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Progetto editoriale: La finestra chiusa

Ormai mio padre non ci riconosceva quasi più, nemmeno si alzava dal letto. I medici ci avevano consigliato di continuare a dargli la morfina: non c’era altro da fare, solo attendere.

Mia madre, mutata in una vecchia consunta, vegliava su di lui notte e giorno. China sul letto, a volte gli carezzava il viso come fosse un bambino: quel volto ridotto a ossa che sembravano stracciargli la pelle ingiallita, gli occhi affossati in due grotte buie, la mano ossuta che fendeva l’aria in cerca di qualcosa che solo lui vedeva.

«Ono’, che c’è, sto qua?»

Non avevo mai udito mia madre chiamarlo per nome, non l’avevo mai vista accarezzarlo, ma forse quel mucchio di ossa, di pelle macera che puzzava di sudore dolciastro e di decomposizione, quel cumulo di carne arenata in un letto, quegli occhi spalancati e gonfi di terrore, non erano mio padre: mio padre era già morto, di lui restava solo l’essere umano che non era mai riuscito a essere: un bambino che chiedeva affetto, piangeva, e ora non più da ubriaco.

Più volte io e Anna provammo a portare via mia madre da quel letto a cui sembrava essersi aggrappata, come Onofrio continuava ad avvinghiarsi ostinatamente agli ultimi barlumi di una vita mai vissuta, ma lei non si convinse mai, restava lì ferma al capezzale di quel marito che forse un tempo aveva davvero amato, senza che io ne capissi il motivo.

Si poteva amare Onofrio? Quel composto di urla, brutalità e parolacce; quelle carni sporche, quei denti marci, potevano meritare amore?

A volte sgranava gli occhi verso il soffitto, tendeva la mano in alto come se stesse finalmente toccando qualcosa sospeso in aria, sul suo viso imperlato di sudore appariva appena un sorriso.

«Mamma…»

Poi il suo braccio crollava nel vuoto, reciso.

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