A seguito della pandemia che da tre settimane ha messo in quarantena l’intera nazione italiana, tanti si chiedono cosa succederà dopo, ovvero quando si tornerà a una quotidianità per modo di dire normale, quando riapriranno le attività, quando si tornerà a scendere in strada liberamente e a gestire il proprio tempo come si faceva fino a meno di un mese fa.
Ovviamente, come ormai succede per ogni cosa, dal più minuscolo evento a quello più eclatante, i social network sono la vetrina dove ogni emozione, ogni pensiero e soprattutto ogni livore viene esposto pubblicamente. Da una parte alcuni pensano che usciremo tutti cambiati da questa situazioni, più maturi, arricchiti di nuove consapevolezze; altri, invece, del tutto disfattisti proclamano che, come sempre, l’umanità non imparerà nulla da ciò che sta accadendo.
Una cosa è certa: la gente parla velocemente e tende a esporre il proprio pensiero individuale come una certezza oggettiva.
Personalmente non so cosa succederà dopo la quarantena da COVID-2, ma so quello che spero, ossia che le persone imparino dai propri errori.
Come abbiamo appena detto, i pessimisti e quelli che spesso godono nell’innalzarsi – virtualmente – come guru disfattisti dicono che ancora una volta l’essere umano non imparerà niente da questa vicenda. Visti i precedenti gli si potrebbe dare ragione, se non attribuissero questo loro pensiero a tutto il genere umano, ponendosi al di sopra di tutti come unici untori di una verità assoluta da cui, però, prontamente si dissociano.
La verità, io credo, è che molte persone riescano a imparare da situazioni difficili, e altrettante persone non ci riescono, mentre altre addirittura si incattiviscono. Forse il problema sta nella gestione della memoria e del valore che le si attribuisce.
Credo che la più fedele testimonianza di come conservare e celebrare la memoria la si possa trovare nel popolo ebraico. Il Giorno della Memoria, infatti, commemorato il 27 gennaio, non ricorda solo la liberazione da parte dei soldati sovietici dell’Armata Rossa dei sopravvissuti allo sterminio avvenuto ad Auschwitz, ma quanto successo agli ebrei prima della liberazione: la Shoah, termine ebraico che tra origini dalla Bibbia (Isaia 47, 11) e che significa “Tempesta devastante”.

Non possiamo ricordare la gioia della liberazione senza far memoria dell’orrore della schiavitù. Se non avessimo consapevolezza della morte non potremmo neppure avere a cuore la vita, dunque non ricordare il male subito a causa di una situazione fa dimenticare la gioia provata nell’esserne liberati.
Il problema nasce quando questo male non l’abbiamo vissuto sulla pelle.
La nostra società sempre più individualista, come abbiamo potuto vedere parlando di Kafka o di altri scrittori, ci porta istintivamente a preoccuparci solo di quanto ci accade o di quello che può servirci per un qualsiasi appagamento. Persino fare del bene in alcuni casi diventa un modo per celebrare se stessi, forti di canali virtuali che ci permettono di manifestare noi stessi alle masse pur restando chiusi nel nostro individualismo; basti pensare ai leoni e alle leonesse da tastiera che comodamente da casa, magari senza la minima preoccupazione economica, dichiarano di aver a cuore il destino dei poveri o di chissà quale popolo devastato da guerre e da carestie.
Chiusi in noi stessi è difficile fare memoria di quanto non ci riguarda, perché ci appare lontano, qualcosa che vediamo solo dallo schermo di un televisore o dal monitor di un computer: il mondo fasullo e virtuale in cui ormai viviamo.
Persino oggi, durante questa quarantena, molte persone sembrano non sentire sulla propria pelle il problema che stiamo affrontando, e questo perché non l’hanno concretamente vissuto, non sono loro a essere in terapia intensiva né lo sono i loro parenti, i morti sono solo numeri letti o visti tramite i vari canali informativi, sempre che si possano definire tali.
Abbiamo perso il senso di comunità, dunque la memoria collettiva, la memoria storica.
Il lassismo che sto vedendo attorno a me durante questa situazione mi fa appunto temere che molti dimenticheranno questi giorni, non impareranno nulla, così come molti hanno dimostrato fino a pochi mesi fa di non aver conservato memoria alcuna del drammatico periodo fascista.
Lungi da me far politica, non è questo il luogo né mi interessa minimamente la politica, ma nel precedente Governo abbiamo concretamente visto come le persone siano rimaste del tutto indifferenti alle evidenti analogie con il regime fascista, mentre altri le hanno addirittura sostenute a spada tratta.
In ogni caso si è dimostrato di non aver memoria, non una memoria collettiva.
In quel periodo, mentre si urlava di chiudere i porti per i profughi, censire i rom e violare tanti altri diritti umani, leggevo un bellissimo libro: Questa sera è già domani, edito dalla E/O nel 2018, finalista al Premio Strega e vincitore del Premio Strega Giovani. Un romanzo scritto dalla bravissima Lia Levi, cui cognome fa di certo intuire le sue origini.

Nata nel 1931 a Pisa da una famiglia piemontese, Lia Levi è una scrittrice raffinatissima, giornalista, sceneggiatrice e fondatrice del mensile di cultura e informazione ebraica, Shalom.
Autrice di ben trentacinque libri per bambini e di quattordici romanzi, è stata vincitrice del Premio Elsa Morante con la sua prima opera, Una bambina e basta, edita da E/O nel 1994, ed è stata protagonista di molte prestigiose competizioni letterarie, fra cui il Premio Moravia, il Premio Rodari, il Premio Rapallo e il Premio Pardès per la letteratura ebraica.
Le sue opere, infatti, sono pregne della cultura ebraica, questo proprio perché Lia Levi, da letterata e donna sensibile, conserva pienamente la memoria non solo personale, ma quel del tempo storico vissuto: almeno questo è ciò che traspare dalla sua letteratura.
Ecco perché sono partito dall’attuale situazione della quarantena e ho svoltato verso il Governo leghista per arrivare a questo romanzo, proprio per mostrarvi concretamente quanto sia fondamentale fare memoria e come coloro che ne sono capaci possano aiutarci a farlo. Infatti, leggendo le pagine di Lia, squisita persona che ho avuto l’onore di conoscere a una presentazione, e facendolo proprio nel suddetto periodo, ho potuto vedere nel tempo presente, nel mio tempo, le tracce del tempo di Lia: la sua memoria mi è servita a interpretare i fatti del presente.
Ma veniamo subito al libro, visto che mi sono già dilungato abbastanza, un romanzo che narra le vicende di una famiglia ebraica di Genova nel 1938, anno in cui furono promulgate in Italia le Leggi raziali.

Qualche professore si ricordava un po’ di quel bambino che aveva fatto precocemente l’esame di ammissione, ma nessuno aveva conservato una particolare curiosità. L’insegnante di lettere, la Vivaldi, lo guardava soddisfatta e solo leggermente infastidita ogni volta che quel minuscolo alunno alzava la mano per rispondere a precipizio a una domanda di italiano o di storia. Non c’era verso che lasciasse la prima parola a un altro compagno. Ma lo capiva, non era per mettersi in mostra. Doveva essere una specie di gioco.
E proprio un gioco era stato in tutti gli anni delle elementari. Allora i bambini si divertivano, ridevano quando tirava fuori all’istante la parola giusta, e l’intera classe faceva il tifo per lui. Lo applaudivano come succedeva per i personaggi che persistevano a vincere nelle trasmissioni radio di indovinelli. Alessandro si sentiva popolare, simpatico come quei concorrenti. Pensava che sarebbe continuato per sempre così.
Li vedeva, invece, i nuovi compagni. Sbuffavano, alzavano gli occhi al cielo a ogni suo fulmineo intervento, forse gridato con una voce troppo squillante. E non si limitavano più ai soliti scherzi. Ora lo prendevano in giro perché alle lezioni di religione non si faceva mai vedere. «Beato te» gli dicevano con tono blando quando entrava più tardi o usciva prima, a seconda dell’orario. Poi domandavano fulminei: «Sei nato a Gerusalemme?».
Questo accade pressappoco nella prima parte della storia. Alessandro, ragazzo precoce visto prima come un genio, ora è visto come un diverso. Già qui affrontiamo un problema razziale, pur non parlando di etnie, proprio perché il razzismo ha origini più profonde: è la voglia di schiacciare chi non è come noi.
La crudeltà che già a scuola vive questo bambino è gratuita, infondata, è preso in giro solo per un motivo: perché è ebreo.
Simili comportamenti sussistono ancora oggi a ottant’anni di distanza.

I provvedimenti contro gli ebrei continuavano a cadere a scansione lenta, come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta. Si ritrovarono fradici senza neanche essersene accorti. Le Leggi diventarono operative ancor prima che fossero pubblicate.
La lettera intestata della Demografia e razza la portò a casa Rimon un grosso carabiniere ansante per aver fatto le scale a piedi. Marc scrutò la busta, si lasciò andare sulla prima sedia che gli capitò e rimase a lungo muto, con il foglio che rischiava di sfuggirgli di mano.
«Espulsione» scandì all’improvviso rompendo un silenzio che già si era fatto protettivo. Solo quando la famiglia gli si affollò intorno lesse la seconda riga: «“Cittadino straniero entrato in Italia dopo il 1912”. Mi cacciano, mi cacciano!» cominciò a ripetere come se dovesse ragionare con se stesso che non voleva capire. Non si era spostato per raggiungere la sua abituale poltrona, continuava a restare in bilico sulla sedia come se avvertisse già precario il posto dove sedere, la casa e il resto dell’esistenza.

L’ultima frase di questo meraviglioso estratto rende pienamente il dramma vissuto dagli ebrei all’inizio della persecuzione: la precarietà della propria esistenza e di ciò che reputavano casa.
Marc vive in Italia dal 1912, è italiano a tutti gli effetti, ma di colpo in bianco non lo è più. Viene cacciato, gli viene tolto ogni diritto, e tutto solo per le sue origini, per la religione tramandata a lui dai suoi avi.
Nel precedente Governo abbiamo visto sin troppi atti di violenza verso persone di origini non italiane, seppur a tutti gli effetti cittadini italiani o addirittura nati in Italia (non che l’assenza di questi aspetti la giustificasse, sia chiaro); atti da sempre presenti nella nostra nazione, solo messi in risalto da una politica che li rendeva quasi legittimi, dovuti.
Un rancore ingiustificato, spesso senza un motivo consapevole in chi lo persegue, e che non risparmia neppure i più piccoli.

Pochi giorni dopo i genitori gli comunicarono con piglio disinvolto che gli alunni ebrei sarebbero stati cacciati da tutte le scuole.
Finita l’estate non sarebbe potuto tornare nel terzo ginnasio che lo aspettava nei vicoli dell’angiporto, né dai suoi compagni che ormai solo qualche volta gli chiedevano per scherzo: «Sei nato a Gerusalemme?».
L’odio è qualcosa che si trasmette, è come un virus, e quando dimora in una famiglia finisce per infettare anche i bambini.
Non sanno perché, neppure se lo chiedono, imparano soltanto a odiare per riflesso.
Come gli adulti, anche i bambini non sanno perché odiano persone che non hanno fatto loro niente, odiano e basta: un sentimento di rabbia che non trova motivo nella diversità di etnia o di religione.

Succedeva anche ai tanti parenti e amici “ebrei del Kippur”, quasi del tutto non osservanti. Per loro, far parte di una religione era un concetto vago, dimenticato, un bisbiglio che arrivava da un passato lontano. Ed eccoli ritrovarsi tutti insieme, in un lugubre corteo, ad abbandonare frastornati il proprio posto di lavoro: impiegati e dirigenti, assicuratori e tipografi, maestri, professori, marescialli dell’esercito e fattorini. Via anche il nome dagli elenchi telefonici. Sagome ebraiche nel disegno della società non ce ne dovevano essere.
Come detto prima, l’odio, quello puro, quello che fa male, non ha ragioni se non l’odio stesso.
Questa stupefacente parte del romanzo abbraccia in poche righe diversi punti fondamentali della questione, fra cui quello appena espresso.
Altro aspetto importante lo troviamo nel vedere che tutti, credenti o non credenti, borghesi e gente umile, appartenenti alle forze dell’ordine o semplici fattorini sono accomunati da quest’odio, un’avversione che abbatte ogni diversità sociale, religiosa o culturale per catalogare tutti come unico nemico contro cui scagliarsi, una cosa che ci porta a un altro argomento molto importante: nella diversità siamo tutti uguali; una cosa che dovrebbe far pensare ai razzisti, in quanto a loro volta potrebbero essere le vittime di qualcuno: aspetto che abbiamo visto ampiamente in questi mesi quando, come alcuni italiani facevano fino all’anno scorso, urlando di chiudere i porti ai migranti, siamo stati rifiutati da diverse nazioni perché etichettati come portatori di una malattia.
Ultima cosa, invece, Lia parla appunto dell’importanza della memoria.
L’odio tende a cancellare la memoria collettiva, a minimizzarla lì dove non può annientarla, perché ricordare un fatto, e farlo non solo chiusi nella propria individualità, sensibilizza, fa riflettere, fa vedere lucidamente quanto accade attorno a noi.
Degli ebrei non doveva restare nulla, nemmeno i loro nomi.

Evian, un nome sconosciuto. Suo padre di Evian non aveva mai parlato. A luglio, meno di due mesi prima, era in quella città francese, adesso era riuscito ad afferrarlo, che si erano riuniti i rappresentati di quasi tutte le nazioni importanti. Per gli ebrei di Germania e Austria, per provare a salvarli. Chi era disposto a prenderseli in casa? «Volete sapere chi ha risposto?».
La voce di chi parlava, seppure un po’ nasale, suonava aggressiva, tagliente, doveva essere un giovane avvocato affascinato dal proprio modo di arringare. «Nessuno, non ha risposto nessuno» aveva mormorato scendendo di un tono. I trentadue Paesi riuniti avevano aumentato la propria quota di accoglienza di una cifra risibile, insufficiente, giusto gli spiccioli che ti trovi nella tasca sinistra dei pantaloni. E gli Stati Uniti? Erano loro ad aver organizzato l’incontro. Sì, la loro quota l’avevano un po’ aumentata, ma all’interno della porzione già riservata alla Germania. Gli ebrei che fuggono, seduti sulla stessa panca della stessa nave dei loro (forse) persecutori? Qualcuno lo aveva gridato, oppure no, forse era Alessandro che se lo era gridato dentro. Il muro alle sue spalle non era più un semplice appoggio, era una protezione, una trincea, forse dal fondo del giardino stavano già sparando.
Adesso parlavano della Svizzera. La solita consacrata “terra di rifugio”? Non pareva più. Era stata la Svizzera a chiedere agli austriaci di mettere un timbro con la J di Juden sui passaporti degli ebrei. Avevano pur diritto di sapere chi bussava alla loro porta. Non avevano di sicuro l’intenzione di diventare “il Paese degli ebrei”.
Questa parte dovrebbe far suonare qualche campanellino nella testa di chi ha memoria. Non abbiamo forse visto con il precedente Governo una vera e proprio lotta di numeri, di cifre e di soldi fra paesi che dichiaravano di accogliere già abbastanza immigrati e altri che additavano tal nazione di non accoglierne nessuno?
La cosa atroce è che allora, come nel 1938, si tralasciava un particolare: quei numeri erano persone, esseri umani. Invece venivano visti sempre in base a un’etnia, a una razza, quasi si stesse parlando di cose o al massimo di animali.
L’ultimo paragrafo spiega pienamente il dramma della situazione, ossia, anche quello che appare superficialmente come un sentimento comunitario è in verità chiuso nell’individualismo nazionale, una cosa ben diversa dal patriottismo, come qualche ciarlatano dalla maglietta verde ha spesso urlato. Essere italiani, essere francesi o tedeschi non esclude l’appartenenza a qualcosa di più grande: il mondo. E se volessi abbattere le nazioni e le società con le proprie culture, tutte cose inventate da noi, cosa resterebbe all’origine se non la specie umana?
Credo che questa sia la cosa da ricordare quando si parla di altri popoli, ovvero che stiamo parlando di altre persone, tutte appartenenti alla stessa specie prima ancora che a nazioni o a culture diverse.

Ora parlavamo del censimento. Quasi tutti avevano capito male. Non era un censimento vero, di quelli destinati all’intero popolo italiano. Era una cosa a sé, messa in piedi dal nuovo Ministero della Razza, e puntava solo agli ebrei. Non si trattava di statistica, ma di po-li-ti-ca. Politica razziale, naturalmente.
«Ma la casella da riempire chiede solo la religione, “razza” non c’è scritto da nessuna parte» balbettò un ometto timido con i capellucci a corona attorno a una nuca lucida.
L’omone che si era alzato per rispondergli era già destinato a sopraffarlo semplicemente per le proporzioni. «Leggi bene». Il tu era di superiorità. «Leggilo bene, il foglio del ministero. Il titolo è “Iscrizione dei residenti di razza ebraica”. Tu scrivi pure, tranquillo come sei, la parolina “ebreo” nella casella “religione”, e lei corre a piazzarsi nel fascicolo giusto, la razza»!
Anche questa parte richiama a un episodio accaduto meno di un anno fa, una cosa accennata all’inizio dell’articolo: il censimento dei rom che chiese il Governo giallo/verde.
Un censimento si fa per questioni demografiche e statistiche, ossia per censire il numero di abitanti in un comune o in un paese, il numero di persone per nucleo famigliare e in casi specifici le reddite di ognuno, non certo per catalogare le persone in base alla propria etnia, o peggio, in questo caso per razza.
Il termine razza, credo sia inutile dirlo, non appartiene alla specie umana, ma viene usato in alcuni casi per le specie animali. Per gli esseri umani si parla al massimo di etnia. Dunque, classificare un essere umano come razza è pari a definire tale persona non come un essere umano, ma come un animale.
Anche il solo pensiero di fare un censimento per conteggiare il numero di appartenenti a un determinato popolo e a una determinata cultura avrebbe dovuto portare le persone a ricordare il censimento degli ebrei avvenuto nel 1938, prima dello sterminio.
Ecco perché è importante fare memoria, ricordare le cose che hanno segnato non soltanto noi, ma l’umanità: perché la storia non si ripeta.
Voglio concludere questo articolo portandovi due ultimi estratti in cui si parla del piccolo Alessandro, sperando che la sofferenza del razzismo vissuta sulla pelle di un bambino posso smuovere i più duri di cuore, e in questo caso anche i più chiusi mentalmente, così che si possa ricordare quanto sia importante ricordare gli eventi che hanno segnato molti, non solo noi.

Alessandro faceva girare attorno uno sguardo curioso. Al tavolo più vicino c’erano due uomini di mezza età, chiacchieravano del più e del meno saltando da un argomento all’altro, tanto per far passare il tempo, si capiva. A un certo punto era sbucata fuori la parola “ebreo”, l’aveva captata chiaramente. La frase era suppergiù «Il Duce li ha rimessi a posto, ‘sti ebrei. Era ora» e ridacchiavano, pronti a passare ad altro.
E ancora…
Nella sua classe a Vienna, un giorno la maestra aveva disegnato per terra una grande linea gialla, poi aveva chiamato uno per uno i bambini ebrei. I loro posti adesso dovevano essere lì, oltre quel segno, aveva detto.
Fare memoria di ciò che ha colpito altri, e non solo noi, può servire perché quegli avvenimenti non succedano a noi o alle persone che amiamo, ai nostri figli.
Purtroppo molti dimenticano, altri non vogliono ricordare. Fortunatamente esistono ancora persone e scrittrici come Lia Levi che, in modo meraviglioso seppur drammatico, ci invitano a fare memoria.
Grazie a Lia Levi per questo libro che, a mio dire, non è un’opera di valore solo letterario, ma sociale.