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Mio cugino ha detto che il mio romanzo sarebbe un bel film…

Tra le cose che sento spesso dire dagli autori ancora inesperti c’è senza dubbio: «Il mio romanzo sembra proprio un film», talvolta seguito da: «Me l’ha detto anche la mamma, il mio amico, la mia ragazza, mio cuGGGino, il panettiere, lo sconosciuto a cui ho letto qualche pagina.»

Mi chiedo inevitabilmente perché si sprechi tempo a scrivere narrativa se poi si va subito col pensiero al grande schermo, non ha senso. Certo, l’idea di un film richiama subito al successo, al red carpet, alla notte degli Oscar e a tante cose che fanno gola all’arrivismo umano; ma se questo è lo scopo di chi scrive, sarebbe meglio che si dedicasse direttamente alla sceneggiatura: di certo farebbe più soldi rispetto alla narrativa, su questo non si discute, ma in alcuni casi avrebbe meno gloria, ironicamente. Perché? Ricordate con maggiore facilità il nome di chi ha scritto un libro, o il nome di chi ha sceneggiato un film?

Ovviamente la prima fra le due cose.

Al di là di questo concetto più ideologico, la seconda cosa che penso è sempre: «Secondo quale criterio dovrebbero farci un film?»

Certo, l’ha detto il cugino tuttologo, ma a meno che il suddetto cugino non fosse un rinomato critico cinematografico, uno sceneggiatore di professione o un regista, non credo che il suo parere possa contare qualcosa; soprattutto, il cugino ha i soldi per produrvelo il film?

Ma di questo parleremo dopo. Cerchiamo di capire perché il vostro romanzo dovrebbe diventare un film. Cosa ve lo ha fatto supporre?

Per chiarire questo punto è obbligatorio che vi poniate con sincerità una domanda: So come si scrive una sceneggiatura cinematografica?

Nel più dei casi la risposta è no.

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Progetto editoriale: La finestra chiusa

Ormai mio padre non ci riconosceva quasi più, nemmeno si alzava dal letto. I medici ci avevano consigliato di continuare a dargli la morfina: non c’era altro da fare, solo attendere.

Mia madre, mutata in una vecchia consunta, vegliava su di lui notte e giorno. China sul letto, a volte gli carezzava il viso come fosse un bambino: quel volto ridotto a ossa che sembravano stracciargli la pelle ingiallita, gli occhi affossati in due grotte buie, la mano ossuta che fendeva l’aria in cerca di qualcosa che solo lui vedeva.

«Ono’, che c’è, sto qua?»

Non avevo mai udito mia madre chiamarlo per nome, non l’avevo mai vista accarezzarlo, ma forse quel mucchio di ossa, di pelle macera che puzzava di sudore dolciastro e di decomposizione, quel cumulo di carne arenata in un letto, quegli occhi spalancati e gonfi di terrore, non erano mio padre: mio padre era già morto, di lui restava solo l’essere umano che non era mai riuscito a essere: un bambino che chiedeva affetto, piangeva, e ora non più da ubriaco.

Più volte io e Anna provammo a portare via mia madre da quel letto a cui sembrava essersi aggrappata, come Onofrio continuava ad avvinghiarsi ostinatamente agli ultimi barlumi di una vita mai vissuta, ma lei non si convinse mai, restava lì ferma al capezzale di quel marito che forse un tempo aveva davvero amato, senza che io ne capissi il motivo.

Si poteva amare Onofrio? Quel composto di urla, brutalità e parolacce; quelle carni sporche, quei denti marci, potevano meritare amore?

A volte sgranava gli occhi verso il soffitto, tendeva la mano in alto come se stesse finalmente toccando qualcosa sospeso in aria, sul suo viso imperlato di sudore appariva appena un sorriso.

«Mamma…»

Poi il suo braccio crollava nel vuoto, reciso.

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Progetto teatrale: Juste une poupée

ATTO 1

SCENA 1

La scena è buia. Si sente solo la voce di una donna cantare con tono dolce ma al tempo stesso angosciante Twinkle Twinkle Little Star (versione inglese).

Le luci si accendono adagio, restano soffuse.

Siamo in un lercio monolocale: in fondo all’angolo sul lato destro c’è un vecchio cucinino sporco di grasso, un misero frigo e un piccolo tavolo di legno con sopra resti di cibo e bottiglie vuote; a terra sono sparse altre bottiglie, alcuni giocattoli rotti, pacchetti di sigarette appallottolati e mozziconi; sul lato sinistro c’è un letto su cui sono gettate alla rinfusa delle lenzuola sporche, poco distante c’è una scrivania su cui giacciono pile di libri, decine di fogli, altre bottiglie vuote e un posacenere colmo di cicche di sigarette.

Sul bordo sinistro della scena, seduto su di una sedia, c’è il manichino di una donna: ha il volto coperto da un velo zuppo di acqua putrida, fra le braccia stringe una bambola dagli occhi cavati e a cui penzola un braccio.

Sul lato destro del palco, invece, fra cumuli di rifiuti c’è una culla antica.

Le luci si concentrano sul manichino e sulla culla.

Mentre la musica continua, lentamente dalla dondola esce il braccio di un uomo anziano, sporco di calce e di fuliggine: la sua mano tasta il vuoto come se fosse la prima volta che avverte l’aria attorno a sé, poi afferra il bordo del lettino e lo stringe con forza. Dalla dondola emerge ancora un braccio, la mano stringe a sua volta il bordo della culla.

Lentamente, mentre le braccia fanno forza sulla spalliera della culla, affiora prima la testa dell’uomo e poi il suo torso: l’uomo è avvolto da un lurido lenzuolo bianco che gli nasconde il viso.

L’UOMO, quasi muovendosi a fatica, scivola giù dalla culla e casca sul pavimento. Ancora avvolto nel drappo, striscia sul palco, fino a portarsi al centro di esso. Dal lenzuolo sbuca lento un braccio che fende il vuoto e si spinge in avanti, verso la platea, mentre la mano si muove verso come se cercasse di afferrare qualcosa o qualcuno.

Poi di colpo il braccio casca a terra, come privo di vita. L’uomo si rigira lento nel suo sudario, fino a rannicchiarsi e avvolgersi in esso. La musica sfuma pian piano e con essa le luci si abbassano sulla scena, restando concentrate solo sull’uomo, immobile.

La musica cessa del tutto. L’uomo è ancora a terra, non si è mosso di un millimetro, quando ecco che, con movimenti lenti, quasi piccoli scatti, si rigira nuovamente. Le braccia sbucano fuori dal lenzuolo e lui si tira su, arcua la schiena e resta in ginocchio lasciando che il drappo gli scivoli appena un poco di dosso, il giusto per mostrare il proprio volto coperto di calce e di fuliggine rivolto alla platea e con esso parte del corpo nudo.

Guarda per qualche istante in avanti, confuso e al tempo stesso spaventato. Poi prende a scrutare l’ambiente attorno a sé: le sue mani scivolano sul pavimento, sembra intimorito a ogni contatto.

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Progetto editoriale: Cattedre, vicoli e polacche

Iniziai a pensare che riguardo alla polacca fosse meglio chiamare la polizia, ma a scuola la visita del Presidente della Repubblica venuto lì per consegnare a Monica Luce la nomina di Cavaliere alla cultura, aveva di colpo frenato le mie ricerche.

Il preside era in fervore, per l’occasione aveva persino rispolverato un vecchio abito da sera appartenuto a Roby Facchinetti. Ci aveva ordinato di far sparire l’intera sezione F quando sarebbe arrivato il Presidente, a sostituirla avremmo messo dei piccoli cinesi, per l’esattezza centoventi, da lui affittati nelle botteghe a ridosso di Piazza Garibaldi per la modica somma di centoventi euro, praticamente un euro a moccioso. De Blasio aveva avuto l’incarico di ripulire la palestra dalle macchie di sangue lasciate sul pavimento dall’alunno Gennarino Piscopo e di attrezzarla come quella di Ivan Drago in Rocky IV. La De Gennaro doveva far sparire testicoli, peni immersi nella naftalina e qualsiasi altra schifezza nel suo laboratorio. Alla Corcione aveva ordinato di marcare malattia, guai se si fosse fatta viva lei e le sue cazzo di lacrime! Tondelli la doveva finire di dire stronzate, niente cazzate sulla riforma politica di Platone. Muto doveva stare! La De Sanctis e D’Amore semplicemente dovevano stare lontani fra loro: che nessuno sospettasse tresche amorose fra i docenti della sua scuola! Il supplente Giotto, forte di alcuni oggetti sacri appartenuti a padre René Chenesseau e a lui consegnati dalla Perpetua, aveva il compito di restare nei sotterranei e bloccare eventuali visite della Pirozzi. Alla psicologa Tammaro era stato consegnato in custodia Gennarino Piscopo, così da far vedere quanto lì all’Isabella D’Este avessero a cuore i diversamente abili. Io, invece, dovevo solo limitarmi a fare ciò che facevo sempre: essere mera tappezzeria nell’istituto.

Non ne potevo più di tutti quei preparativi, speravo solo in quella famosa lettera dal liceo classico Vittorio Emanuele II. Ma niente. Mancava quasi una settimana all’avvento del Presidente e la scuola era già in subbuglio. Tutti correvano a destra e a manca. Il bidello Geppino e il bidello Gigetto passavano di continuo lo straccio lungo i corridoi, raschiavano le scritte dalle pareti, avevano cosparso i cessi di candeggina. Il custode Gerardo Capesce aveva avuto l’ordine di prendere delle ferie. La sua casupola era stata praticamente rasa al suolo: bruciate le riviste e i DVD porno, gettate via le infinite bottiglie di vino, vuote e piene che fossero, e buttati in un vicolo tutti i mobili sfasciati. La casetta era stata messa a nuovo, tinteggiata e arredata con graziosi mobili Ikea, mentre per il santo giorno il custode Gerardo Capesce sarebbe stato sostituito con un allegro e soprattutto muto manovale serbo.

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Il linguaggio editoriale che un autore deve assolutamente conoscere

In onestà credevo non fosse necessario trattare temi così elementari, cose che dovrebbero essere conosciute benissimo da chi cerca di pubblicare un libro. Purtroppo spesso le nozioni recuperate sul web confondono, basti pensare che Amazon chiama sinossi quella che, a tutti gli effetti, è la quarta di copertina.

Il linguaggio editoriale è importante. Non mi riferisco al linguaggio utilizzato esclusivamente dagli addetti ai lavori. Non è detto che un autore debba conoscere cosa si intenda in una redazione quando si parla di una vedova e di un’orfana, ovvio, ma ci si aspetta che un autore conosca almeno i rudimenti del mestiere che sta cercando di intraprendere.

Immaginate di andare a fare un colloquio come magazziniere, okay? Vi saranno chieste cose inerenti al lavoro a cui aspirate, giusto? Si useranno termini relativi alle mansioni che dovrete svolgere, vi parleranno di stoccaggio, di picking & packing, di transpallet e altri termini chiarissimi per chi ha dimestichezza in tale ambito, o comunque conosciuti da chi si è informato prima di sostenere un colloquio.

Dunque, perché un autore non dovrebbe conoscere i termini editoriali, o almeno quelli che gli saranno chiesti prima che lui invii la propria candidatura fra migliaia di candidature? E secondo voi, perché mai un editore che riceve migliaia di candidature in un anno dovrebbe rispettare chi non ha neppure la cura di seguire le sue istruzioni?

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Progetto editoriale: In cerca della Morte

Giunto sul mio pianerottolo vidi la piccola Tiziana guizzare subito nel mio appartamento. Prima di svanire mi fissò di sottecchi, mi parve di vederla sorridere con aria di sfida.

Mi voltai e osservai le piante della signora Torelli: erano intatte, fortunatamente. Avevo temuto che quelle bestie le avessero distrutte, che i nazisti di Josy le avessero incendiate, privandomi della mia vendetta. Invece erano lì, sane e salve. Ma un istante dopo notai con mio sommo stupore che erano fradice.

Dannata, me l’aveva fatta! Ma stavolta me l’avrebbe pagata. Oh sì! L’avrei rispedita a casa sua a calci.

Entrai furioso in casa, pronto a mettere in atto il mio piano, seguito da Bambi e Akim che trascinavano il corpo stecchito di Madame Bovary, ma appena messo piede in cucina Vera mi si fiondò addosso come una furia.

Dio, preoccupato com’ero per le piante della signora Torelli l’avevo completamente dimenticata. Come al minimo nel vedermi pesto e stracciato, seguito da Bambi e Akim nudi che tenevano il corpo svestito di Madame, avrebbe pensato che fossimo andati a far baldoria fino a uccidere a colpi di pene una mignotta.

Mi spinse al muro e mi colpì al viso con una sberla.

«Si può sapere chi cazzo è la troia che ti chiama qui a casa?».

La guardai confuso, perplesso, non sapevo che dirle, quella situazione mi giungeva del tutto nuova.

Cercai una via di fuga. Dalla finestra penetravano i bagliori delle fiamme, ogni tanto un grido proveniva dalla strada, ma Vera sembrava non curarsene.

«Allora, ti decidi a rispondere?».

Osservai Madame ai piedi di Bambi e Akim, frastornati quanto me.

No, non poteva essere Lei! No.

Tiziana, seduta sul divano, gli occhi enormi e sadici su di me sorrideva mentre accarezzava il gatto.

Che si trattasse di una sua mossa per avere tutte per sé le piante della signora Torelli? Magari era stata lei a chiamare la Morte e dirle di telefonarmi.

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Progetto editoriale: Fragile

I

Miriam si sentiva di soffocare, non riusciva a mettere a fuoco nulla. Il salone di palazzo Giusso era gremito di persone benvestite, sorridenti, ma i loro volti le apparivano come chiazze sfocate, le voci erano solo un brusio indecifrabile.

Li fissava chiacchierare fra loro. Nessuno che guardasse i dipinti esposti alle pareti. Non uno sguardo rivolto ai suoi quadri, quasi lei neppure esistesse.

Ebbe voglia di precipitarsi furiosa al centro della sala e urlare a squarciagola perché qualcuno la sentisse, la vedesse, ma invece rimase immobile nel suo bel vestito elegante, il calice di vino in mano, sul volto un sorriso simile a un’incisione provocata da lei stessa procurata.

A un tratto, nel sentire una mano posarsi sulla sua spalla, le parve di cadere in mille pezzi, una bambola di cristallo colpita da uno spillo.

Vi voltò di scatto, i tratti deformati da una curiosità che le mozzava il respiro, un barlume di speranza a cui non sapeva dare un nome, una forma. Ma subito i suoi lineamenti sembrarono sciogliersi come cera, le labbra arcuate in un goffo broncio che cercava di celare con un sorriso.

Davanti a lei c’era soltanto un uomo grasso ed elegante che le sorrideva.

«Allora, sta andando bene, no?»

Miriam, ancora frastornata, annuì con fare cortese, a malapena percepì l’uomo accarezzarle il viso. Sapeva solo che doveva sorridere, come faceva sempre. L’aveva imparato sin dalla prima mostra.

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Progetto teatrale: Stalker, i due volti dell’odio

Atto I

Scena 1

La scena è avvolta dalla semioscurità. Sul pavimento c’è una bambola, alcuni giocattoli, dei cosmetici, scarpe dal tacco alto, oggetti scolastici e una corda.

Sul lato destro, nella penombra, c’è Arianna, una ragazza trentenne, gli occhi vitrei sul pavimento e le dita in bocca; indossa solo una lercia tunica bianca, a entrambi i polsi sono legate delle catene.

Il suono cupo di una sirena rompe il silenzio. Luci rossastre invadono la scena, come filamenti di una ragnatela: sul lato sinistro si intravedono sacchi di immondizia e bottiglie.

Si illumina solo il lato destro del palco.

Arianna cammina nervosa, si rosicchia le unghie, gli occhi vitrei nel vuoto.

Arianna:

Lo vuole capire che non lo amo? Ho il diritto di non amarlo?

Passeggia nervosa sulla scena.

Arianna:

Mi sono sbagliata, va bene? Era così diverso. Io lo amavo, sì. Lo amavo!

Si ferma, gli occhi fissi in avanti, le dita ancora in bocca.

Arianna:

Lo amavo?

Irrompe una voce maschile da fuori campo:

Voce maschile:

Amore, sono tornato. Dove sei?

Arianna, terrorizzata, finge un sorriso. Gira in tondo, è nervosa.

Arianna: (con tono dolce)

Vengo subito…

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L’incipit, questo sconosciuto.

Ogni giorno nei gruppi Facebook per aspiranti scrittori leggo decine di incipit, così come ogni giorno qualcuno mi contatta per chiedermi un parere sul proprio incipit.

In ambedue i casi quello che leggo non è mai un incipit, ma un estratto del romanzo, spesso lungo una cartella o anche più.

Che sia l’inizio di una scena, un breve sommario, non è comunque un incipit che leggo.

Credo sia necessario fare chiarezza su cos’è un incipit: è l’inizio della storia, ed è l’inizio della storia per il lettore, dunque ciò che gli permette di lasciare il mondo reale per entrare nel mondo narrativo. Ciò che viene subito dopo è già la storia che il lettore, nel più dei casi, leggerà solo se l’incipit dovesse colpirlo, perché se la magia che porta una persona a immergersi in una storia non avviene immediatamente, non funziona. Il lettore ci molla.

Potremmo definire l’incipit come una promessa narrativa, con esso promettiamo al lettore che andando avanti nella lettura troverà qualcosa di bello, degno del suo tempo.

Questo ci porta a una domanda: ma allora dovremmo scrivere per far felice il lettore?

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Francesco Costa: farci amare un assassino e nel farlo tenerci sempre in tensione

Uno dei temi più trattati nella narrativa, nonché nel cinema e oggi nella serialità, è la dualità. È affascinante pensare a una doppia personalità. Ognuno di noi, che ne sia consapevole o meno, porta dentro di sé una bestia, un lato oscuro: un aspetto della natura umana che affascina e al contempo spaventa.

È però complesso creare un personaggio dalla doppia personalità, si rischia di diventare banali, oppure di eccedere nel dramma e nella brutalità, creando così non più un personaggio duale, ma soltanto una personalità contrastata fino all’inverosimile, oggetto di sbalzi d’umore così repentini da risultare artefatti, persino grotteschi.

In fondo oggi, come per ogni cosa, si tende a credere di sapere tutto e di essere in grado di fare tutto, e senza fatica alcuna. Si mischia ogni cosa in un calderone di conoscenza spicciola, si sminuisce il valore di qualsiasi dottrina, usurpando persino i nomi, utilizzandoli a proprio piacimento e deformandone il senso.

Borderline! Oggi va tanto di moda questo termine, lo si usa senza nemmeno conoscerne il senso; forse perché fa figo, forse proprio a causa di pessimi film e scadenti serie tv che fanno passare ogni eccesso come un disturbo della personalità. Si arrivare persino ad attribuire al disturbo borderline di personalità quelli che sono i tratti del disturbo dissociativo dell’identità.

Questo per dire quanto sia difficile creare un personaggio davvero disturbato, oggi più che mai. Si cade in mille stereotipi. Si creano solo macchiette, personaggi gonfiati fino all’inverosimile. Continua a leggere Francesco Costa: farci amare un assassino e nel farlo tenerci sempre in tensione