bacinella in cui Armand sputa degli umori opachi e sanguinolenti. Il mattino svuota tutto nel gabinetto, reprimendo un conato. Come è diventato, Armand, quell’uomo che cerca una carezza per trovare il sonno? Quella bestiola lamentosa e tenera? In quel momento di declino, Louise lo ama più di quanto l’abbia mai amato. Ama la miseria di quell’uomo sfinito, dal corpo sofferente. Armand dissemina i loro giorni di attenzioni e gesti affettuosi. Louise lo abbraccia e si preme contro di lui. Armand osserva il fascio di luce sul muro – sopra la lampada da comodino – e tende una mano davanti a sé. Ciò che vede non ha nulla di una mano. La carne si moltiplica in un ammasso di forme inquietanti. Si affretta a spegnere la luce e a far scivolare la mano sotto al lenzuolo.
«Non parlarne ai ragazzi, Louise, ma che l’ho in testa. Ho questa cosa dentro il cranio.»
Lei non risponde e scruta l’oscurità, alla ricerca di una parola di conforto, mentre il mondo implode in un grande silenzio. Lo stringe ancora di più. Armand cerca febbrilmente le sue mani nelle lenzuola. Mescola le dita a quelle di Louise e le serra come se lei sola potesse ancora trattenerlo in vita.
Credo che questo estratto, doloroso, struggente, non abbia bisogno di commenti.
Armand, l’uomo forte, l’uomo duro, ridotto a un bambino.
Chi come me ha vissuto questo strazio, sa cosa significa; ma anche chi non l’ha vissuto, grazie a queste parole, può vederlo.
Forse Armand non è come la stessa Louise, come Fanny, Jonas e Albin?
Ma loro quattro riusciranno a capirlo, prima di perdere tutto come Armand?
Non vi resta che leggere questo capolavoro. Personalmente non smetterò mai di ringraziare Jean-Baptiste Del Amo per averlo scritto e la Neo edizioni per averlo portato qui in Italia.