Dovrebbe esistere una legge che vieti di scrivere a chi non ha mai letto nulla di Heinrich Böll, scrittore tedesco Premio Nobel per la letteratura nel 1972. Di certo qui in Italia Böll è conosciuto soprattutto per il suo capolavoro Opinioni di un clown, romanzo meraviglioso che mi ha spinto a iniziare a scrivere. Ma Böll nella sua vita ha scritto ben ventidue romanzi e decine di racconti.
Nei suoi scritti è sempre presente una forte critica contro la Germania nazista, il dominio della chiesa cattolica e ogni forma di potere che sottometta l’uomo, cosa che lo rende oltre a un grande scrittore anche un uomo coraggioso, tenendo presente del periodo in cui è vissuto. Fin dalla gioventù si oppose al regime nazista, per poi essere suo malgrado arruolato nel 1939 nell’esercito tedesco e costretto a combattere in Francia, Romania, Ungheria e in Russia, fino a essere imprigionato nel 1945 in un campo americano.
Sicuramente il suo vissuto è stato per lui una forte formazione letteraria, infatti, al di là delle accuse contro il regime nazista, nei suoi scritti si evince una perenne empatia per i poveri, gli ultimi, gli emarginati.
È difficile, molto difficile trattare temi come quelli di Böll senza cadere nella sentimentalismo o, peggio, nel moralismo, soprattutto quando si ha una voce autoriale molto malinconica come quella di Böll. Eppure nei suoi scritti non traspare mai vittimismo né stucchevoli e plateali melodrammi. Il dramma nella scrittura di Böll è freddo, gelido, e per questo lancinante. I suoi personaggi sono perdenti dichiarati, ma mai vittimistici; spesso rassegnati, ma mai uggiosi. In loro, seppur consacrati al fallimento, traspare una nobile bellezza: la bellezza dei sentimenti umani, per quanto contorti e a volte squallidi e brutali come in Hans Schnier, protagonista del già nominato Opinioni di un clown. Ma non è di questo libro che voglio parlarvi, bensì di un romanzo breve di Böll purtroppo meno conosciuto: Il treno era in orario.

Scritto nel 1949 e giunto a noi nel 2000 grazie a Mondadori, il romanzo narra le vicende di Andreas, un giovane soldato tedesco in viaggio su un convoglio militare per raggiungere Przemyśl e combattere sul fronte orientale. Durante tale viaggio fa amicizia con un commilitone omosessuale e un marito tradito. Arrivato a destinazione, prossimo al giorno del combattimento, conosce Olina, una prostituta polacca di cui si innamora.
Tutto il viaggio di Andreas è guidato da un unico, ridondante pensiero: Non vuole morire, eppure sa che sta andando proprio a morire.
Questo aspetto che potrebbe sembrare semplice se mal gestito, è invece una realtà straziante in questo libro. Un uomo giovane sta per morire e non può opporsi, e non solo non può opporsi, è costretto ad andare contro la morte: non viene ucciso, non è divorato da una malattia, no, è lui che in una quotidiana ordinarietà si mette in cammino verso la morte.
È forse il modo più spietato che ci sia di raccontare la guerra: uomini che vivono ogni giorno fra le faccende quotidiane consapevoli che stanno andando a morire.
Il libro inizia così:
Mentre attraversavano il buio sottopassaggio, udirono sopra di loro il fragore del treno che arrivava, e la voce sonora dell’altoparlante disse con dolcezza: «Tradotta militari in licenza, proveniente da Parigi per Przemysl, ferma a…»
Poi, salite le scale fino al marciapiede, si fermarono davanti a uno scompartimento qualunque, da cui smontavano soldati in licenza con le facce allegre, stracarichi di pacchi giganteschi. Il marciapiede si vuotò in fretta, era la solita scena. Qua e là, davanti ai finestrini, stavano ragazze o donne o un padre tetro e taciturno… La voce sonora, intanto, diceva di affrettarsi. Il treno era in orario.
«Perché non sali?» chiese al soldato, ansioso, il cappellano.
«Come?» domandò il soldato, stupito. «Potrei buttarmi sotto le ruote, no?… potrei disertare, no? Tu che vuoi?… Posso, sì, posso impazzire… ne ho tutto il diritto: ho tutto il diritto d’impazzire. Io non voglio morire, il terribile è che non voglio morire.» Parlava con assoluta freddezza, quasi che le parole gli uscissero di bocca come ghiaccio. «Sta’ tranquillo! Adesso salgo, da qualche parte trovi sempre del posto… sì… sì, non prendertela, prega per me!» Prese su il bagaglio, salì attraverso il primo sportello aperto che si trovò davanti, abbassò il vetro di dentro e si sporse ancora una volta, mentre sopra di lui la voce sonora aleggiava come una nube vischiosa: «Il treno è in partenza…».
«Non voglio morire» gridò, «non voglio morire, ma il terribile è che morirò… e presto!» Sempre più la figura nera si allontanava su quel marciapiede freddo e grigio… sempre più, finché la stazione fu inghiottita dalla notte.

Ecco, in una situazione descritta come ordinaria, in cui la voce dell’altoparlante viene definita persino dolce, il dramma ci viene subito sputato in faccia: Io non voglio morire, il terribile è che non voglio morire.
Il soldato, Andreas, sa che sta andando a morire, e la cosa terribile, dice, è che lui non vuole morire ma, come dichiara alla fine di questo estratto, sa che morirà, e presto.
Non si tratta neppure di un’esecuzione, perché da quella si sa, non si può scappare. Lui avrebbe delle alternative, ma quali? Buttarsi sotto al treno? Oppure disertare, certo di essere poi catturato e ucciso. Gli resta la pazzia, no?
Atroce pensare alla pazzia come unica alternativa alla morte.
Meraviglioso vedere che a esortarlo a salire sul treno è proprio il cappellano: il prete che lo manda alla morte.
In tutto il libro sarà questo il vero viaggio: Andreas che va verso la morte, senza voler morire.
Dalle chiacchiere superficiali e sconsiderate, per lo più dalle parole terribilmente grevi e opache che ci si scambia accanto ai treni che conducono alla morte, si direbbe che un’onda plumbea si ripercuota su chi parla, facendogli improvvisamente sentire la spaventosa e insieme inebriante potenza del destino. Gli innamorati e i soldati, i votati alla morte e coloro in cui sovrabbonda l’energia cosmica della vita ricevono a volte, all’improvviso, questa virtù, vengono graziati e oppressi da un’illuminazione repentina… e la parola sprofonda, sprofonda dentro di loro.
Mentre Andreas si faceva lentamente strada verso l’interno del vagone, la parola piombò ben presto in lui come un proiettile, penetrando senza dolore e quasi inavvertitamente attraverso la carne, i tessuti, le cellule, i nervi, finché in un ultimo urto in qualche cosa, scoppiò, produsse un orrendo squarcio e fece sgorgare sangue… vita… dolore.
Presto, pensò e sentì che impallidiva. Intanto faceva i soliti gesti, quasi senza saperlo. Accese un fiammifero, illuminò quei mucchi di soldati distesi, accovacciati, dormenti, che giacevano sopra, sotto e contro i loro bagagli. L’odore del fumo di tabacco ormai raffreddato si mescolava con quello del sudore freddo e con quello strano tanfo di sudiciume polveroso che emana da ogni raggruppamento di soldati. La fiamma dello zolfanello ormai prossimo a spegnersi diede ancora un guizzo sibilante, e in quell’ultimo barlume Andreas scoprì, là dove il corridoio si restringeva, un piccolo posto libero, verso il quale si diresse cautamente. Si era cacciato il fagotto sotto il braccio e teneva il berretto in mano.
Presto, pensò, e il terrore gli stava dentro, nel profondo. Terrore e certezza assoluta. Mai più, pensava, mai più vedrò questa stazione, mai più la faccia del mio amico, che ho insultato fino all’ultimo… mai più…

Come vivere sapendo che si sta andando a morire?
Il viaggio di Andreas è metafora della vita, in fondo, e ci mette dinnanzi all’importanza delle piccole cose, quelle cose che Andreas ora vede enormi, importantissime, al cospetto dell’ultimo momento che si avvicina, senza che lui sappia neppure quando sarà di preciso.
L’aspetto principale da cogliere in questo estratto e nei prossimi è l’incredibile voce poetica di Böll. Le similitudini e le metafore da lui usate sono pura lirica, le immagini fortemente evocative, i sentimenti sono di sangue e carne, ogni parola trova il giusto posto trasformando la scrittura in vera musica.
Presto morirò, e si sente come un nuotatore che si sa vicino alla riva quando di colpo un pesante cavallone lo ributta al largo. Presto! Ecco il muro oltre il quale cesserà di esistere, non sarà più su questa terra.
Cracovia, pensa a un tratto, e il cuore gli si ferma come se una vena, intasata, non lasciasse più passare il sangue. È sulla giusta traccia! Cracovia! Niente! Procediamo. Przemysl! Niente! Leopoli! Niente! Poi si butta a correre: Cernovcy, Jasi, Kriscinev, Nikopol! Ma già a quest’ultimo nome sente che tutto ciò non è che schiuma, schiuma, come il pensiero: studierò. Mai più, mai più vedrà Nikopol! Indietro. Jasi! No, neanche Jasi non la vedrà più. Anche Cernovcy non la vedrà più. Leopoli! Leopoli la vedrà ancora, arriverà ancora vivo a Leopoli! Io deliro, pensa, sono pazzo, dunque dovrei morire tra Leopoli e Cernovcy! Che pazzia… Storna violentemente il suo pensiero e ricomincia a fumare e a fissare in volto la notte. Sono isterico, sono pazzo, ho fumato troppo, per notti intere, per giorni interi ho parlato, non ho dormito, non ho mangiato, ho solo fumato, e vuoi che un uomo, così, non impazzisca…?
Basterebbe la frase Fissare in volto la notte per descrivere la bellezza poetica di questo testo.
Raramente la poesie e la narrativa possono fondersi, beh, questo è uno di quei rari casi. E non sono solo le parole, i termini usati, similitudini e metafore a rendere lirica la scrittura di Böll, quanto ciò che dice e come lo dice: una scrittura evocativa al punto da essere pienamente sensoriale.
Ah, è proprio vergognoso confessare che mi sarebbe piaciuto sapere quale fronte corrispondeva a quegli occhi, quale bocca e quale petto e quali mani? Ah, sarebbe stato troppo se avessi potuto sapere che cuore ne faceva parte, forse un cuore di fanciulla? Se avessi potuto baciare una volta la bocca che rispondeva a quegli occhi, prima che mi buttassero nel più vicino villaggio, dove di colpo mi falciarono la gamba di sotto il corpo?
Era estate e la messe si stendeva dorata sui campi, steli rinsecchiti, alcuni come carbonizzati, divorati dalla calura, e nulla mi era più odioso che morire la morte dell’eroe sul campo di spighe, mi ricordava troppo una poesia, e non volevo morire come in una poesia, non volevo morire la morte dell’eroe come su un cartellone propagandistico per questa sporca guerra… eppure era proprio come in una poesia patriottica: giacevo su quel campo di grano, sanguinante e ferito e bestemmiavo, pensando che forse sarei morto, a cinque minuti di distanza da quegli occhi.
E ancora…
In ogni confine c’è qualcosa di terribilmente definitivo. Una linea, e addio. E il treno ci passa sopra come passerebbe sopra un cadavere o anche su un uomo vivo. Ed è morta la speranza, la speranza di tornare ancora una volta in Francia e di ritrovare quegli occhi, e le labbra che corrispondono a quegli occhi, e il cuore e il petto, un petto di donna, che deve corrispondere a quegli occhi. Per tutta l’eternità quegli occhi non saranno altro che occhi, non faranno più tutt’uno con corpo, abiti, capelli, con le mani, mani di donna che forse un giorno avrebbero potuto accarezzarti. Quella speranza era rimasta sempre, perché quella era una creatura umana, una creatura vivente a cui appartenevano quegli occhi: era una ragazza o una donna. Ma ora basta. Restano solo gli occhi, mai più le labbra, mai la bocca, mai il cuore, mai un cuore vivo che la tua mano avrebbe potuto sentir battere sotto una pelle delicata, mai… mai… mai.
Domenica mattina tra Leopoli e Kolomyja. Cernovcy ormai è lontanissima, quanto a Nikopol e Kiscinev. Quel “presto” si è ristretto ancora, ormai è minuscolo. Due giorni, Leopoli, Kolomyja. Sa che forse arriverà ancora fino a Kolomyja, ma assolutamente non oltre. Niente cuore, niente bocca, solo gli occhi, solo l’anima, quell’anima bella e infelice che non ha corpo; stretta tra i suoi due gomiti come una strega legata al palo prima che la brucino viva…

Man mano che si va avanti nella lettura, la scrittura di Böll diventa sempre più poetica, la sua lingua più alta, il vortice di dolore in cui ci immerge stringe le proprie spire su di noi, eppure non riusciamo a fermarci, vogliamo scendere a fondo con Andreas, siamo con lui, nella sua sofferenza. Sappiamo che non ha scampo, speriamo che ci sia una speranza, ma non ci illudiamo, no; eppure non riusciamo a smettere di camminare con lui, innamorati della sensibilità di quest’uomo: ed è proprio la sensibilità la forza della scrittura di Böll, qualità che dovrebbe essere il pilastro di ogni scrittore.
«Olina» dice sottovoce, «domattina devo morire. Sì» soggiunge calmo mentre lei lo guarda spaventata, «non aver paura! Domattina devo morire. Tu sei la prima e l’unica a saperlo. Io ne sono certo. Devo morire. Il sole è appena tramontato. Morirò poco lontano da Stryj…»
Lei salta in piedi e lo guarda inorridita. «Sei pazzo» mormora pallidissima.
«No» dice lui, «non sono pazzo, è così, devi credermi. Devi credere che non sono pazzo e che domattina morirò, e adesso devi sonarmi la sonatina di Beethoven.»
Lei lo fissa e mormora con orrore: «Ma… ma sono cose che non esistono.»
«Lo so con assoluta certezza, e tu mi hai dato l’ultima conferma. Stryj, precisamente. Questo terribile nome di Stryj. Che parola è mai questa? Perché devo morire vicino a Stryj? Perché prima era tra Leopoli e Cernovcy… poi Kolomyja… poi Stanislav… poi Stryj?
Tu hai detto Stryj, e io ho sentito subito che era là. Fermati» grida a Olina, che ha fatto un balzo verso la porta e lo guarda con occhi atterriti. «Devi restare con me» dice, «devi restare con me. Sono un essere umano e non posso sopportarlo da solo. Resta vicino a me, Olina. Forse sono pazzo. Non gridare.» Le chiude la bocca. «Mio Dio, che posso fare per dimostrarti che non sono pazzo?» Ma lei, dalla paura, non sente nemmeno le sue parole. Si limita a guardarlo con gli occhi spaventati, e a un tratto Andreas capisce quale orribile mestiere lei faccia. Se lui fosse davvero pazzo, ora lei sarebbe in suo potere, impotente. Viene mandata in una stanza e per lei pagano duecentocinquanta marchi perché è la cantante lirica, una piccola bambola molto preziosa, e lei deva andare in quella stanza come un soldato va al fronte. Deve farlo, anche se è la cantante lirica, una piccola bambola molto preziosa. Una vita tremenda.
Viene mandata in una stanza, e non sa chi c’è dentro. Un vecchio, un giovane, uno brutto o uno bello, un maiale o un puro. Lei non sa e va nella stanza, e adesso sta lì e ha paura, e dalla paura non sente ciò che lui dice. È davvero un peccato andare al postribolo, pensa Andreas. Ti mandano queste donne in una camera, come niente… Accarezza dolcemente la mano di lei, alla quale si è aggrappato, ed è strano come il terrore, adesso, vada scemando nei suoi occhi.
Continua ad accarezzarla e gli par quasi di accarezzare una bambina. Non ho mai desiderato così poco una donna come questa. Una bambina… e a un tratto rivede quella povera, piccola sporca e impiastricciata bambinetta di quel sobborgo di Berlino, che giuoca tra le baracche, dove non ci sono che miseri giardinetti, e gli altri bambini le hanno buttato la bambola in una pozzanghera… e sono scappati via. E lui si china e raccoglie la bambola dalla pozzanghera, sgocciola tutta di acqua sporca, una bambola di stoffa a buon mercato, goffa e dinoccolata, e lui deve accarezzare a lungo la bambina e consolarla che la sua povera bambola si sia bagnata… una bambina.

Personalmente, fra i tanti libri letti, trovo l’incontro fra Andreas e Olina uno dei vertici della letteratura.
Sono due solitudini che si incontrano, si sfiorano, ma non possono toccarsi: non pienamente.
Sono due condannati a morte, specchio della sofferenza umana, entrambi impotenti innanzi al destino.
Andreas ha quasi concluso il suo viaggio, ormai ne è certo, e come ultima cosa, quasi fosse una beffa, trova una compagna, non è più solo.
L’amore arriva a lui non come una grazia, ma come una condanna: una pietanza deliziosa da assaggiare appena, e poi mai più.
La sensibilità di Böll ci travolge e rende vivo Andreas, e Olina: moriamo con lui, con loro.
Questi due ultimi estratti spaccano davvero il cuore.
Ci resta tutta la notte, tutta la notte. L’ombra della sera è appena scesa sul giardino, la porta è chiusa a chiave e nulla può disturbarci; tutto il castello ci appartiene; vino e candele e un clavicembalo! Otto biglietti e mezzo senza contare i fiammiferi; milioni a Nikopol! Nikopol! Niente!… Kiscinev… Niente… Cernovcy? Niente!… Kolomyja? Niente!… Stanislav?… Niente! Stryj… Stryj… questo nome spaventoso che è come una stria, una stria sanguinosa sul mio collo! Verrò assassinato a Stryj. Ogni morte è un assassinio di cui qualcuno è responsabile.
A Stryj!
Entro danzando nel cielo con te, nel settimo ciel dell’amore!
Ma non è affatto un sogno che si spenga con l’ultima nota di questa melodiosa parafrasi: si lacera solo un velo sottile che lo ricopriva, e solo adesso, davanti alla finestra aperta, nel fresco del crepuscolo, Andreas sente di aver pianto. Non se n’è reso conto, non l’ha sentito, ma la sua faccia è bagnata, e le piccole dolci mani di Olina glie l’asciugano, i rivoletti di lacrime sono scesi lungo il suo volto e si sono raccolti, ristagnando, intorno al colletto chiuso della sua giubba militare. Olina apre il gancio e gli asciuga il collo con un fazzoletto. Gli asciuga le guance e le orbite, e Andreas è contento ch’essa non parli…
Ora è pieno di una strana, lucida gaiezza. La ragazza accende la luce, chiude la finestra volgendo la testa da una parte, e può darsi che abbia pianto anche lei. Questa casta gioia non l’ho mai conosciuta, pensa lui, mentre Olina si accosta all’armadio. Non facevo che desiderare, ho desiderato un corpo sconosciuto, e ho desiderato quest’anima, ma ora non desidero nulla… È strano che debba impararlo in un bordello di Leopoli, l’ultima sera della mia vita, sulla soglia dell’ultima notte della mia vita terrena, che domattina verrà stroncata a Stryj con una stria sanguinosa…
E ancora…
«Allora non sai cos’è l’amore. Sì» lei lo guarda, e lui a un tratto ha quasi timore di quel volto serio, appassionato, radicalmente cambiato. «Sì» ripete. «Incondizionatamente! L’amore è sempre così. Non hai» gli domanda sottovoce, «non hai mai amato una donna?»
Andreas chiude di colpo gli occhi. Sente di nuovo il suo dolore, profondo e pesante. Anche questo, pensa, anche questo le devo raccontare. Nessun segreto voglio che resti tra lei e me. Speravo di poterlo tenere tutto per me, che questo ricordo di un volto sconosciuto, questa speranza, questo dono restasse tutto mio, e che potessi portarmelo con me. Ha ancora gli occhi chiusi, e tutto tace. Trema d’angoscia. No, pensa, lasciamelo tenere. È quello che ho di più mio, e per tre anni e mezzo non ho vissuto che di questo… solo di quel decimo di secondo sulla collina presso Amiens. Perché Olina mi ha colpito così a fondo, con mano infallibile? Perché riaprire la mia cicatrice così ben protetta con una parola che mi è penetrata dentro come una sonda, la sonda di un medico infallibile…?
Mi piacerebbe davvero mostrarvi il commuovente finale di questo capolavoro, ma preferisco non rovinarvi la lettura, certo che questi meravigliosi estratti vi abbiano convinto a recuperare questo classico della letteratura, un capolavoro che da solo basterebbe a confermare il meritato Nobel conferito a Böll, uno scrittore come pochi ne sono esistiti.