Negli articoli su Pontiggia e Starnone abbiamo trattato un tema fondamentale quando si scrive narrativa: trasfigurare la propria vita a servizio della pagina. È il bisogno impellente di raccontare qualcosa di personale, di scavare in sé, intimamente, recuperare i tasselli di una vita e ricomporli sulla pagina scritta.
Spesso questo aspetto della scrittura ci porta a fare memoriale della nostra vita, in particolare rivolgendo lo sguardo agli anni della gioventù: i volti passati, i luoghi vissuti, esperienze che ci sono scivolate addosso, quasi al momento sembrassero inutili, sciocchezze, ma incise a fuoco nel patrimonio della nostra memoria.
Un atto di memoriale immenso, almeno da ciò che ho avvertito leggendolo, è contenuto nel libro Quando scriviamo da giovani, di Antonio Franchini, edito prima nel 1996 da Sottobraccia edizioni, poi nel 2003 da Avagliano editore.
Antonio Franchini è stato curatore della narrativa italiana per Mondadori dal 1993 al 2015, e attualmente è redattore per Giunti editore. Conosciuto come pilastro dell’editoria italiana, padre di diversi Bestseller e redattore che ha donato a Mondadori il maggior numero di vittorie al Premio Strega, Antonio, non è solo un fantastico redattore ed editor raffinato, ma anche uno scrittore eccezionale. Ha vinto il Premio Fiesole Narrativa Under 40 e il Premio Mondello Autore italiano nel 2003 e, le sue opere di narrativa, sono state pubblicate in prevalenza con Marsilio editore.

Purtroppo dal 2011 Antonio non ci ha regalato più nulla di narrativo, concentrato sulla saggistica e sul suo importantissimo ruolo editoriale.
Quando scriviamo da giovani è un capolavoro di lingua, in cui la voce autoriale di Antonio è talmente forte da avviluppare il lettore e condizionare chiunque scriva narrativa. Nei racconti presenti in questo libro, in particolare in Camerati, sembra proprio che Antonio scavi nei suoi ricordi di una Napoli lontana fatta di scuola, amici sempre in strada, partite a pallone, nomignoli e prove di forza, e i primi turbamenti sessuali e politici adolescenziali.
Per chi come me scrive e vive a Napoli, impossibile non chiedersi quanto ci sia di Antonio in questo libro.
Il racconto Camerati, ambientato a cavallo della metà del 1960 e i primi anni del 1970, narra le vicende di Vittorino, ragazzino di famiglia borghese, e del suo gruppo di amici, fra cui spicca il suo migliore amico, Claudio, denominato Forestale. Si potrebbe definire un racconto di formazione, in quanto vediamo il formarsi di questo gruppo di ragazzi, nonostante le loro tante differenze, e il loro mutamento nel corso degli anni.
Il registro alto padroneggiato in modo magistrale da Franchini si alterna a una lingua semplice, a volte volutamente scurrile che è quella di questi ragazzini: comitiva così diversa composta da personaggi tratteggiati in modo ironico, ma che riportano i tratti di una Napoli passata, familiare a chi l’ha vissuta.
Un racconto evocativo in ogni aspetto: dalla casa di villeggiatura, i nomignoli dei ragazzi, le partite di calcio improvvisate, i litigi ordinari e i primi approcci al mondo degli adulti; aspetti che rendono questo libro non solo intimo (probabilmente) per chi l’ha scritto, ma per chi lo legge.
È proprio la caratterizzazione del personaggi a renderlo un libro speciale, perché essi sono veri, fisici, palpabili; probabilmente plasmati dalla creatività di Franchini e al tempo stesso dai suoi ricordi di gioventù.

Ma come per ogni articolo, lasciamo che sia l’autore a parlarcene:
L’uomo a torso nudo lo fissò smettendo per un attimo d’insaponare la pentola. Aveva un’espressione divertita: «Non è un po’ presto per essere fascista?».
«Noi non siamo fascisti. È fascista lui. Perciò lo chiamiamo camerata. Camerata!»
Forestale salì incespicando in cima ai detriti. Aveva le gambe sporche di polvere, gli occhiali, la testa grossa, e le labbra così gonfie che non si chiudevano. Fece una smorfia per dire la prossima volta non mi chiamare così davanti a tutti.
«Guarda che tenda, camerata!»
Adesso erano saliti anche gli altri, anche Rodolfo col pallone, e tutti guardavano giù, la tenda così grande che sotto si muovevano cinque o sei persone in piedi, i teli di tessuto mimetico e i pali che li sostenevano.
Le pietre si smossero dietro i passi di Forestale, e Vittorio urlò: «Dove vai, camerata? Hai visto o no?».
Forestale scendeva dondolando la grossa testa, era sporco di polvere.
Fino a poco prima, era stato semplicemente Claudio, poi, un giorno, sulla terrazza del lido aveva detto guarda un po’ qua, e s’era tirato in avanti l’orlo del costume di modo che tutti ci guardassero dentro, dove poterono constatare quanto il suo cazzo apparisse strano, molle eppure gonfio, e appoggiato su una matassa di peli neri. Roberto, che da un po’ vantava come suo fratello Silvio avesse sul cazzo una foresta di peli rossi, ammise, tacendo, che il titolo di Forestale adesso spettava a Claudio.
Perciò adesso lo chiamavamo Forestale, o camerata.
Al di là della situazione divertente, di certo evocativa per molti uomini, e del registro meraviglioso di Franchini, la cosa sorprendente è come Forestale, in quella che è solo la seconda pagina del libro, rimanga impresso nella memoria del lettore; ci si affeziona subito a forestale, proprio come capita con Dean Moriarty nel capolavoro di Kerouac, Sulla strada.
Creare una buona spalla è spesso più difficile che creare un buon protagonista.
Per diverso tempo Forestale non fu considerato forte, in niente. Non era forte a pallone, dove impegno e tenacia, se mai cominciava a metterceli, sfumavano dopo dieci minuti quando improvvisamente si estraniava dal gioco e prendeva a svariare per il campo mettendosi a caccia degli avversari giusto per abbrancarli al di fuori di ogni regola, oppure accoccolandosi a seguire le contrazioni di un verme peloso lungo la bandierina del calcio d’angolo, o alzando gli occhi a perdersi dietro il traffico delle nuvole, o attaccando lite con gli spettatori ai bordi del campo. Così, lo lasciavano con la raccomandazione di marcare qualcuno e se lo ritrovavano in un posto remoto da ogni azione che si spingeva, fronte contro fronte, con uno di quelli che erano lì a ciondolare sulle gradinate per attaccar briga o sperando in una defezione per cui li si invitasse a giocare anche loro.
Forestale non era forte neppure nella lotta, ma una sua altisonante idea dell’onore lo spingeva a non lasciar cadere nessuna provocazione e spesso ad attaccare per primo, anche se di solito le prendeva.
Dopo qualche spinta e uno scambio di insulti si faceva afferrare il collo e trascinare nella polvere, fino a farsi immobilizzare con la schiena a terra sotto il peso del rivale e a rassegnarsi alla sconfitta dopo un paio di inutili colpi di reni.
L’eccessiva precocità del suo sviluppo sessuale doveva averla scontata con una sorta di nebulosa rilassatezza che gli teneva sempre gli occhi spalancati in un’espressione attonita e la bocca in un sorriso gonfio sui denti storti. La sua ilarità poteva sembrare suscitata o da semplice idiozia o da un costante, quasi febbrile, bisogno di deridere la maggior parte dei suoi amici e dei ragazzi che andava conoscendo, come se in lui adesso fosse esplosa questa nuova urgenza di schernire per forza tutte le loro azioni, tutte le loro parole, e gli atteggiamenti degli adulti, il volto intero del mondo che lo circondava.
Ma come scritto precedentemente, la storia coinvolge una comitiva di ragazzi, e in essa un altro personaggio memorabile è Franco Croce, un personaggio talmente benfatto da vederlo in carne e ossa.

Franco Croce era il più ricco, il figlio del gioielliere Croce, che in quel paese di mare aveva un grosso negozio, uno dei più grandi di tutta l’Italia meridionale, vendeva dei pezzi che non si trovavano nemmeno a Roma e a Napoli.
Le divise per la squadra di calcio le pagava tutte lui e spesso pagava la pizza a chi non aveva i soldi. Si rivaleva con estemporanei progetti di umiliazione, come la volta che offrì a Vittorio una fetta di pizza al taglio, ma enorme, ci volevano tutte e due la mani per tenerla, e a ogni morso lui ci affondava dentro la faccia intera e la salsa gli sporcava le guance. La condizione che Franco Croce aveva posto era che se la mangiasse per strada, dove i commenti della gente, che fame! quanto tempo è che non mangi?, sembravano procurargli un’ilarità che a Vittorio sembrava incomprensibile…
…Franco Croce giocava abbastanza bene, aveva allunghi, movenze, una falcata elegante e la curiosa abitudine di farsi, con quella sua voce rauca, una specie di radiocronaca privata appena entrava in azione: ecco Franklin prende la palla, scarta un avversario… un altro… tiro…
Esibizioni di egotismo che pagava con le due parole che il suo nome, soltanto a pronunciarlo, ormai quasi automaticamente evocava: stronzaggine e soldi.
Così, se qualcuno era venuto ad assistere alla partita, appena Franco Croce toccava la palla, si sentivano cori di beffa e fischi.
Lui all’inizio reagiva cercando di affondare ancora di più le azioni, di imprimere alle sue in fondo fragili volute come una spinta rabbiosa, ma già cominciava a perdere colpi. I suoi estetismi si esaurivano in fondo alle felci, oltre il fondocampo, si smarrivano nella ricerca di giocate impossibili che gli procuravano solo altri insulti, cominciava a infrangersi contro le gambe dei difensori ringalluzziti dall’antipatia che tutti serbavano per quel ragazzo dinoccolato dal gioco e dal gesticolare pomposo, e incitati dagli applausi scrocianti ogni qualvolta gli toglievano la palla o lo fermavano buttandolo giù.
A questo punto, alle prime avvisaglie della sua sconfitta, Franco Croce inscenava una specie di pantomima dell’inutile gloria, come se volesse fare di ogni suo gesto l’allegoria del valore misconosciuto.
Accentuava il rovinio delle cadute, a ogni impatto contorceva il volto in una smorfia di dolore, si asciugava il moccio che prendeva a colargli dal naso, abbassava il calzettone, si reggeva la gamba, mentre chi l’aveva messo a terra gli diceva alzati, non fare tutte quelle scene, non ti ho nemmeno toccato. Allora lui si sollevava zoppicando e picchiava quattro o cinque volte il piede per terra, come vedeva fare ai calciatori veri in televisione, prima di ripartire al piccolo trotto. Imitando gli stessi gesti dei professionisti andava a protestare dall’arbitro per una punizione ingiusta, alzava le braccia al cielo quando sbagliava e poi correva verso la sua metà campo scuotendo la testa per chiedere scusa ai suoi compagni…
…Una volta, mentre si rivestiva, preparandosi a lasciare il gioco per protesta, Forestale gli gridò buffone! Forestale era tra quelli che l’avevano più insultato dai bordi del campo.
Franco Croce si rialzò, adesso stringeva i pugni lungo i fianchi, tirò su col naso, gli gridò uno stronzo con la sua voce rauca e gli si avventò contro afferrandogli il collo e cadendo sopra di lui in mezzo alle felci.
Quando andarono a rialzarlo, Forestale aveva una sbucciatura sul ginocchio e da seduto cercava di stringere una vite o controllare qualcosa sulla montatura degli occhiali, che gli erano volati via e ora poggiava sbilenca sul naso.
«Ti sei fatto male?»
«No, no. Figlio di papà, figlio di puttana» mormorava rigirandosi le lenti tra le mani. «Figlio di papà, figlio di puttana!» urlò improvvisamente, alzandosi, dietro alla tuta di raso bianca e azzurra di Franco Croce che risaliva correndo l’altura verso la strada, sballottolando la borsa da un fianco all’altro.
Poi si mise a ridere, spalancando le labbra gonfie sui denti storti, come se di essere stato messo a terra di fronte a tutti quei testimoni il suo orgoglio non risentisse per niente.
«Gliel’ho detto che è un buffone e un figlio di papà» ripeteva.
Come Forestale, anche Franco Croce è una personaggio con un vero carattere, una vera voce. Le vicende che intrecciano Vittorio, Forestale e Franco Croce sono vivide proprio per le loro contradizioni che emergono anche grazie a tantissimi altri personaggi, fra cui Alfredo, che mette in risalto molto della natura di Franco Croce e il legame particolare fra Vittorio e Forestale.

Alfredo si era trasferito lì da un anno, veniva dalla città, e i ragazzi del paese li considerava una torma di babbei dei quali il cittadino ha obbligo di prendersi gioco, perciò si asteneva giusto dal ridicolizzare Claudio e Vittorio, perché erano cittadini come era stato e come senza dubbio continuava a essere lui, e con loro, anzi, aveva instaurato una complicità della quale essi, visto il prestigio di cui Alfredo godeva, non potevano che essere orgogliosi.
Franco Croce era succube di Alfredo. Alfredo strizzava l’occhio a Vittorio e chiedeva a Franco Croce prestami mille lire. Franco Croce fingeva di sbraitare che gliene aveva già date altre mille il giorno prima, ma era rassegnato a interpretare il ruolo di spalla nella scenetta che già sapeva come si sarebbe svolta, con Alfredo che l’avrebbe presso affettuosamente sottobraccio e a bassa voce, ma in modo che tutti potessero sentirlo, gli avrebbe mormorato: “Franchetiello, non fare così, sennò non te lo metto più in culo…”, e Franco Croce accennava una debole reazione, uno “Stronzo!” tanto per dire, ma scuoteva la testa, si asciugava il moccio e rideva, accompagnando il raschio della gola con il solito tremito dinoccolato delle lunghe braccia con le quali afferrava i palloni scagliati contri i muri o improvvisamente mimava tiri a canestro nel vuoto.
Da quel momento il su, dai, fai questa cosa, altrimenti non te lo metto più in culo, diventò un modo di dire di tutti…
…Da tutte le parti, in tutti i momenti, si sentiva ripetere come l’esistenza di Franco Croce dovesse considerarsi un incidente, una sfortunata collisione degli spermatozoi paterni. Alfredo gli diceva: «Franco, ma tuo padre la notte che ti fece non si poteva fare una sega?». Questa ennesima alternativa, cui nessuno aveva mai pensato, alla nascita di Franco Croce, venne fragorosamente accolta come un’altra prova dello spirito di Alfredo.
Lo stesso Franco Croce ciondolava la testa e il vaffanculo rantolava quasi ilare.
Era stato anche lui sul punto di ridere, ammirato da quali brillanti possibilità fosse capace di scovare l’arguzia di Alfredo, quello spirito incarnato nella sua pelle bruna e nelle membra regolari, nei capelli che gli ricadevano sulla fronte lucidi e neri e che su di essa sventolavano dietro moti impercettibili della testa.
Anche qui notiamo la caratterizzazione perfetta di Alfredo, a sua volta diverso da Franco Croce che è diverso da Forestale, e così tutti personaggi di questo meraviglioso racconto.
Caratteristiche, gesti, voci udibili che non possono nascere solo dalla fantasia, ma di certo dai ricordi assimilati e metabolizzati di chi ha scritto queste meravigliose pagine.
Scavando dentro di noi, nei ricordi più remoti, possiamo spesso trovare le vicende più belle da narrare, i personaggi migliori, storie fatte di carne, sangue e nervi.
Vi lascio con quest’ultimo meraviglioso estratto del libro:
Invece con Claudio s’erano sempre trovati assieme, e Vittorio non sapeva nemmeno bene perché seguiva quella testa oblunga, quelle labbra gonfie e quegli occhi spiritati dietro le lenti in progetti senza capo né coda e iniziative che considerava assurde fin dal primo momento e alle quali si risolveva solo per pietà, per non spegnergli subito le illusioni. Gli faceva pena la tenacia con cui Forestale li perseguiva e la solitudine nella quale finiva sempre a interrogarsi e a recriminarsi sulle ragioni del fallimento.
Che altro aggiungere? Speriamo che Antonio Franchini, redattore straordinario e scrittore fantastico, torni presto a regalarci altre perle della narrativa come questo libro.