Alice Munro e la spietata quotidianità.

Con questo articolo voglio fare un elogio particolare alla grandissima scrittrice Alice Munro, premio Nobel per la Letteratura nel 2013. La sua scrittura, per quanto raffinata, è di una semplicità tale da mostrare il dramma delle situazioni più ordinarie. Alice Munro può spaziare senza problemi dal punto di vista di un bambino fino a quello di una donna adulta, e sono proprio le donne l’argomento principale nei racconti di Alice Munro: generazioni diverse di donne che si intrecciano, mostrando al lettore i loro sogni, le loro scelte, i loro dolori.

Se c’è una scrittrice di fine 900 che ha dato davvero voce alle donne, questa è Alice Munro.

Il libro di cui voglio parlarvi oggi è Il sogno di mia madre, una delle numerose raccolte di racconti della Munro, edita da Einaudi.

Otto racconti che parlano di donne. Otto racconti lunghi, tipico dello stile di Alice Munro, in cui queste donne sono continuamente messe alla prova, costrette a fare scelte, a fare i conti con i propri limiti, con le proprie debolezze, con i propri sogni. Un viaggio nei ricordi di ere passate, ma anche di luoghi presenti, dove la cura di ogni dettaglio è sempre funzionale alla vita dei personaggi; in cui persino la più ordinaria delle case di una comune famiglia può diventare alcova di rancori assopiti, menzogne e ipocrisie.  

Alice Munro non ha di certo bisogno di utilizzare quelli che Carver definiva “trucchi da quattro soldi” per rapire il lettore, come i più grandi autori si limita a narrare una storia, delle vite che si intrecciano. Dunque se vi piace l’affabulazione o le frasi a effetto buone per gli aforismi (con tutto il rispetto per i veri aforismi), Alice Munro non fa al caso vostro.

Cercherò di non spoilerare, perché magari alcuni di voi non conoscono ancora questa meravigliosa scrittrice.

Nel primo racconto, “Una donna di cuore”, Alice è talmente brava da tramutarsi ora in dei bambini, ora in una donna sola e fragile, ora in un bifolco, ora in una malata.

La storia nasce con la morte del signor Willens, ritrovato in un lago da alcuni bambini. È dunque una storia di bambini che vediamo, ma attorno a loro c’è un mondo di adulti: due mondi che si confrontano con il rispettivo modo di percepire la vita, i rispettivi conflitti.

Per spaccare il cuore al lettore basterebbe una semplice ma tagliente frase in cui si narra il conflitto di uno dei bambini: “Cece Ferns, invece, in casa non raccontava mai niente”.

Un dramma sputato in faccia in modo crudo, diretto, senza fronzoli o giri di parole.

La Munro è maestra nel cogliere il conflitto interiore dei propri personaggi. Li conosce di certo a memoria.

“Il padre di Cece Ferns si chiamava Cece Ferns. Un nome ben noto a tutti, lì a Walley, e in genere anche ben visto, tanto che addirittura trenta o quaranta anni più tardi chiunque avesse raccontato un aneddoto sul suo conto avrebbe dato per scontato che tutti sapessero che stava parlando del padre e non del figlio. Se qualcuno nuovo del posto diceva: «Non mi pare una cosa che Cece potrebbe fare», gli si spiegava che non si stava parlando di quel Cece Ferns.

-Non lui, stiamo parlando del vecchio-“.

Insomma, nella semplicità più totale la Munro ci ha spiattellato in faccia il dramma di un ragazzino, al punto da farcelo sentire addosso come una seconda pelle. E con la stessa quiete di un dramma domestico che si ripete ogni giorno, in una calma totale Alice ci pugnala scrivendo: “Teneva d’occhio la strada. Non era escluso che il padre potesse tornare a casa a mangiare qualcosa. Magari non era ancora ubriaco. Ma non sempre il suo atteggiamento dipendeva dal livello della sbronza. Entrando in cucina in quel momento avrebbe potuto dire a Cece di preparare due uova anche a lui. Poi magari gli avrebbe chiesto dove aveva messo il grembiulino, aggiungendo che un giorno o l’altro sarebbe diventato una mogliettina perfetta. Tutto ciò, se fosse stato di buon umore”.

A noi questo dramma giunge enorme, insormontabile, proprio perché lo stiamo vivendo con gli occhi di un bambino.

Questo significa creare un personaggio.

Ma come scritto prima, la Munro ci narra di un mondo intero, e il mondo è composto da persone, dolori e sogni che si intrecciano.

Nello stesso racconto, vediamo il dramma di chi vive una malattia, ma senza il pietismo a cui siamo abituati oggi, talmente ampio da aver anestetizzato la sofferenza stessa, né infarcito da un patetico melodramma. No, tutto avviene nella più normale quotidianità, e proprio a tal motivo è agghiacciante.

“Una volta una donna aveva chiesto a Enid di portarle un vassoio di vimini dalla credenza e Enid aveva creduto che intendesse darsi il conforto di contemplare per l’ultima volta quell’oggetto caro. Accadde invece che la malata volesse utilizzare un residuo di sorprendente violenza per sfasciarlo contro la testiera del letto.

-Ora so che mia sorella non riuscirà mai a metterci sopra le mani, – aveva detto”.

Una scena simile è talmente visiva che ci pare di udire il rumore del vassoio che si spacca, e di vedere fin nelle nostre pupille gli occhi ferini della donna malata.

Semplicità. Ancora e sempre semplicità. Perché nella vita gli eventi più importanti, quelli che ci segnano, spesso accadono in una normalità quasi asfissiante.

Alice Munro ci mostra un mondo concreto, per quanto disgustoso e spesso ordinario. Non ha bisogno di esibire paesi in guerra per farci conoscere la sofferenza, le basta condurci nelle più normali famiglie, simili alle nostre, come nel racconto “Cortes Island”, in cui ci sbatte in faccia quella che per molti è una triste realtà: “Avevamo concluso il contratto matrimoniale per pura libidine, ma non ci passò mai in mente che i nostri vecchi -genitori, zii e parenti vari- potessero aver fatto altrettanto. A noi sembrava che gli altri avessero smania soprattutto di case, terra, tagliaerba elettrici, freezer e solide mura.

E, naturalmente, per quanto riguardava le donne, di bambini. Tutte cose che ritenevamo di poter scegliere, o non scegliere, in futuro. Nemmeno un istante ci sfiorò l’idea che potessero arrivare nella nostra vita in modo inesorabile, come la vecchiaia o il cattivo tempo”.

Non succede proprio così nella vita? E come non sentirsi chiamati in causa nel leggere, in questo stesso racconto, le seguenti parole: “Chess usciva di casa prima che facesse chiaro, per tutto il primo inverno del nostro matrimonio, e rientrava quando era già buio. Lavorava duro, senza mai chiedere che la sua attività potesse conciliarsi con eventuali interessi passati né con possibili ambizioni coltivate un tempo. Nessun altro obiettivo se non quello di condurre entrambi verso una vita fatta di tagliaerba e congelatori nella quale pensavamo di non credere”.

Alice Munro, brava com’è, avrebbe potuto utilizzare un lessico forbito, mille metafore e giochi di luce per mostrarci questo dramma, ma invece ha preferito colpirci in pieno viso con la vita ordinaria, perché come abbiamo appreso sin dai tempi di Cervantes, narrare significa mostrare una storia, non affascinare con belle parole.

Ma la bravura della Munro non è solo in questo, no, lei sa condurre il lettore fino al punto di massima tensione, come nel racconto “Le bambine restano”, in cui vediamo una coppia che sin da subito ci appare destinata al fallimento: lui che non prende niente sul serio, al punto che, dietro al suo fare sempre ironico, sembra insensibile a ogni sentimento, persino alla cattiveria; eppure, nel momento del divorzio è pronto a usare in un lampo, con una sola frase, una malignità tale da sbatterci contro al muro:  “Le bambine restano” sente suo marito dirle: “-Le bambine, – ha ripetuto, in tono vibrante e vendicativo. Quel modo freddo di chiamarle, «le bambine», è stato per lei come l’abbassarsi di una saracinesca – come una minaccia dura, ufficiale, inappellabile.

– Le bambine restano, – ha detto Brian, – Pauline, mi hai sentito?”.

Anche qui se la Munro avesse utilizzato urla, enormi e strazianti pianti oppure oggetti frantumati nella stanza, non saremmo riusciti a percepire il terrore, il dolore e la disperazione provata nel cuore di Pauline, la protagonista. Una frase, una sola frase, ma capace di spezzare il lettore perché ha prima di tutto spezzato il personaggio.

È la stessa sensazione che proviamo leggendo il racconto “Prima che tutto cambi”, trovandoci nella più comune delle situazioni: un pranzo fra padre e figlia davanti al televisore acceso.

“Che ne pensava del dibattito Kennedy Nixon?

-Oh, sono solo due americani.

Ho cercato di ampliare un tantino il concetto.

-In che senso?

Se gli si chiede di approfondire un argomento che non giudica degno di una conversazione, o di chiarire un’idea che a suo giudizio non ha bisogno di spiegazioni, ha un modo di sollevare il labbro superiore da un solo lato, mostrando un paio di grossi denti macchiati di nicotina.

-Che sono solo due americani, – ha ripetuto, come se le sue parole potessero essermi sfuggite la prima volta.

E rimaniamo lì seduti, senza parlare, ma nemmeno in silenzio, perché come forse ricorderai lui ha il respiro affannoso. Sembra che lo risucchi dal fondo di vicoli pietrosi e cancelli scricchiolanti. Per poi esalarlo in una specie di gorgoglio asciutto, come se avesse chiuso nel petto un marchingegno inumano”.

Questa parte è a dir poco stupefacente. Dell’uomo di cui abbiamo letto sopra, visto dagli occhi di sua figlia adulta, capiamo tutto grazie a poche sintetiche considerazioni riguardo un programma televisivo. Lo vediamo persino dal modo in cui muove le labbra e osserva le cose attorno a sé: addirittura sua figlia.

Non abbiamo bisogno di altre spiegazioni né di eventi eclatanti per capire il dramma che si consuma da sempre in quella casa: “E rimaniamo lì seduti, senza parlare, ma nemmeno in silenzio”.

Basta osservare lui con gli occhi di lei per capire ciò che si portano dentro, e che più avanti esploderà in una semplice frase: “Non li conoscevo per nome, ma loro sapevano come mi chiamavo io. Dovevano tollerarmi, in altre parole, per via di mio padre”.

Insomma, un’autrice essenziale ma al tempo stesso complessa. Un’autrice capace di creare mondi, volti, psicologie, e portarci non soltanto in una realtà sensoriale, ma fin dentro le viscere dei suoi protagonisti, conducendoci lentamente verso un baratro che nemmeno si vede camminando, ma che appare all’improvviso nel totale silenzio, mozzandoci il respiro.

Soltanto allora rivedremo tutte le cose che lei, sapientemente, ha saputo seminare nelle pagine, costruendo con fare chirurgico identità, sogni, dolori ed esistenze tangibili a cui ci affezioneremo e che sentiremo quasi nostre, come se la Munro con la sua penna avesse dato vita a parti nascoste nell’esistenza di ognuno di noi.

Un premio Nobel più che meritato.

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