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L’incipit, questo sconosciuto.

Ogni giorno nei gruppi Facebook per aspiranti scrittori leggo decine di incipit, così come ogni giorno qualcuno mi contatta per chiedermi un parere sul proprio incipit.

In ambedue i casi quello che leggo non è mai un incipit, ma un estratto del romanzo, spesso lungo una cartella o anche più.

Che sia l’inizio di una scena, un breve sommario, non è comunque un incipit che leggo.

Credo sia necessario fare chiarezza su cos’è un incipit: è l’inizio della storia, ed è l’inizio della storia per il lettore, dunque ciò che gli permette di lasciare il mondo reale per entrare nel mondo narrativo. Ciò che viene subito dopo è già la storia che il lettore, nel più dei casi, leggerà solo se l’incipit dovesse colpirlo, perché se la magia che porta una persona a immergersi in una storia non avviene immediatamente, non funziona. Il lettore ci molla.

Potremmo definire l’incipit come una promessa narrativa, con esso promettiamo al lettore che andando avanti nella lettura troverà qualcosa di bello, degno del suo tempo.

Questo ci porta a una domanda: ma allora dovremmo scrivere per far felice il lettore?

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Progetto editoriale: La finestra chiusa

V

Maggio 1996

La prima volta che vidi Lia stavamo impiccando Ugo, e subito la trovai bellissima. Eravamo davanti alla pizzeria di Gigino ‘o suldat in Via Torino, uno dei tanti vicoli di Piazza Garibaldi in cui io, Checco e Ugo spadroneggiavamo, almeno a detta nostra.

Gigino inveiva contro di noi. Alcune persone ci prendevano in giro vedendoci a fatica issare Ugo su di un palo mentre lui rideva, al collo un cappio ricavato da un cavo elettrico.

Era la terza volta in due mesi che provavamo a impiccarlo, e solo perché ci annoiavamo, ma puntualmente non riuscivamo a tirarlo su più di una decina di centimetri.

Quando Ugo cadde culo a terra, sotto le risate dei presenti e le grida di Gigino che ci intimava di andare via perché gli rovinavamo la reputazione del locale, già poco solida a causa dei panzarotti e delle zeppole fetenti che friggeva in un olio rancido, davanti a noi passò un furgoncino carico di bagagli.

Lì dentro c’era Lia.

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scrivere è un mestiere pericoloso

Ieri ho deciso di mettermi in ferie forzate almeno per sette giorni, lasciando perdere la stesura del mio nuovo romanzo. Chi mi conosce sa che non so fare a meno di scrivere o di lavorare a un testo, eppure ho sentito il bisogno di smettere, perché stavo rischiando: sì, rischiando, perché spesso scrivere è un rischio, almeno quando lo si fa sul serio.

Oggigiorno l’arte della scrittura, più volte l’abbiamo ripetuto, è presa con leggerezza, una cosa che non prevede fatica fisica, sacrificio, alcune volte dolore.

Scrivere significa essere immersi completamente nei propri personaggi, al punto da non riuscire a pensare ad altro. In ogni momento della giornata, qualsiasi cosa si faccia, una parte del cervello è impegnata a comporre trame, intrecci, azioni. Scrivere significa essere sempre diviso a metà: un piede nel mondo reale e l’altro nel nostro mondo fantastico.

Il problema nasce quando il mondo fantastico inizia a invadere con prepotenza il modo reale. Non dormiamo più, ci svegliamo di soprassalto come se stessimo già scrivendo; parliamo con altre persone, ma vediamo i nostri personaggi; in ogni istante nella testa avvertiamo come tanti schiaffi: le voci dei nostri personaggi, le scene che si formano, il districarsi della trama.

Scrivere è un lavoro talmente difficile che può portare alla pazzia, quella vera. Ecco perché bisogna sapersi educare, come un atleta che sa fin dove spingersi.

Fortunatamente io ho chi mi dà ottimi consigli.

Questo episodio mi ha fatto pensare a un libro letto circa un mese fa: Labilita, di Domenico Starnone. Continua a leggere scrivere è un mestiere pericoloso

Il bisogno intimo di raccontare una storia

È curioso vedere come negli ultimi anni il panorama editoriale italiano sia pieno di romanzi autobiografici, basti pensare a molti dei libri finalisti nelle ultime edizioni del Premio Strega, fra cui, esempio eclatante, La più amata, scritto da Teresa Ciabatti, libro in cui l’autrice non cela neanche minimamente la natura autobiografica del testo, e lo si capisce anche dall’incipit: Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia, la gioia, l’orgoglio, l’amore del Professore.” Il Professore è Lorenzo Ciabatti, primario dell’ospedale di Orbetello.

Alla luce di un simile incipit viene da chiedersi dove sia finita la creatività e la voglia di inventare storie e personaggi, e se gli scrittori di oggi non siano solo vittime di un malsano egocentrismo che li pone al centro del testo.

Non possiamo scrivere se non partendo da ciò di cui abbiamo fatto esperienza, è vero, ed è altrettanto vero che le opere più belle racchiudono le profonde inquietudini di chi le ha scritte, così da dar vita a quello che Julio Cortázar definiva Il nucleo atomico di una storia; ma da sempre un autore trasfigura le proprie emozioni e se stesso in personaggi e storie, mette se stesso a servizio della pagina, e non al centro di essa. Basti pensare a Kafka. In opere come La metamorfosi, La tana o Il digiunatore sono ben evidenti le inquietudini personali dell’autore, eppure camuffate, trasfigurate. Ecco perché riescono ad angosciare chiunque, perché Kafka ha saputo, come tanti altri maestri della letteratura, donare al lettore ciò che è suo senza tenerlo per sé, rendendolo universale, diversamente da altri che preferiscono usare un libro solo per autocelebrare se stessi o innalzarsi su figure famigliari che hanno fatto loro del male. Continua a leggere Il bisogno intimo di raccontare una storia