Ho riflettuto a lungo prima di recensire questo libro, sia perché non è stato facile leggerlo, sia perché sapevo che per farlo avrei dovuto scrivere un articolo molto lungo: due motivi connessi, in quanto a rallentare la lettura è stata la formidabile capacità dell’autore a rendere vivida ed evocativa ogni pagina di questa drammatica e brutale storia, dunque, proprio in virtù di ciò, parlarne senza mostrare pagine e pagine di questo capolavoro non renderebbe piena giustizia al romanzo.
Il libro di cui sto per parlarvi è Regno animale, scritto dallo scrittore francese classe 81 Jean Baptiste Del Amo nel 2016 ed edito in Italia nel 2017 da Neri Pozza.
In un precedente articolo ho già recensito un altro capolavoro di Del Amo: Il sale, edito da NEO edizioni nel 2013. Dunque non voglio soffermarmi a lungo su chi sia Del Amo, potrete leggere più su di lui nell’altro articolo, mi limito a dire che a ragion veduta in Francia, a seguito del suo romanzo Une éducation libertine, fu definito come un novello Flaubert.
Infatti, nella scrittura di Del Amo ogni parola ha la propria importanza; ogni parola si sussegue in un puzzle che rende scenari, personaggi e sentimenti del tutto vivi. Ecco perché non è stato facile finire questo romanzo: più volte mi è mancato il respiro.
Essendo intenzionato a mostrarvi diverse parti di questo libro, anche abbastanza lunghe, non mi perdo in altre chiacchiere. Definire il protagonista di questo romanzo è impossibile, in quanto la storia si divide in due parti, a loro volta divise in altre due parti.

Inizialmente seguiamo le vicende di Éléonore, bambina, e poi adolescente, nata e cresciuta in una fattoria nella Francia di inizio novecento fra animali, sporcizia e una quotidianità dove tutto è sozzura e fatica. Con lei suo padre, uomo che ha lavorato tutta la vita e ormai prossimo alla morte, e sua madre, una donna anaffettiva, dura, capace di provare interesse solo verso il lavoro e una malsana fede cattolica a cui cerca di iniziare la bambina. Poco prima della morte del padre di Éléonore, suo cugino Marcel viene condotto alla fattoria perché li aiuti, dimostrandosi nel tempo amico della bambina e, anche per questo, detestato dalla vecchia madre.
Viviamo le loro vicende e poi, nella seconda parte del libro, siamo catapultati in avanti di più di mezzo secolo, nel 1981, trovando una Éléonore ormai vecchia, quasi un’ombra nella fattoria ormai del tutto mutata e tramutata in una proficua ma squallida porcilaia guidata da suo figlio Henri, vedovo di moglie, e dai suoi due figli: il maggiore Serge, uomo duro e pronto a servire suo padre e a emularlo, pur rifugiandosi nell’alcol; e il minore, Joël, da sempre reputato un fragile, nonostante, seppur covando un rancore segreto verso la porcilaia, faccia di tutto per aiutare suo fratello e obbedire alla brutale e dispotica volontà paterna.
In questo trio di uomini, oltre a Élénore, quasi muta spettatrice delle vicende, c’è la moglie di Serge, Catherine, allettata per una malattia e preda di continui sbalzi d’umore, accudita dalla sorella Gabrielle, lì con i suoi due piccoli figli, e dalla maggiore delle figlie, Julie-Marie, unica amica del proprio fratellino, Jérome, bambino che, quasi invisibile, passa fra le vicende brutali di questi adulti.
Come nel romanzo Il sale, anche qui abbiamo un intreccio di personaggi: anziani, uomini, donne, ragazzini e bambini tanto diversi fra loro, ma tutti accomunati da un’unica cosa: la porcilaia. La porcilaia attorno cui ruotano le vicende dei personaggi; la porcilaia da cui è posseduto Herni, costringendo i propri figli a seguirlo, senza che sua madre, Éléonore, possa fare nulla per fermarlo, pur vedendo in lui la stessa follia che ha portato il marito alla morte. La porcilaia che tiene soggiogata Catherine in un mondo di squallore e fatica che le ha sconvolto la mente, e con lei la sorella Gabrielle, vincolata a quel posto per non finire in strada, mentre Julie-Marie fa di tutto per evaderne quotidianamente, sotto lo sguardo impotente del piccolo Jérome, abbandonato in un mondo di fantasie ignorato da tutti.
Ma mostriamo questi personaggi e il loro mondo con le meravigliose e abili parole di Del Amo.

Éléonore rimane lì, immobile, annidata nell’odore del padre, nel suo respiro, nel suo fiato puzzolente di tabacco, di canfora e dei rimedi che inala e versa su un fazzoletto tenendolo dentro una manica per tutto il giorno. Sente la dura sporgenza delle sue costole sotto la stoffa della camicia quando fa un respiro profondo o lo scuote una crisi di tosse e sputa a terra i suoi scaracchi. La bambina si accascia un po’, sonnecchia. A uno a uno si dissolvono gli edifici di pietra del corpo della fattoria, poi il terreno sottostante, e non restano che lei, il padre e il bracco invisibile accucciato ai loro piedi nella notte ora spessa, acquosa, che le penetra nel naso e le gonfia i polmoni. Solo loro, sospesi in uno spazio-tempo ieratico nel quale i canti degli insetti e dei rapaci sembrano provenire da epoche antiche e scomparse, come il bagliore degli astri già morti sopra le loro teste. Finalmente, una volta spentasi la pipa, il padre fa appello alle ultime forze per sollevare il proprio peso e quello di Éléonore, che lo stringe alla vita con le gambe e al collo con le braccia, il mento appoggiato sulla parte posteriore della spalla. La depone su un lettino che assomiglia a un baule, vicino a quello dei genitori. Le rimbocca la coperta con tanta cautela che lei non ricorda mai di essere rientrata in casa e si sveglia il giorno dopo incerta di aver condiviso con lui quegli istanti.
Qui siamo a pagina 9 del romanzo, è una delle prime scene in cui vediamo Éléonore bambina insieme a suo padre, già malato; una scena piena delle brutture della terra e della malattia che condanna il padre, eppure, di una tenerezza disarmante grazie all’unione fra padre e figlia mostrata in modo evocativo da Del Amo. Tuttavia lo stesso scrittore, subito dopo, nella stessa pagina, ci mostra in modo altrettanto vivido l’orrore della figura materna.
La genitrice, donna secca con la nuca rossa e la mani laboriose, non ha attenzioni superflue per sua figlia. Si accontenta di educarla, di trasmetterle il sapere dei compiti quotidiani che incombono al loro sesso, e la bambina ha imparato presto a seguirla in ognuna delle sue faccende, a riprodurne i gesti e le posture. All’età di cinque anni se ne sta dritta e severa come una contadina, con i piedi ben piantati per terra, i pugni chiusi sui fianchi stretti. Batte il bucato, aziona la zangola e attinge l’acqua dal pozzo o dalle fontane senza sperare né ricompensa né riconoscenza, né affetto.
E pochi paragrafi più avanti la madre ci viene descritta ancora così:
Una mattina di ottobre, mentre è da sola nel porcile ad accudire la scrofa gestante, un dolore la falcia in mezzo al recinto e cade in ginocchio, senza nemmeno un grido, sul fieno che ha appena sparso a terra, la cui polvere pallida e profumata si innalza ancora a spirali. Le acque le bagnano le cosce e le calze. L’animale sofferente per il travaglio le gira e rigira intorno lanciando lunghi gemiti, con l’enorme ventre ballonzolante per la corsa, le mammelle già gonfie di latte, le labbra della vulva turgide e dischiuse; ed è in ginocchio e poi su un fianco che la genitrice si sgrava, come una cagna, come una scrofa, ansimante, rubizza, la fronte imperlata di sudore. Con una mano fra le cosce tasta la massa appiccicosa che la strazia. Affonda le dita nella fontanella, strappa via l’aborto e lo getta lontano da sé. Afferra il cordone bluastro che lo tiene legato ed estrae dal ventre la sacca placentare, che cade al suolo in un rumore di spugna. Fissa il corpicino ricoperto da una patina caseosa, simile a un verme giallastro, a una larva grigia e azzurra dai riflessi aurei di una dorifora strappata alla terra grassa e alle radici di cui si ciba. La luce filtra fra le tavole sconnesse, le sue lame trafiggono l’atmosfera acida e polverosa, la cupa penombra satura di un odore di mattatoio, poi sfiora la forma immobile nel fieno. La genitrice si rialza, schiantata, con una mano sotto le gonne, sulle carni congeste del sesso. Indietreggia, atterrita, ed esce dal recinto senza dimenticare di chiudere il saliscendi, abbandonando alla scrofa gli annessi fetali e il frutto del suo ventre.

Il lessico di Del Amo è sublime, il suo linguaggio alto è usato con una tale padronanza da non stonare come registro neppure in una situazione brutale come quella dell’aborto, vicenda in cui vediamo la madre accomunata in tutto e per tutto a una bestia. Ma la crudeltà della donna, già vista nel precedente estratto, risulta ancora più spaventosa nell’immediata contrapposizione con il rapporto fra la piccola Éléonore e suo padre, una figura a lei vicina e che presto, com’è immaginabile che sia, perderà.
Il suo nome le giunge da un lontano altrove ed Éléonore si sveglia, intirizzita, nel fienile. È passata solo qualche ora, ma già la luce declina sulla regione, il sole basso incendia le colline e i corvi neri, forse attirati dall’odore della salma, si appollaiano sugli alberi tutto intorno, si lisciano le penne dai riflessi purpurei e poi si chiamano a distanza. Le loro grida risuonano nell’aria limpida. Da tempo il becchino ha terminato il suo lavoro. A quest’ora la fossa è una buca insondabile che inghiotte l’ombra proiettata delle croci. Lombrichi e insetti lucifughi escono dal cumulo di terra e raggiungono di nuovo la tomba, in cui si lasciano cadere. Nella pace della falegnameria adesso vuota la rozza bara, con le sue sconnesse tavole piallate, esala un dolce odore di segatura e dalle venature del legno stilla una piccola croce con il corpo di Cristo. Di nuovo, una voce grida nel cortile il nome di Éléonore. Il gatto se n’è andato mentre lei dormiva, e se il vestito non avesse conservato l’impronta tiepida del suo corpo e le mani la traccia dei graffi coagulati, dubiterebbe della sua realtà, perché ormai le resta solo un torpido ricordo delle ore trascorse. Si alza in piedi e si appoggia a una trave giusto il tempo di recuperare la sensazione delle proprie membra algide, poi scende dalla scala a pioli. Marcel la vede. Le corre incontro, la stringe per le spalle ed esclama: «Sono ore che ti cercano!».
Le poggia una mano sul viso, sulla nuca, poi le afferra i polsi e vede le ferite sulle mani e sugli avambracci. Non è forse la prima volta che la tocca così, che le prodiga le attenzioni e le carezze che lei invidiava al padre?
«Che cos’è?» le chiede.
Éléonore non sa rispondere e lui le passa un braccio intorno alle spalle per accompagnarla fino al corpo della fattoria. Il volto del padre è una maschera mortuaria afflosciata sulle sporgenze del cranio. La stanza puzza di un odore di carogna e sudore acido, dei vapori di acquavite e di zuppa che viene offerta per riscaldarsi, degli aliti che le bocche cariate e gli stomaci ulcerosi hanno risputato per tutto il giorno, respirando ancora e ancora la medesima aria chiusa il cui untume appanna i vetri delle finestre. Quando vedono Éléonore varcare finalmente la porta i partecipanti alla veglia tacciono. La bambina è immobile, scarmigliata, il vestito da lutto gualcito, cosparso di tracce di polvere, fili di paglia e ciuffi di pelo squamati, le braccia graffiate.
«Si era addormentata nel fienile» dice Marcel.
L’assemblea mormora di sollievo. Dapprima sbigottita, la vedova osserva sua figlia per un istante, poi si alza con uno scricchiolio di vertebre. Depone con cautela sulla sedia il messale dalla copertina logora, attraversa la stanza a passi così lenti che ognuno ha il tempo di seguirla con gli occhi e chiedersi che intenzioni abbia, poi schiaffeggia Éléonore con tutte le sue forze. Lei vacilla e crolla contro il muro, travolgendo una sedia, lo schienale va in pezzi senza che Marcel abbia il tempo di abbozzare un gesto per trattenerla. La bambina si alza, stordita, cade e si rialza. La vedova la afferra per i capelli e la trascina al capezzale del padre dove, torcendole il collo, la obbliga a sedersi su una panca. Poi torna al suo posto, riprende in mano il messale dalla copertina logora e si risiede.

Non voglio dire altro sulla grandezza del registro utilizzato da Del Amo, né del suo ricco e raffinato vocabolario, perché sarebbe superfluo; voglio però invitarvi a notare quanto la sua scrittura sia sensoriale, proprio come quella che caratterizza la scrittura di Flaubert. In ogni pagina, oltre a vedere ciò che lui ci racconta, possiamo toccare con mano quanto si manifesta dinnanzi a noi, respirare odori e puzze, ascoltare rumori, rievocare sapori forse smarriti, sepolti chissà dove nella nostra memoria.
Qui, in questa scena struggente, vediamo uno dei primi approcci fra Éléonore e Marcel, suo cugino. Vorrei dirvi altro del loro legame, ma evito per non rovinarvi la sorpresa. Infatti della prima parte del libro voglio riportarvi solo un ultimo estratto, giusto per mostrarvi come sia molto più variegato e drammatico il personaggio materno.
Dimagrisce ancora. Ormai è solo pelle e ossa. Confonde i giorni della settimana, i mesi, le stagioni, gli anni. Éléonore la lava, la veste e la pettina, e lei la lascia fare, piccola creatura spezzata. La fiamma di una lampada a olio si riflette sulla sua testa mezza calva. Poi ritrova l’uso della parola; non ha nemmeno più l’idea di resistere e tacere. Lei che era così avara di parole ormai ciarla per tutto il giorno. Tiene Éléonore per mano per attraversare il cortile, poi la guarda e le chiede: «Mi scusi, non ha visto mia figlia, per caso? La mia bambina?».
«Sono io tua figlia» risponde Éléonore.
La vedova solleva le sopracciglia e sogghigna: «Ma certo».
Quando Marcel entra dalla porta a volte lo confonde con il padre defunto e dice: «Ah, eccoti qui. Dov’eri? Attento al petto con questo freddo».
Poi, quando lui si toglie il cappello, esclama: «Buon Dio, ma cosa ti hanno fatto?» oppure, semplicemente non lo riconosce e sospira: «Povero diavolo…», e ripiomba nella contemplazione di un centrino che tiene fra le mani senza riuscire più a fare nemmeno un punto con l’uncinetto.
Si smarrisce in campagna e bisogna andare a cercarla in altre fattorie. Oppure i contadini la riaccompagnano a casa, ed Éléonore la recupera coperta di graffi, con caglio e spighette nei vestiti e nei capelli. Parla da sola, borbotta, invoca sua madre, ora suo padre, ora suo marito, come fossero nella stanza, poi storie divoranti di santi, di maledizioni, di porcile e di scrofa; una litania in cui non si capisce nulla.

Mi fermo qui, anche se il proseguo di questo estratto è meraviglioso, ma non voglio rovinarvi la lettura, visto che già la breve scena in cui c’è Marcel ha di certo suscitato la vostra curiosità.
Scoprirete poi…
Voglio limitarmi alla madre: lei che abbiamo detestato, ora ci commuove, mentre, inversamente, la piccola Éléonore per la quale abbiamo di certo parteggiato ora ci appare fredda, anaffettiva pur prendendosi cura di sua madre.
Questo ribaltamento dei ruoli, questo rendere ogni componente della famiglia, in un certo senso, specchio dell’altro, crea un mondo corale in cui i personaggi, seppur totalmente diversi, appaiono tutti uniti in un solo e ciclico destino.
Passiamo alla seconda parte, mezzo secolo più avanti, come abbiamo detto: nella porcilaia! La fattoria dove Éléonore è cresciuta, ora trasformata in una grandissima e produttiva porcilaia guidata da suo figlio Henri e dai suoi due nipoti, Serge e Joël; ed entriamo in questo mondo di adulti, di uomini e donne, con gli occhi del piccolo Jérome, figlio di Serge e di Catherine.

Jérome emerge da sogni popolati di serpenti mitologici, buche d’acqua nera da cui estrae insetti con zampe filiformi e pelose che afferra a piene mani e che gli graffiano il viso, animali ruggenti, chimere mutevoli. Scosta il lenzuolo, si siede sul bordo del letto, i piedi penzoloni sopra il pavimento, nell’oscurità della camera. I gemelli, i suoi cugini, dormono della grossa, Thomas con quel respiro sibilante, difficoltoso, ostacolato dall’asma e dal naso sempre intasato; Pierre rannicchiato sotto la trapunta dalla quale non si separa mai. Da quello straccio grigio e informe a cui il suo corpo sembra incollato, come se trascinasse ai quattro angoli della fattoria un’appendice, uno sgradevole viscere sfuggito dal suo corpo, il bambino estrae, prima di addormentarsi, il calamo delle piume d’oca che buca la stoffa e si solletica il naso e il labbro superiore.
Jérome è immobile, unico sveglio della sua famiglia, il corpo in bilico sul materasso, avvolto dallo stridio degli insetti e dal canto dei rospi. Osserva la sagoma dei gemelli. Piangevano quando, da neonati, Jérome gli accarezzava la testa molle, la fronte ricurva e pelosa, e alla fine la loro madre li sottraeva alla sua mano e se li stringeva al seno. Adesso, quando si coricano accanto a lui, una volta spenta la luce, dopo che Gabrielle ha baciato quelle fronti ora lisce e calde, Thomas parla da solo, borbottando sotto il risvolto del lenzuolo rigido di moccio, e Pierre agita le mani piene di piumino d’oca. I gemelli riempiono con i loro discorsi confusi il perenne silenzio di Jérome.
È attento ai rumori della casa. Che di notte mostra il suo vero volto, muove la sua ossatura da vecchia nave, il suo scheletro di legno tarmato e centenario, moltiplica le stanze fredde, stira la sua struttura spossata, declina i suoi colori vuoti in canovacci d’ombre. Jérome percepisce, sotto il battito del polso ai timpani, il soffio di una dolce brezza fra le tegole traballanti, lo schiocco dei teloni stesi sulla copertura dell’edificio, la corsa di una faina nel sottotetto, il mugolio di una cucciolata di roditori rintanata in un buco della parete di paglia e argilla, la madre bruna nel nido abilmente costruito con setole di maiale rubate, fibra di vetro e fili di paglia, sdraiata come le scrofe, con le mammelle offerte a una decina di topolini rosa la cui pelle traslucida lascia intravedere le vene purpuree e lo stomaco gonfio di latte.
E ancora, qualche pagina più avanti…
Lungo il sentiero di terra battuta, inciso da profondi solchi di ruote, i ciuffi di rovi e di giunchi formano masse e linee ombrose. Jérome inspira il profumo dell’erba piegata dalla rugiada, dei fossi nei quali copulano le ranocchie il cui canto tace bruscamente all’avvicinarsi dei suoi passi, sicché il bambino sembra scortato da un blocco di silenzio o da un’aura che riduca al silenzio i rumori di sacche vocali ed elitre, spostandosi con lui e intorno a lui nello spazio denso e profondo dove lo precede e poi esplode alle sue spalle il concerto degli animali notturni. Jérome non ha nessuna paura della notte, delle sue creature e dei misteri che nasconde. Anzi, si sente rassicurato, al riparo dagli occhi dei famigliari, consapevole della tensione di ogni muscolo mentre cammina, del movimento del proprio corpo proiettato nella campagna assordante.
Portato dalla brezza, gli arriva un tanfo di colaticcio. Il ronzio lontano e indistinto di un motore gli ricorda le notti in cui si sparge il letame durante le quali, seduto accanto allo zio, al padre o al nonno, in groppa alla macchina di cui sente ruggire il ventre meccanico, è fiero di stare fra gli uomini, autorizzato a rimanere sveglio insieme a loro, a condividerne la fatica nella cabina angusta, satura dell’odore di carburante, dei concimi versati sopra le terre coltivate. Sui finestrini si condensano il loro sudore, il loro fiato e il fumo delle loro sigarette.

In queste due parti cariche di odori e rumori di una natura che sembra avvolgere la fattoria, già vediamo, seppur dagli occhi fantasiosi e voraci di Jérome, la potenza della porcilaia e degli adulti regnare ovunque. La porcilaia cui odore sembra sovrastare quello della natura; le immagini delle scrofe sempre presenti nell’immaginazione di Jérome; e gli adulti, i grandi, quel padre, quello zio e quel nonno che sono ai suoi occhi modelli di forza, i padroni di quella casa in cui vive, pur fuggendo di continuo da essa. Quegli adulti, quella casa, quella porcilaia di cui Jérome è spettatore invisibile e muto, lontano dai segreti dei grandi, da loro quasi sempre ignorato.
Serge e Joël spingono contemporaneamente le due porte in fondo alle corsie, all’estremità dell’edificio, si chinano per passare sotto lo stipite ed escono nel cortile asfaltato sul retro della porcilaia.
Restano immobili, a una decina di metri di distanza, le sagome stagliate in controluce. Si tappano una dopo l’altra le narici, espellono un moccio grigio e respirano a pieni polmoni. Serge tira fuori la fiaschetta di alcol e beve. Davanti a loro si levano fumi dalla fossa del purino, immobile, tossica e nera, sulla quale galleggiano agglomerati di escrementi.
Chiusi in se stessi, Serge e Joël costeggiano il fabbricato fino al capannone attiguo nel quale sono immagazzinate le balle di fieno. Riempiono le carriole, poi si immergono di nuovo nella porcilaia satura del calore dei maiali. Gettano in ogni recinto bracciate di paglia che subito gli animali raspano e calpestano. Henri si inoltra in una delle corsie e controlla ogni recinto sotto lo sguardo di Joël, che lo vede fermarsi davanti a uno, scavalcare la recinzione e girarsi verso di lui per ordinargli di raggiungerlo con un gesto rabbioso.
Quando il figlio gli arriva vicino, al di là de recinto, già rassegnato e servile, a testa bassa e con i pugni stretti lungo le cosce, Henri dice: «Mi spieghi che cazzo ci fa questo verro insieme alle scrofette?».
Joël getta un’occhiata al maiale che sta alla massima distanza dagli uomini consentita dallo spazio del recinto, in mezzo alle giovani femmine, e si muove all’unisono con loro, si scaglia contro le tavole della recinzione in un disperato tentativo di fuga. Non sa come il giovane verro, di solito tenuto insieme agli altri maschi in uno dei recinti dell’edificio riservato a loro, si trovi lì, in quello dell’ingrasso, ma sarebbe inutile cercare di discolparsi e ogni tentativo di giustificazione fomenterebbe la rabbia del padre, perciò resta in silenzio.
«Non si può essere così negligenti, perdio… Da credere che te ne freghi davvero di tutto, o che sei un incompetente… Eppure non ci vuole mica un genio per fare quello che ti chiedo, o no? O no?… Un po’ di attenzione, niente di più… Porca miseria, tuo fratello ci riesce benissimo, lui… Un lavoro di qualità comporta questo, capisci… No, certo, certo che no, non capisci… Lo scemo sono io! E dire che mi sfianco a ripeterlo da tanto tempo. Ti crogioli nella mediocrità… Ti crogioli nella mediocrità, eppure sai che non c’è posto per la mediocrità, a casa mia. Lo sai, Joël, non qui… Forza, togli di mezzo quella bestia, alla svelta».
Henri è paonazzo. Sembra voglia espellere qualcosa che gli si è incastrato in gola e gli fa storcere la bocca. Una vena sinuosa gli pulsa sulla tempia e sul collo.
“Affondi la lama qui e tagli, per bene, tenendo ferma la bestia con un ginocchio appoggiato sulla spalla”.
Quando Henri scavalca di nuovo la recinzione, con uno slancio della sua corporatura massiccia, Joël fa un passo indietro e aspetta che il padre sia uscito dalla porcilaia per rimettersi al lavoro. Il cuore gli batte all’impazzata contro il fianco come batte sul fianco delle scrofe e del giovane verro.

In questo lungo ma bellissimo estratto abbiamo visto chiaramente, pur non essendo palesato in modo melodrammatico da Del Amo, la diversità fra Serge e Joël e il conflitto che li divide, pur essendo loro uniti e, al contempo, rinchiusi nello stresso mondo; conflitto che emerge sempre e solo grazie alla figura paterna che incombe fra loro, ricordandogli che non sono solo due fratelli, ma suoi figli: uno capace e uno incapace; uno degno di lui e l’altro indegno.
Una cosa da notare è come, pur essendo i tre uomini i protagonisti di questa scena, in realtà a farla da padrone è la porcilaia: non solo scenografia, ma parte viva che sembra avvolgere i tre uomini, soppiantandoli dalla scena, come se la vera protagonista fosse la porcilaia ed Herni, Serge e Joël fossero lì per servirla. Non a caso, alla fine di questa scena, vediamo il cuore di Joël pulsare allo stesso modo di quello delle scrofe e del verro.
La presenza costante, tumultuosa e straboccante di letame della porcilaia che è un tutt’uno con il padre.
Crede di avere impartito ai figli un’educazione rigorosa e giusta, senza tollerare né la debolezza né la viltà, difetti imperdonabili in un uomo. Nutre un segreto orgoglio per aver allevato da solo quei due, benché Joël non si sia mai dimostrato davvero all’altezza delle sue aspettative. Dopo la morte di Élise, Éléonore lo ha sostenuto, ma è stato lui, e nessun altro, a modellare i figli.
Henri si avvicina alla scrivania, si siede sulla poltroncina e accende una sigaretta. Ciò nonostante può davvero essere certo della loro devozione, della loro fedeltà, della loro ambizione? Ora che i figli sono adulti, può davvero congratularsi con se stesso per essere riuscito a trasmettergli qualche cosa che non sia semplicemente una proprietà, questa convinzione, questa fede nella terra? Vorrebbe credere in Serge, il più solido e il più affidabile dei due. Il ragazzo ha calcato per tanto tempo le sue orme, bevuto le sue parole, posato su di lui quello sguardo pieno di rispetto e di ammirazione, di desiderio di eguagliare un giorno la supposta potenza e rispettabilità del padre; e poi, fin da adolescente, gli ha dimostrato una riconoscenza virile e silenziosa. Sì, ha creduto in Serge; almeno finché Catherine non è piombata nella loro esistenza, prima regolata, ordinata, liturgica, provocando la rottura, da tempo annunciata ma da quel momento definitiva, fra i due fratelli.
Che cosa è riuscito a trasmettere ai figli? Gli sembra di poter contare sulle dita di una mano i momenti nei quali si riassume, se non la loro storia, almeno il loro rapporto. Quando preparava il bagno ai bambini, quando il vapore si condensava sullo specchio appeso sopra il lavabo, quando li spogliava e li metteva nell’acqua, e poi restava a guardarli giocare, ad agitare i pupazzetti che facevano correre sul bordo della vasca, camminare sull’acqua o immergersi in apnea fra le loro gambe, nella profondità della vasca. Allora non si era chiesto come mantenere intatto il ricordo della sua adorazione per i figli, il ricordo del loro corpo perfetto e risplendente nell’acqua del bagno, grigia di sporcizia, il ricordo del vapore sullo specchio e delle gocce che stillavano irregolari lungo la tenda da doccia macchiata di muffa? Oppure non ha provato un bel niente e ha soltanto immaginato il sentimento che avrebbe nutrito Élise se fosse stata ancora viva. Ha formulato nel pensiero la promessa di non venir meno a ciò che lei avrebbe desiderato per loro, di trovare le parole, i gesti adeguati, ma anche di saperli proteggere il più a lungo possibile, incapace di concepire che proprio da lui avrebbe dovuto proteggerli?

Se c’è un conflitto che regna sui due fratelli, uno ben più pesante dimora nel padre: cos’è riuscito a donare ai figli? Cosa ha fatto per loro se non educarli a essere come lui, a seguire le proprie orme, a vederlo come unico modello da emulare?
Una tragedia antica che affonda le radici fin dagli albori della storia umana, eppure nuova e dolorosa, resa unica e innovativa dalla sublime voce autoriale di Del Amo.
La presenza del padre regna sui due fratelli, un dio che li pesa, li valuta, li giudica; mentre su di lui dimora un dio ben più severo: il bisogno di essere il migliore, il più forte, sentimenti riversati nell’affrontare la propria amante e nemica, la porcilaia: quella realtà, quel suo unico mondo a cui ha consacrato se stesso e i propri figli, senza neppure chiedersi se loro fossero d’accordo, cosa loro volessero per davvero o chi volessero essere.
Serge si massaggia la mano sinistra, spesso trapassata da fitte, scossa da tremiti intempestivi. La fiaschetta è già vuota e la sete comincia a farsi sentire. Così come emergono l’odore dei maiali o il peso della vergogna, capita che si manifesti all’improvviso l’idea di una degenerazione dell’ordine della vita e dell’universo della fattoria. Serge non saprebbe chiamare altrimenti la certezza di un declino, ma allora qual è il suo punto di squilibrio, la sua origine? Bisognerebbe risalire il filo del verbo, della legge promulgata dal padre, ritrovare la parola prima, dimenticata, la cui eco però risuona in loro, sorda. Dalla morte di Élise hanno conosciuto solo la lenta deriva del corpo della fattoria, il suo decomporsi, il suo imputridire, mentre nello stesso tempo la porcilaia sembrava prosperare, produrre sempre di più, attizzando proporzionalmente la loro fatica e la loro violenza.
“Un maiale, lo devi dominare. Non dimenticarti mai di fargli vedere che il padrone sei tu”.
Serge pensa che l’allevamento covi tutti i fuochi dell’inferno, che minacciano di scaturire come un Vesuvio, di seppellirli, se smettessero di purgarlo o alimentarlo. La porcilaia è fatta in modo che i suoi limiti non possano contenere ciò che tuttavia deve assimilare e rigurgitare senza tregua. È un universo in sé, in continua espansione, che loro si sfiancano a tenere sotto controllo. Quanto al ricordo del tempo di prima, è solo una pelle sottile e friabile; il proprio degrado è per loro una cosa ordinaria e familiare.
E ancora, Joël…
Joël riprende a pulire le corsie, affonda la pala nello sterco, riempie la carriola, strofina il calcestruzzo con lo spazzolone, ma i suoi gesti sono automatici, non è più nella porcilaia, viaggia sul suo Caballero TX96 lungo la provinciale, lasciandosi alle spalle la fattoria. Il cielo lacerato di fine pomeriggio fiammeggia e forma grandi enclave luminose sugli avvallamenti di terra. Joël tiene il casco nella piega del gomito e l’aria che fende gli fa colare le lacrime dagli occhi alle tempie. Piccoli insetti restano intrappolati nei peli rossi della barba. Avverte l’eccitazione, la paura che gli attanaglia il ventre e lo fa salivare, i testicoli stretti e quasi doloranti sotto la stoffa dei jeans, schiacciati contro il cuoio della sella e pronti a rientrargli nella pancia come quando castrano i porcellini – incidi con un colpo di lama, due, tre centimetri, non di più, premi per far uscire il coglione, lo afferri, con il dito a uncino, sì, così, lo agganci e lo tiri fuori – con quella preoccupazione in corpo che il bisturi possa scivolare, lo strumento sfuggire di mano e conficcarsi nello scroto.
“Poi tagli il cordone, e ricominci dall’altra parte”.
Non sa più chi sia, se predatore o preda, non dissocia più la paura dall’eccitazione, che si confondono e formano un’unica sensazione che anestetizza la mentre, facendo venire il fiato corto e battere il cuore com’è corto il respiro e batte il cuore dei verri quando li portano alle scrofe per individuare i calori, e i maschi annusano la vulva delle femmine, vi affondano il grugno, mordono la groppa (anche loro, gli uomini, palpano le scrofe, valutando il colore delle vulve con l’aiuto di un tintometro simile a quello che userebbero per scegliere il colore di una carta da parati, le schiacciano con tutto il peso perché restino immobili e pronte a offrirsi a loro), e poi, quando i maschi le montano in un box o in una corsia, Joël, Henri e Serge spingono il verro per aiutarlo a scavalcare il corpo enorme della femmina, semisdraiati sulla schiena per afferrare con una mano la verga che già eiacula e guidarla al sesso della scrofa, come se fossero loro ad accoppiarsi con le femmine al posto del verro, insieme al verro – non c’è niente che mi faccia vomitare più della monta, ben presto gli rifileremo una siringa di sperma e non ci sarà più bisogno di ficcarci dentro le dita –, e poi l’odore, l’odore nauseabondo di quei sessi di animale che gli resta sulle mani anche dopo averle spazzolate e insaponate, l’odore di quei sessi di animale che arrivano a chiedersi se non sia in realtà il loro odore, il loro cazzo che affondano in carni calde, pelose, sporche di merda, l’odore di quei fluidi versati…
Questa idea emerga a tratti, folgorante, e Joël la scaccia, nauseato, mentre la strada sfila, con i fossi color verderame come dissolti dalla velocità, e mentre riempie coscienziosamente la carriola nell’edificio della maternità. Perché non sta viaggiando sul suo Caballero, non sente la pioggia sulla faccia né gli occhi lacrimare fino alle tempie, e nemmeno i formicolii che a volte l’eccitazione e la tensione gli fanno vibrare nelle mani. È in uno degli edifici della porcilaia, in mezzo al bestiame, a raschiare il calcestruzzo, e poco importa che desideri essere in qualunque altro posto fuorché lì. È alla porcilaia che appartiene…

Mi fermo qui per non anticipare nulla.
Joël è alla porcilaia che appartiene, e la serve, come a essa appartiene Serge, consacrato a lei per emulare suo padre, pur reputandola nel silenzio di se stesso un mostro infernale che nel tempo li ha divorati, non lasciando di loro traccia alcuna se non sbiaditi ricordi.
Come avete visto non si tratta di descrizioni, ma di un mondo animale che si mischia a quello umano rendendo la porcilaia un unico organo pulsante, putrido, puzzolente e affamato che si mischia alle esistenze di Henri, di Serge e di Joël: tre uomini così diversi che lottano fra loro senza neppure accorgersene, presi come sono a combattere ogni giorno, ogni secondo con quel demone che li divora.
Avrei voluto parlarvi ancora del piccolo Jérome, mostrarvi Julie-Marie, Catherine e Gabrielle, ma questo libro è talmente meraviglioso che finirei per riportarvi altre venti pagine.
Preferisco che voi lo leggiate, sicuro che la scrittura di Del Amo ha lasciato anche in voi il segno.
Io, finito questo romanzo, rimasi immobile a fissare il vuoto, senza più parole.