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Miriam si sentiva di soffocare, non riusciva a mettere a fuoco nulla. Il salone di palazzo Giusso era gremito di persone benvestite, sorridenti, ma i loro volti le apparivano come chiazze sfocate, le voci erano solo un brusio indecifrabile.
Li fissava chiacchierare fra loro. Nessuno che guardasse i dipinti esposti alle pareti. Non uno sguardo rivolto ai suoi quadri, quasi lei neppure esistesse.
Ebbe voglia di precipitarsi furiosa al centro della sala e urlare a squarciagola perché qualcuno la sentisse, la vedesse, ma invece rimase immobile nel suo bel vestito elegante, il calice di vino in mano, sul volto un sorriso simile a un’incisione provocata da lei stessa procurata.
A un tratto, nel sentire una mano posarsi sulla sua spalla, le parve di cadere in mille pezzi, una bambola di cristallo colpita da uno spillo.
Vi voltò di scatto, i tratti deformati da una curiosità che le mozzava il respiro, un barlume di speranza a cui non sapeva dare un nome, una forma. Ma subito i suoi lineamenti sembrarono sciogliersi come cera, le labbra arcuate in un goffo broncio che cercava di celare con un sorriso.
Davanti a lei c’era soltanto un uomo grasso ed elegante che le sorrideva.
«Allora, sta andando bene, no?»
Miriam, ancora frastornata, annuì con fare cortese, a malapena percepì l’uomo accarezzarle il viso. Sapeva solo che doveva sorridere, come faceva sempre. L’aveva imparato sin dalla prima mostra.
«Cara mia, la tua bravura è pari solo alla tua bellezza…»
Distratta, mentre l’uomo ancora parlava, tornò a osservare le persone nella sala: chiacchieravano allegre, e quelle risate le sembravano rivolte a lei, una lama rigirata in una ferita purulenta.
«Dubito che Lambiase abbia la stoffa per fare una personale.»
«Avete visto com’è vestita la nostra Colonna? Una vera provinciale!»
Miriam guardò il proprio vestito, l’aveva comprato quattro anni prima, a ventisei anni, quando ancora lavorava come cameriera. Le era costato un mese di stipendio.
Si sforzò di mantenere il sorriso e si rivolse all’uomo dinnanzi a sé: «Mi scusi…»
I pugni serrati, quasi serrando gli occhi pur di trattenere sul volto il sorriso, avanzò a passo svelto in un’orgia di corpi, superò una donna in tailleur, un uomo in smoking e un giovane dalla kefiah al collo.
«Se devo dire la verità, per me la Colonna è sopravvalutata.»
«Di sicuro è più bella che brava.»
Si precipitò in bagno, ne spalancò la porta come se stesse emergendo di colpo da un profondo abisso, ma non trovò aria da respirare, solo ragazze che sorridevano e scherzavano mentre si rifacevano il trucco.
Cercò di soffocare ogni immagine in un profondo respiro e avanzò a testa bassa. Arrivata al lavello lo strinse con forza, non aveva il coraggio di rivolgere lo sguardo allo specchio, temeva che se avesse alzato lo sguardo non avrebbe visto altro che una bella bambolina dai riccioli color grano, pelle di porcellana e occhi come smeraldi: un’icona di perfezione a cui, adesso, le sembrava di aver dedicato più tempo che ai propri dipinti.
A fatica, ogni minimo movimento pesante quanto un macigno, provò ad alzare il capo, ma ancora prima di guardarsi vide conficcata nelle retine la figura di lei adolescente, a pochi mesi dalla morte di suo padre, inginocchiata dinnanzi a un cesso a vomitare, le mani conficcate in gola e i capelli che le cascavano sul viso, mentre dalla cucina udiva sua madre urlarle di fare presto in bagno.
Di colpo sentì un pugno picchiare contro la porta, la voce di sua madre le arrivò come un punteruolo che le trapassò il cranio.
«Miriam, sei lì dentro?»
Confusa, rivolse lo sguardo alla porta.
«Miriam, mi senti o no?» replicò la voce ora nitida, reale, la voce di un uomo.
Nel riconoscere Tony, il suo agente, Miriam si rifece in fretta il trucco e altrettanto velocemente uscì da lì. Non fece in tempo a fare un passo. Tony, alto e reso più smilzo dallo smoking che indossava, subito le afferrò il braccio e la trascinò fra la folla.
«Ma che ti è successo? Sei sparita!»
«Niente, mi rifacevo il trucco.»
«Dai, che stavolta te l’ho combinata proprio grossa!»
Improvvisamente davanti a Miriam ogni persona, la stanza stessa sembrò dissiparsi in un manto di fumo, vedeva solo un sontuoso tavolo imbandito, uomini in abiti costosi sedevano insieme a belle ragazze e, fra loro, un uomo di mezz’età, pallido come una lapide, capelli brizzolati, smoking stropicciato e sigaretta in bocca aveva lo sguardo fisso su di lei.
Per un attimo ebbe voglia di arretrare, di scappare via, ma al contempo il cuore le batteva forte dalla gioia. Non riusciva a credere a ciò che stava accadendo. Eppure, nel vedere quell’uomo alzarsi e spalancare allegro le braccia verso lei, le parve per un istante di avere di fronte una bestia pronta ad aggredirla.
«Finalmente mi hai portato la nostra artista!»
Miriam non sapeva che dire, sorrideva e basta. Il proprio aspetto, ogni convinzione che si era cucita addosso in anni di lavoro, sembrava sfilacciarsi al cospetto di quell’improvviso incontro.
L’uomo le prese la mano e gliela baciò. Miriam avvertì una gelida ventata diramarsi sotto la pelle, ma non si mosse, non smise di sorridere.
«Ho apprezzato la bellezza dei tuoi dipinti, ora finalmente posso rallegrarmi della tua grazia.»
«Lei è troppo gentile, signor Mariani…»
«Ma ti prego, mia cara, chiamami Max. Con questo signor Mariani mi fai sembrare vecchio, non credi?»
All’unisono gli invitati scoppiarono a ridere come tanti pupazzi a carica. Max, senza neppure considerarli, una divinità che presiede una platea di fantocci, fece sedere Miriam al suo fianco e Tony accanto a lei.
Subito una giovane cameriera si fermò al tavolo, sorrideva impacciata.
«Porto altro vino?»
Max neanche la guardò.
«E tu che dici?»
Tutti esplosero di nuovo a ridere, e con loro anche Miriam, incapace di incrociare gli occhi di quella ragazza.
Nell’osservarla andare via a testa bassa rivedeva se stessa dieci anni prima, a diciott’anni, quando lavorava come cameriera per pagarsi l’Accademia di Belle Arti, un pensiero, appena un accenno di reminiscenza che si spense come una fiammella al tocco della mano di Max sul suo braccio.
«Stai facendo davvero una bella carriera, brava!»
Miriam, la pelle d’oca sotto i polpastrelli di Max, non sapeva che pensare, non aveva neppure la forza di elaborare un solo, distinto pensiero. Nella testa fluttuava solo una bambina di cinque anni, seduta a disegnare a tavola insieme al suo papà; lui che le accarezzava i capelli e le sorrideva, nelle narici il profumo dei pastelli a cera, della cena cucinata dalla mamma, del dopobarba del papà.
Ora non sentiva alcun odore. Il cibo pregiato dinnanzi a lei, il vino che stringeva in mano, tutto ciò aveva desiderato da quando aveva vent’anni, inseguito con arrogante determinazione, ora le appariva stranamente asettico, glaciale. Non le sembrava neanche che fosse lei a trovarsi lì, ma un’immagine di sé, appena una bozza di ciò che credeva di essere.
Fece scivolare quei pensieri in un sorso di vino.
«Ti ringrazio, sono felice che i miei lavori ti piacciano…»
Osservò la gente nella sala, non uno sguardo era rivolto ai suoi dipinti, tutti spiavano lei, seduta accanto a Max.
«Dici che piacciono anche agli altri?»
Max le sorrise con fare cinico.
«Se piacciono a me…»
«E sentiamo, quale fra i miei dipinti ti piace di più?»
«Tutti!»
«Dunque vuoi comprarli tutti?»
«Credi che sarebbe un problema per me?»
I due si fissarono, attorno a loro ancora risate, applausi, ma adesso sembrava che ci fossero solo loro due in quella sala, si fiutavano come animali.
Miriam dimezzò in un sorso il calice e sorrise.
«Non per niente sei il più famoso gallerista italiano, Max.»
Le pupille di Max ora ardevano in quelle di Miriam in modo avido, vorace. Lentamente, la sua mano scivolò sotto al tavolo e accarezzò la coscia di Miriam.
«Sì, credo proprio che noi due ci capiremo…»
Lei non disse una parola, sorrideva soltanto. Cercava di non tremare.