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Come Achab, uno scrittore deve inseguire la propria personale balena bianca; deve raggiungere il prorio Dáimōn.

Credo che da tutti gli articoli qui presenti sia ormai chiaro che, almeno a mio dire, uno scrittore non può scrivere roba decente, forte, di carne e sangue se non partendo da qualcosa di intimo. Certo, come abbiamo già detto, un vero scrittore riesce a trasfigurare le proprie esperienze, a fissarle ed esorcizzarle donandole alla propria storia, persino quando essa è dichiaratamente autobiografica; questa capacità rende una storia pubblica, ossia non più un’esperienza privata, ma intima anche per altri, un’esperienza dello scrittore che diventa specchio per quelle del lettore.

Ovviamente ci sarebbe tanto da discutere sulla capacità dei lettori di farsi davvero toccare da qualcosa di talmente intimo da risultare spesso doloroso, cosa che porta molti scrittori a scrivere piccole cose, farse piene di luoghi comuni atte a soddisfare proprio persone desiderose di entrare in empatia con cose che, a conti fatti, altro non sono che lo specchio delle proprie illusioni e di un’immagine distorta e infantile del sé. Tralasciando però questo tipo di narrativa che non mi interessa e questi lettori che spero possano maturare, tornando al precedente discorso credo che sia l’ossessione verso qualcosa a condurre uno scrittore a creare pagine vive, grondanti sangue; un’ossessione spesso verso qualcosa di intangibile a cui neppure si riesce a dare un nome concreto ma che c’è, perennemente presente nello scrittore.

Rosa Montero lo definiva il Dáimōn. Continua a leggere Come Achab, uno scrittore deve inseguire la propria personale balena bianca; deve raggiungere il prorio Dáimōn.

Sempre vicini, ma sempre soli. L’incomunicabilità mostrata da Simenon.

La nostra è l’epoca in cui si è sempre connessi con il mondo intero. Abbiamo la possibilità di comunicare con chiunque, ovunque egli si trovi. Non abbiamo più bisogno di telefonare, le comunicazioni passano quasi sempre via chat o tramite messaggi vocali.

Un tempo si sceglievano con cura la persona da sentire, ed erano sempre persone presenti nel nostro quotidiano. Oggi, invece, in un giorno chattiamo con decine di persone che non abbiamo mai visto in carne e ossa. Seppur chiusi in una stanza non siamo mai soli.

Eppure mi chiedo cosa se non un profondo senso di solitudine ci porta a interagire con chiunque e ad avere sempre bisogno di una finestra virtuale spalancata sul mondo?

L’incomunicabilità umana è uno dei temi portanti nella letteratura del novecento, basti pensare al profetico Gli indifferenti, capolavoro di Alberto Moravia pubblicato nel 1929 e che tutt’oggi, a un secolo di distanza, è ancora tremendamente attuale. Nella scrittura di Kafka l’incomunicabilità non mette radici solo in ambito famigliare, ma nel tessuto sociale: l’uomo come elemento invisibile in un mondo sempre più veloce, burocratico, meccanico, gelido.

Oggi, con il crescere delle tecnologie, si ha l’illusione di aver vinto la solitudine. Abbiamo sempre qualcuno con cui parlare, sempre una platea a cui mostrarci. Nonostante ciò basterebbe osservare una fra le tante cene di una qualsiasi famiglia per ritrovarsi davanti la stessa dinamica famigliare mostrata nel l’opera di Moravia: silenzio e indifferenza. La sola voce è quella del televisore accesso; i soli sguardi sono quelli rivolti a uno smartphone. Non parliamo più, proviamo quasi fastidio a stare insieme, spesso più il legame è intimo più in noi cresce l’imbarazzo, come se il concetto di comunicazione fosse ormai limitato a svolgersi nascosti dietro uno schermo. Tuttavia non riusciamo a fare a meno delle persone. Relazioni di ogni tipo vengono trascinate avanti persino quando l’incomunicabilità si tramuta in fastidio, poi in livore, infine in odio. Continua a leggere Sempre vicini, ma sempre soli. L’incomunicabilità mostrata da Simenon.

giuseppe montesano parla di bruno schulz

Grazie mille alla scuola di scrittura creativa Lalineascritta, fondata più di ventisei anni fa dalla scrittrice Antonella Cilento.

Il terzo incontro della ottava edizione (2019-2020) de “I Magnifici Sette”, la serie di lezioni magistrali sui classici della letteratura che lo scrittore Giuseppe Montesano tiene nell’ambito dei laboratori di scrittura creativa de Lalineascritta. Questa lezione, tenutasi a Napoli il 5/12/2019, ha come protagonista lo scrittore polacco Bruno Schulz. Tutti i dettagli del ciclo qui: http://bit.ly/2olpqhX

il doloroso punto di vista di un emarginato

Essendo la vigilia di Natale probabilmente ci si sarebbe aspettati che parlassi di A Christmas Carol del grande Dickens, ma sarebbe stato troppo scontato. Ho preferito scegliere un libro che, in un certo senso, accusa allo stesso modo, se non con maggior brutalità, l’ipocrisia della società che proprio durante le feste emerge in tutto il suo impeto.

Il libro in questione è L’ultimo giorno di un condannato a morte, capolavoro di Victor Hugo scritto nel 1829, in cui sono narrati gli ultimi giorni di vita di un prigioniero del carcere di Bicêtre. Una critica diretta, spietata, fatta da Hugo nei confronti dei bagni penali e della pena capitale, ma non solo; in questo libro si nota un’accusa estesa all’intera società francese in cui la vita umana, quella degli ultimi, non aveva alcun valore: tema da lui trattato in ogni suo capolavoro, ossia l’estremo divarico fra le classi sociali.

Del condannato in questione non sappiamo di preciso la classe sociale, ma dalla descrizione della sua famiglia possiamo immaginare non sia di un ceto autorevole, benché non si tratti neppure di un poveraccio, ma la sua condizione di forzato, peggio, di condannato al patibolo, lo rende una nullità, non altro che immondizia sociale, un cane rognoso sbeffeggiato dal popolo stesso. Continua a leggere il doloroso punto di vista di un emarginato