Come Achab, uno scrittore deve inseguire la propria personale balena bianca; deve raggiungere il prorio Dáimōn.

Credo che da tutti gli articoli qui presenti sia ormai chiaro che, almeno a mio dire, uno scrittore non può scrivere roba decente, forte, di carne e sangue se non partendo da qualcosa di intimo. Certo, come abbiamo già detto, un vero scrittore riesce a trasfigurare le proprie esperienze, a fissarle ed esorcizzarle donandole alla propria storia, persino quando essa è dichiaratamente autobiografica; questa capacità rende una storia pubblica, ossia non più un’esperienza privata, ma intima anche per altri, un’esperienza dello scrittore che diventa specchio per quelle del lettore.

Ovviamente ci sarebbe tanto da discutere sulla capacità dei lettori di farsi davvero toccare da qualcosa di talmente intimo da risultare spesso doloroso, cosa che porta molti scrittori a scrivere piccole cose, farse piene di luoghi comuni atte a soddisfare proprio persone desiderose di entrare in empatia con cose che, a conti fatti, altro non sono che lo specchio delle proprie illusioni e di un’immagine distorta e infantile del sé. Tralasciando però questo tipo di narrativa che non mi interessa e questi lettori che spero possano maturare, tornando al precedente discorso credo che sia l’ossessione verso qualcosa a condurre uno scrittore a creare pagine vive, grondanti sangue; un’ossessione spesso verso qualcosa di intangibile a cui neppure si riesce a dare un nome concreto ma che c’è, perennemente presente nello scrittore.

Rosa Montero lo definiva il Dáimōn.

Senza addentrarci in un territorio minato né andando alle origini parlando di Platone, potremmo definire il Dáimōn come lo spirito selvaggio che dimora nell’essere umano. La sua natura primordiale, dunque quella sincera e che lo spinge verso un obiettivo che sente intimo, indispensabile, spesso pur senza capirlo.

Da non confondere assolutamente con un demone della cultura cristiana, il Dáimōn è quell’aspetto incontrollabile nell’uomo che lo unisce al divino, un secondo cuore che gli pulsa dentro conducendolo a desideri alti (che non vuol dire per forza ambiziosi, ma soggettivamente impensabili per chi li desidera) e ossessionandolo perché questi siano raggiunti.

Esiodo identificava il Dáimōn come potenza intermedia fra gli dei, gli eroi e gli uomini; teoria approfondita in seguito da Platone, attribuendo un’intimità individuale fra l’uomo e il proprio Dáimōn. Infatti i greci svilupparono ulteriormente il concetto di Dáimōn definendolo come la più antica e nascosta indole dell’uomo, una sorta di modello da seguire per poter realizzare la propria moira, cioè la parte di destino assegnata all’uomo e poter così realizzare al massimo la propria natura.

Detto questo, se ogni persona ha dentro di sé un Dáimōn che ruggisce per uscire, quale potrebbe mai essere il Dáimōn di uno scrittore? Quella parte vera, intima, così celata in lui ma presente e che, se afferrata, rende divina la sua scrittura?

Forse per capirlo dovremmo vedere cosa uno scrittore ha inseguito, consciamente o inconsciamente, per tutta la vita: la sua ossessione; perché la scrittura dovrebbe sempre essere ossessione.

Parlando di ossessioni e di letteratura non posso fare a meno di pensare al Capitano Achab, meraviglioso e tormentato personaggio presente nel capolavoro di Herman Melville, Moby Dick, scritto nel 1851 e reputato uno dei massimi esempi della letteratura americana.  

Come forse anche chi non ha letto questo meraviglioso libro sa, Achab è un capitano di mare, precisamente un baleniere, che ha consacrato la propria vita per uccidere Moby Dick, spaventoso e leggendario capodoglio che gli ha mozzato una gamba.

Quella di Achab non è pura vendetta, è qualcosa di più, è un’ossessione che lo spinge al di là di ogni razionalità, una vera e propria malattia mentale, quasi a spingerlo fosse la volontà superiore di un demone.

Per capire meglio Achab vediamo un po’ della vita di Melville.

Nato a New York nel 1819, Melville, figlio di una ricca famiglia, a ventun anni, nel 1830, si trovò orfano di padre e ridotto in miseria assieme a sua madre e a otto tra fratelli e sorelle. Dopo aver svolto diversi lavori, fra cui ultimo l’insegnamento, il suo desiderio di essere economicamente indipendente e la mancanza di una reale prospettiva lavorativa lo condussero nel 1839 a imbarcarsi come mozzo, viaggio che lo portò a scrivere il romanzo Redburn: His First Voyage, pubblicato nel 1849.

Senza entrare troppo nel dettaglio, la vita di Melville è sempre stata spinta dal bisogno di viaggiare in mare, infatti, tutta la sua narrativa ha come tema il viaggio in mare. Non ha caso nel 1857, ormai sposato e lontano dai suoi viaggi, smise di pubblicare narrativa, forte anche degli insuccessi seguiti dopo la invece brillante pubblicazione dei racconti Typee e Omo.

Fortunatamente, prima del suo ritiro come scrittore, pubblicò nel 1951 quello che sarebbe in futuro diventato il suo capolavoro assoluto: Moby Dick, (The Whale), all’epoca un vero fallimento commerciale.

Dopo Moby Dick furono scritti altri romanzi, di cui uno incompiuto, ma nessuno raggiunse il successo dei racconti Typee e Omo né del romanzo White-Jacket, pubblicato nel 1950.

C’è molto da riflettere su questa vicenda. Il fallimento editoriale può portare di certo un autore di narrativa a smettere di scrivere, eppure, non so perché, nel leggere Moby Dick mi è quasi sembrato di percepire che Melville si fosse prosciugato scrivendolo, che avesse dato tutto e senza nuovi viaggi, senza il mare, non potesse più scrivere con vera potenza.

Melville, ormai sposato, lontano dai suoi viaggi (fra cui uno appunto su una baleniera), arrivando persino a farsi mantenere dal suocero, cosa ha davvero provato?

Se il Dáimōn ci porta a inseguire cose straordinarie, seppur folli come inseguire una leggendaria balena assassina o scrivere un libro che diventerà un capolavoro della letteratura, smettere di seguirlo a cosa può portarci?

Se Achab avesse smesso di rincorrere Moby Dick, sarebbe lo stesso restato nei nostri cuori come un personaggio non solo meraviglioso, ma immenso nella sua imperscrutabilità?

E se Achab fosse riuscito ad arpionare e a uccidere la balena bianco, dopo cosa ne sarebbe stato di lui? Cosa avrebbe potuto fare Achab per superare ancora una volta Achab?

Che la resa di Melville non fosse altro che l’inevitabile nulla dopo la vittoria ultima? La vecchiaia di Achab dopo essere riuscito a raggiungere il proprio scopo?

Non lo sapremo mai, la sola cosa certa è che Moby Dick è forse più di un romanzo, è un mondo nuovo visto con occhio talmente dettagliato da essere visivo per chiunque, persino per il lettore meno avvezzo alle storie di mare, come me.

Moby Dick è un romanzo di forte spessore morale che sfiora i temi più importanti della vita umana, affonda gli artigli nella religione e nella filosofia, ma nonostante ciò riesce in alcuni aspetti a essere comico, in altri eroico, sempre affascinante, persino nelle dettagliate descrizioni di Melville dedicate con interi capitoli alle balene e alle baleniere, al mare e a usanze marittime: tutto ciò che è stato il suo mondo.

L’attacco del romanzo pone subito il lettore dinnanzi diversi interrogativi, e lo fa in modo sapiente, ricercato, seppur tale meticolosità è ben celata da un registro per nulla sofisticato.

Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa quando esattamente – avendo poco o nulla in tasca, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, pensai di andarmene un po’ per mare, e vedere la parte equorea del mondo. È un modo che ho io di scaricare la tristezza, e regolare la circolazione. Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l’ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Non c’è bisogno di dire che alla luce di quanto detto su Melville questo Ismaele richiami proprio a lui: la sua ossessione, la sua smania di andare lontano, in mare.

Un aspetto interessante di questo attacco sta proprio nella prima frase: Chiamatemi Ismaele.

Melville non scrive “Mi chiamo Ismaele” né “Sono Ismaele”, né palesa il nome come fittizio scrivendo: “Potete chiamarmi Ismaele”, no, lui scrive: Chiamatemi Ismaele.

Così facendo Ismaele dà un ordine ai lettori, ma al tempo stesso insinua un dubbio: “Perché ci dice di chiamarlo così? Che non si chiami davvero Ismaele?”; dubbio che viene subito fortificato dalla descrizione che fa di se stesso: un uomo senza soldi né attuali passioni, così depresso da seguire i funerali.

Ismaele ci appare da subito un narratore innattenbile, ossia una persona di cui non sappiamo se ci si possa fidare, e questo ancor più perché, come leggiamo più avanti, ci prospetta una storia incredibile.

Inoltre, prima si parlava di dettagliata ricerca da parte di Melville in cui niente, neppure un nome, è inserito per caso; e abbiamo anche detto che il romanzo sfiora molti aspetti teologici e filosofici, non a caso il nome Achab richiama ad Ahab, definito nel Primo Libro dei Re (21: 26) come “Colui che commise molti abomini”; così come lo stesso nome Ismaele ha origini bibliche. Infatti, nella Genesi è il figlio ripudiato di Abramo e della schiava Agar, ambedue cacciati dal deserto. Ismaele ci sta dicendo che è un vagabondo, uno dei tanti, un esule, eppure un sopravvissuto. Ismaele di sé ci dirà solo di essere di spalle robuste e di provenire da New York, non altro.

In tutto il libro Melville ha questa accortezza per i dettagli, mischia l’umano al divino, eppure è capace di tali sprizzi di ironia da risultare tremendamente contemporaneo.

A mio dire, fra le cose più esilaranti c’è l’iniziale conoscenza fra Ismaele e il ramponiere indigeno Queequeg, che avviene prima che entrambi si imbarchino sul Pequod, la nave comandata da Achab.

Ismaele, giunto in una locanda, trova come unico alloggio un letto da condividere con un misterioso ramponiere che gli si presenta nel cuore della notte, mentre lui già è a letto.

Dio mi salvi, penso, dev’essere il ramponiere, quel dannato mercante di teste. Ma rimasi immobile come un morto e deciso a non fiatare sinché non mi si parlasse. La candela in una mano, e quella famosa testa nell’altra, lo sconosciuto entrò in camera e senza guardare il letto posò la candela parecchio lontano da me, in un angolo del pavimento: quindi si mise a lavorare di dita sui nodi del saccone che come dissi prima stava nella camera. Non vedevo l’ora di guardarlo in faccia, ma quello la tenne rivolta dall’altro lato per tutto il tempo che rimestò per slacciare la bocca del sacco. Fatto questo, però, si volse, e allora Dio che vista! Una faccia! Era di un colore cupo, purpureo e giallastro, tutta chiazzata qua e là di grossi riquadri nericci. Sì, era proprio come temevo, un compagno di letto terribile; avrà preso parte a una rissa, è stato massacrato, e viene dritto dal chirurgo. Ma in quel momento gli capitò di votare la faccia alla luce e vidi benissimo che non potevano assolutamente essere cerotti, quei quadrati neri sulle guance. Erano macchie, chi sa di cosa. Dapprima non ci capivo niente, ma subito ebbi sentore della verità. Ricordai la storia di un bianco, anzi proprio di un baleniere, che era capitato fra i cannibali ed era stato tatuato. A questo ramponiere, conclusi, nel corso dei suoi lunghi viaggi sarà capitata la stessa avventura. E dopo tutto che vuol dire? pensai. È solo questione di facciata. Un uomo può essere onesto sotto qualunque pelle. D’altro canto non sapevo spiegarmi quel colorito inumano, quello cioè delle parti attorno, che niente avevano a spartire coi quadrelli del tatuaggio. Certo, poteva trattarsi semplicemente d’una buona mano di abbronzatura tropicale, ma non avevo mai sentito dire che il sole forte possa dare a un uomo bianco il colore della tintura di iodio. Però non ero mai stato nel Sud, e magari laggiù il sole produceva sulla pelle questi effetti straordinari. Basta, mentre tutti questi pensieri mi passavano come lampi per il cervello, il ramponiere non si era accorti di me assolutamente. Ma avendo dopo qualche difficoltà aperto la sacca, si mise a rovistarci dentro e subito tirò fuori una specie d’ascia da guerra, e una bisaccia di foca col pelo. Le mise sulla cassaccia in mezzo alla camera, afferrò la testa neozelandese che era proprio roba da vomitare, e la ficcò nel sacco. Infine si tolse il cappello nuovo di castoro, e io trattenni un urlo, tanta fu la nuova sorpresa. Non aveva capelli in testa, o quasi, niente altro che un ciuffetto attorcigliato sul davanti. La testa pelata e rossiccia era precisa identica a una testa di morto ammuffita. Se non si fosse trovato fra me e la porta, mi sarei buttato fuori più in fretta che non abbia mai buttato giù un pranzo.

Questo divertente pezzo in cui vediamo un Ismaele spaventato che cerca di darsi ogni tipo di spiegazioni dinnanzi a quel selvaggio continua con un Queequeg che si mostra lentamente, finché…

Ma il tempo che mi ci volle a decidere cosa dire mi fu fatale. Presa dal tavolo l’accetta di guerra egli ne guardò per un attimo la testa, e accostandola alla fiamma con la bocca al manico ne tirò grandi nuvole di fumo di tabacco. L’attimo dopo la candela era spenta e questo cannibale feroce, la scure tra i denti, mi balzò nel letto. Io senza più potermi trattenere gridai, e con un improvviso grugnito di stupore quello cominciò a palparmi.

Balbettando qualcosa, non so che, rotolai contro il muro e lo scongiurai, chiunque o qualunque cosa fosse, di star buono e lasciarmi alzare e riaccendere la candela. Ma le sue risposte gutturali mi fecero subito capire che egli afferrava malissimo ciò che dicevo.

«Chi diavolo?» disse infime, «tu no parlare, dannazione, io ammazzo!» E la mannaia accesa cominciò a svolazzarmi attorno nel buio.

«Padrone, per amor di Dio, Pietro Bara!» gridai. «Padrone! Allarme! Bara! Angeli! Aiuto!»

«Parla! Dici chi sei, o diavolo ammazzo!» ringhiò di nuovo il cannibale mentre i suoi paurosi svolazzi con l’ascia mi spargevano addosso le ceneri di tabacco ardenti, tanto che credetti che la biancheria mi stesse per pigliar fuoco. Ma grazie a Dio in quel momento il padrone entrò in camera con la candela in mano, e con un salto dal letto gli corsi incontro.

«Andiamo, niente paura» disse ricominciando a ghignare. «Queequeg qui non è capace di torcerti un capello.»

«E smettila di ghignare,» urlai. «E perché non mi hai detto che questo ramponiere dell’inferno era un cannibale?»

«Ma credevo che lo sapessi… non ti ho detto che era fuori a smerciar teste? Be’, un altro colpo di pinne, e torna a dormire. Queequeg, senti: tu capisci me, io capisco te: questo uomo dorme te. Capisci me?»

«Me capire molto» grugnì Queequeg tirando alla pipa e alzandosi a sedere sul letto.

«Tu dentro,» aggiunse facendomi cenno con la scure di guerra e buttando da un lato la sua roba. E in realtà lo fece in una maniera non solo civile ma veramente cortese e caritatevole. Stetti a guardarlo un momento. Con tutti i suoi tatuaggi, era in complesso un cannibale pulito e di aspetto gradevole. Che è tutto questo chiasso che ho fatto, dico a me stesso: costui è un essere umano proprio come me, ed ha tanto motivo di temermi come io di temere lui. Meglio dormire con un cannibale sobrio che con un cristiano ubriaco.

«Padrone, digli di mettere via l’ascia o pipa o quello che sia, insomma digli di smettere di fumare e andrò sotto con lui. Non mi piace avere a letto uno che fuma. È pericoloso. Per giunta non sono assicurato.»

Glielo disse, e Queequeg subito acconsentì, e di nuovo mi accennò gentilmente di mettermi a letto, rotolandosi tutto da una parte come per dire: «Non ti sfioro nemmeno una gamba.»

«Buona notte, padrone,» dissi, «può andare.»

Mi ficcai sotto: mai dormito meglio in vita mia.

Questa divertentissima parte in cui Ismaele e Queequeg si incontrano per la prima volta è tanto spassosa quanto un capolavoro di stile in cui ogni evento è in crescente, una buffa commedia degli assurdi che svela sia la personalità di Ismaele che quella di Queequeg, facendo capire da subito che il loro rapporto di amicizia sarà sacro.

L’accenno al cannibale sobrio e al cristiano ubriaco è uno dei tanti elementi presenti nel libro con cui Melville accusa e sbeffeggia la falsa fede e il bigottismo di molti, in cui spesso entra in mezzo il dio di Queequeg, la piccola statuetta nera Yojo che vi farà ridere molto. Ma l’amicizia fra i due è tanto comica quanto solenne, come mostra il seguente estratto.

Mi sedetti a guardarlo con molto interesse. Selvaggio come era, con la faccia (almeno per i miei gusti) schifosamente sfregiata, pure aveva un qualche cosa nella fisionomia che non dispiaceva affatto. L’anima non si nasconde. Sotto quei suoi tatuaggi snaturati mi pareva di vedere le tracce di un cuore semplice e onesto; e nei suoi occhi grandi e profondi, neri come la pece e pieni di coraggio, apparivano segni di un animo capace di sfidare mille diavoli. E per giunta quel pagano aveva non so che aria nobile, che neanche la sua goffaggine riusciva a sfigurare completamente. Aveva l’aspetto di uno che non ha mai strisciato e mai avuto creditori.

Questo cambio di tono nella narrazione è dovuto alla maturazione che avviene in Ismaele, il nostro narratore, man mano che avanza nella storia, di cui a conti fatti non è lui il vero protagonista. Da uomo squattrinato, privo di passioni e sempre pronto a fuggire in mare (ma solo su mercantili, come poi si vedrà), si troverà in un’avventura fantastica e al tempo stesso terrificante, con uomini del calibro di Queequeb, che a bordo del Pequod diventerà ramponiere assieme ad altri due temibili e solenne selvaggi: l’indiano d’America Tashtego e il possente negro Daggoo; e a seguire le vicende di colui che è il vero protagonista della storia, del viaggio del Pequod: Achab.

Per parecchi giorni dopo che lasciammo Nantucket il capitano Achab non si fece mai vito sopraccoperta. Gli ufficiali si davano regolarmente il cambio alla guardia, e niente contraddiceva l’impressione che fossero gli unici comandanti della nave; però, a volte, uscivano di cabina con ordini così improvvisi e perentori, che in fondo era evidente che comandavano solo a nome di un altro. Sicuro, il loro sommo sovrano e dittatore stava lì dentro, anche se finora invisibile a ogni occhio non autorizzato a penetrare nel ricetto ora sacrosanto della cabina.

Già solo il pensiero di ciò che è Achab, la sua sola presenza, fa intuire che non una volontà umana, ma d’acciaio, domina la nave.

La sua prima apparizione lo è ancor di più.

All’aspetto non mostrava segno riconoscibile di malattia, e neanche pareva in convalescenza. Aveva l’aria di uno staccato dal rogo mentre che il fuoco gli copre e devasta le carni, ma senza consumarle o rubare nemmeno un briciolo della loro durezza fitta e matura. Tutta la sua figura alta e grande pareva fatta di bronzo massiccio e gettata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso da Cellini. Tra i capelli grigi si faceva strada un segno sottile come una bacchetta, di un biancore livido, e gli scendeva su un lato della faccia e del collo scuri e bruciacchiati, finché spariva nel vestito. Somigliava alla cicatrice perpendicolare prodotta a volte nel tronco alto e dritto di un grande albero, quando il fulmine vi guizza sopra lacerante, e senza svellere un solo rametto spella e scava la corteccia da cima a fondo prima di scaricarsi per terra, lasciandolo vivo e verde ma segnato. Nessuno sapeva con certezza se quel segno era nato con lui, o se era la cicatrice di qualche ferita tremenda. Come per un tacito accordo, durante tutto il viaggio nessuno quasi ne parlò mai, e meno di tutti gli ufficiali. Ma una volta il compagno anziano che Tashtego aveva tra la ciurma, un vecchio indiamo superstizioso del Capo Allegro, asserì che Achab era stato marcato a quel modo non prima dei quarant’anni, e che lo sfregio gli era stato fatto non da un uomo in qualche rissa furiosa, ma in una zuffa contro gli elementi, in mare. Però questa insinuazione maligna parve smentita implicitamente da ciò che ci disse un grigio isolano di Man, un vecchio sepolcrale che prima d’ora non era mai partito da Nantucket, e quindi non aveva mai veduto quel terribile Achab. Ma le vecchie costumanze della gente di mare, le sue antichissime superstizioni, facevano apparire questo vecchio agli occhi di tutti un uomo dotato di capacità soprannaturali d’intendere. E nessuno dei marinai bianchi provò seriamente a contraddirlo, quando disse che se mai un giorno il capitano Achab dovesse venire composto in pace per il funerale, e forse questo, sussurrò, non sarebbe mai successo, allora la persona incaricata di quell’ultimo ufficio funebre gli avrebbe trovato addosso un marchio di nascita, dalla nuca alla pianta del piede.

Questa prima entrata in scena di Achab ci fa capire chi è e cos’è per la ciurma: è Achab, qualcosa di indefinibile.

Anche se non conoscessimo la trama, anche se non ci fossero già chiare le intenzioni di Achab verso la balena bianca, capiremmo comunque che questo vecchio capitano si è imbarcato per scopi ben diversi dal catturare e uccidere balene per ricavarne dell’olio, e dunque del denaro. Immediatamente comprendiamo che in Achab c’è qualcosa che lotta, un demone che lo guida.

Le ore passavano. Achab s’era chiuso in cabina e subito dopo s’era rimesso a passeggiare sul ponte con la stessa aria esaltata.

La giornata stava per finire. All’improvviso s’inchiodò vicino alla murata, cacciò la gamba d’osso nel buco di trivello, con una mano s’appigliò a una sartia e ordinò a Stubb di mandargli tutti a poppa.

«Capitano?» fece il secondo, strabiliato da quell’ordine che a bordo non si dà quasi mai, tranne che in casi d’emergenza.

«Manda tutti a poppa,» ripeté Achab. «Vedette oh! A basso!»

Quando tutto l’equipaggio fu riunito, e ognuno stava a guardarlo curioso e non senza apprensione, che la sua faccia non era diversa dall’orizzonte quando si alza un fortunale, Achab dette un’occhiata svelta oltre le murate, e poi saettando gli occhi tra gli uomini si mosse dal suo posto. Come se non avesse un’anima attorno, riprese pesantemente ad andare su e giù per la coperta. E continuava a marciare a testa china e col cappello schiacciato a metà sul naso, incurante dei brontolii di sorpresa dei marinai, finché Stubb sussurrò cautamente a Flask che Achab doveva averli chiamati per assistere a una impresa podistica. Ma non durò a lungo. Fermandosi con violenza grido:

«Cosa fate quando vedete una balena, marinai?»

Impulsivamente, una ventina di voci gridarono tutte assieme: «La segnaliamo!»

«Bene!» urlò Achab con un tono di selvaggia approvazione, notando il calore spontaneo in cui li aveva gettati, magneticamente, quella domanda inattesa.

«E che fate poi, marinai?»

«Ammainiamo, e alla caccia!»

«E a che canto vogate, ragazzi?»

«Balena morta o lancia a picco!»

A ogni urlo, il viso del vecchio assumeva sempre più un aspetto strano e selvaggio di approvazione e di gioia. E intanto i marinai cominciavano a guardarsi incuriositi, come presi da quel loro stesso esaltarsi per delle domande che apparivano oziose.

Ma appena Achab ricominciò a parlare tornarono a fissarlo tutti avidi. Si era voltato a metà sul perno, e con una mano alzata stringeva stretta, quasi convulsamente, una sartia:

«Tutti voi di vedetta mi avete già sentito dare ordini riguardo una balena bianca. Guardate qua! Vedete quest’oncia d’oro spagnola?» e alzò al sole una grossa moneta luccicante: «Vale sedici dollari, ragazzi. La vedete? Signor Starbuck, datemi la mazza.»

Mentre l’ufficiale prendeva il martello, Achab senza dire niente strofinava pian piano il pezzo d’oro sulle falde della giacca come per farlo più lustro. E intanto cantarellava tra sé a bassa voce, senza parole, producendo un suono soffocato e indistinto così strano, che pareva il ronzare meccanico dell’orgasmo che aveva dento.

Avuta la mazza da Starbuck l’alzò e camminò verso l’albero maestro, mostrando la moneta d’oro con l’altra mano, e gridando a piena voce: «Chi di voi mi segnala una balena con la testa bianca, la fronte rugosa e la mandibola storta, chi di voi avvista questa balena bianca con tre buchi nella pinna destra della coda, guardate! Chi segnala questa balena avrà quest’oncia d’oro, ragazzi!»

«Urra! Urra!» gridarono i marinai, e agitando i cappelli d’incerata festeggiavano i colpi che inchiodavano l’oro sull’albero.

«Una balena bianca, ripeto,» tornò a dire Achab gettando via la mazza, «una balena bianca. Anche se vedete una bolla, segnalate.»

Intanto Tashtego, Daggoo e Queequeg avevano assistito alla scena ancora più sorpresi e interessati degli altri, e a sentire parlare d’una fronte rugosa e d’una mandibola storta avevano trasalito, come se ciascuno per suo conto avesse ricordato qualche fatto particolare.

Qui Achab mostra il suo vero scopo, la sua sola missione. Inutile per i suoi ufficiali, Stubb, Flask e Starbuck cercare di dissuaderlo, Achab perseguirà fino alla fine il suo intento; ogni balena uccisa durante il viaggio per riempire la stiva di barili d’olio sarà solo un modo per tenere a bada gli ufficiali man mano che lui insegue la propria preda, sempre più smanioso, sempre più solitario e folle, del tutto posseduto.

Ignorerà ogni esortazione a rinunciare, sarà per l’equipaggio guida e terrore. Ma nulla lo fermerà. Non una sola difficoltà. Neppure la più impetuosa fra le tempeste che, quasi come un monito, gli si scaglierà contro per fermare la sua rotta, senza riuscirci.

«Riconosco il tuo potere senza verbo e senza luogo: non ho detto così? Né le parole mi sono state strappate, né ora lascio andare queste maglie. Tu puoi accecare; ma io posso poi brancolare. Tu puoi consumare, ma io posso ancora essere cenere. Accetta l’omaggio di questi poveri occhi e delle mani che li coprono. Per me, io non lo vorrei. La folgore mi traversa il cranio; le pupille mi fanno sempre più male, tutto il cervello contuso mi pare si stacchi dal capo e rotoli su qualche terreno sassoso. Oh! Oh! Ma per quanto bendato ti parlerò. Sei luce, ma esci dalla tenebra; ma io sono tenebra che balza fuori dalla luce, che balza fuori da te! I giavellotti cessano; occhi, apritevi. Vedete o no? Lassù ardono le fiamme! O tu magnanimo! Ora mi glorio della mia genealogia. Ma tu non sei che il mio padre di fuoco; la mia dolce madre, non la conosco. Oh crudele, che hai fatto di lei? Ecco il mio enigma: ma il tuo è ancora più grande. Tu non sai da dove sei nato, e perciò ti dici non generato; non conosci certamente il tuo principio, e per questo ti chiami senza principio. Io so di me quello che tu non sai di te stesso, onnipotente. C’è qualcosa di trascendente di là da te, o chiaro spirito, dinanzi a cui tutta la tua eternità non è che tempo, tutta la tua creatività cosa meccanica. Attraverso te, il tuo io fiammeggiante, i miei occhi scottati lo vedono confusamente. O fuoco trovatello, tu eremita da sempre, anche tu hai il tuo enigma incomunicabile, il tuo dolore indiviso. Qui di nuovo col mio superbo dolore riconosco mio padre. Balza! Balza in alto e lambisci il cielo! Io salto con te, io brucio con te, e vorrei saldarmi con te, e sfidandoti ti adoro!»

«La lancia! La lancia!» gridò Starbuck. «Guarda la tua lancia, vecchio!»

Il rampone di Achab, quello forgiato al fuoco di Perth, era saldamente assicurato al suo grosso forcaccio, sicché sporgeva oltre la prua della barca, ma il mare che ne aveva sfondata la chiglia aveva fatto cadere la mobile guaina di cuoio, e ora dall’aguzza punta d’acciaio usciva una fiamma orizzontale di fuoco, pallido e forcuto. Mentre il rampone ardeva là silenzioso come la lingua di una serpe, Starbuck afferrò Achab per il braccio: «Dio, Dio stesso è contro di te, vecchio: cedi! È un viaggio maligno! Mal cominciato, mal proseguito; lasciami mettere i pennoni al vento, vecchio, finché è possibile, e farne un vento favorevole che ci spinga verso casa, per un viaggio migliore di questo.»

Udendo Starbuck, l’equipaggio atterrito si buttò ai bracci, sebbene lassù non restasse nemmeno una vela. Per un momento, tutti parvero dividere i pensieri dell’ufficiale terrorizzato, e levarono quasi un grido d’ammutinamento. Ma gettando sul ponte il cavo tintinnante dal parafulmine, e afferrando il rampone ardente, Achab lo brandì in mezzo a loro come una torcia, giurando di trafiggere con quello il primo marinaio che osasse levare volta a una cima. Pietrificati dal suo aspetto, e ancora scombussolati indietreggiarono, e Achab tornò a parlare:

«Tutti i vostri giuramenti di dare la caccia alla balena bianca sono impegnativi come il mio; e il vecchio Achab s’è legato cuore e anima, corpo, polmoni e vita. E perché sappiate a che ritmo gli batte il cuore, guardate qui: così io spengo l’ultima paura!» E con un gran soffio spense la fiamma.

Come nell’uragano che spazza la pianura gli uomini fuggono la vicinanza di qualche olmo solitario e gigantesco, la cui stessa altezza e forza non fanno che renderlo più malsicuro, perché tanto attira i fulmini; così, a quelle ultime parole di Achab, molti dell’equipaggio fuggirono lontani da lui, sconvolti dal terrore.

La follia di Achab lo porta a sfidare gli elementi e Dio, ma è una pazzia lucida, colma di logica, pregna del tarlo che per anni, per decenni ha scavato a fondo in lui, fino a consumarlo.

Né la tempesta né le divinità possono nulla contro la sua volontà. L’equipaggio intero non osa andargli contro, anzi, quel semidio li atterrisce e li affascina. Ben scrive Melville più avanti dicendo: Erano un uomo solo, non trenta. Perché come l’unica nave che li conteneva tutti, anche se fatta di cose tutte contrarie, quercia, acero e pino, ferro, pece e canapa, pure fondeva ogni cosa in un solo scafo compatto che s’avventava alla meta, equilibrato e diretto dalla lunga chiglia centrale; allo stesso modo tutte le individualità dell’equipaggio, il valore di uno, la paura di un altro, la colpa e l’innocenza, tutte le differenze erano saldate in unità e indirizzate a quello scopo fatale che indicava Achab, loro unico signore e loro chiglia.

La pazzia di Achab è più che vendetta. C’è altro in lui, ben più della rivincita per una gamba perduta; più della voglia di uccidere una balena che tutti temono. È il cuore di Achab che lo spinge verso l’estremo, oltre quell’orizzonte che ha solcato per oltre quarant’anni, per tutta la sua vita.

È il Dáimōn di se stesso che Achab segue, quel desiderio irrefrenabile e selvaggio che lo rende più di un uomo, lo tormenta perché non si arrenda né si pieghi e vada fino in fondo nel proprio viaggio, anche a costo di distruggere se stesso e tutti, ma restando ciò che nessun altro può essere: Achab.

«Che cos’è mai, quale cosa indicibile, incomprensibile e inumana, quale falso signore e padrone nascosto, quale tiranno crudele e senza scrupoli mi comanda, che contro ogni mio affetto e desiderio naturale io debba continuare a spingere, e serrarmi e schiacciarmi di continuo, per esortarmi pazzamente a fare ciò che nel profondo del cuore non ho mai osato neanche pensare? È Achab Achab? Sono io, Signore, che alzo questo braccio, o chi è? Ma se il gran sole non si muove da sé, e non è che un fattorino del cielo, se neanche una stella può ruotare se non per una forza invisibile, come può dunque battere questo piccolo cuore, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che batte quel battito, pensa quel pensiero e vive quella vita, e non io…

Direi che questo ultimo brano, queste ultime parole del capitano Achab mostrino chiaramente la grandezza di questo libro, un romanzo che non è solo un viaggio in mare, ma un viaggio nella natura umana, nel demone che tutti ci portiamo dentro e che forse molti dovrebbero riscoprire.

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