Oggigiorno l’appellativo di “genio” è talmente abusato che il significato della parola stessa sembra non aver più valore. Qualsiasi campo artistico strabocca di questi cosiddetti geni, spuntano fuori come funghi, probabilmente proprio perché nel nostro tempo di geni ce ne sono davvero pochi, forse nessuno, al punto da doverli ricercare in ogni presunta novità, che sia essa semplicemente un’eccentricità nel vestiario, un dipinto dallo stile atipico, un brano di narrativa particolarmente brillante.
L’ordinario diventa geniale, la mera stravaganza una forma d’arte. Si sente la necessità che qualcosa sia geniale e si dà questo epiteto a qualsiasi cosa accattivante, forse proprio perché ciò che davvero è geniale è stato dimenticato, così come i tanti classici della letteratura che tutti conoscono ma non tutti hanno letto: la genialità conclamata è diventato un bel dipinto conosciuto da tutti per fama, ma mai osservato.
Riguardo la letteratura è davvero difficile pensare a qualcosa di geniale. Sappiamo bene che tutte le storie sono state già scritte. Certo, possono nascere piccole innovazioni, personaggi o dinamiche che appaiono nuove, ma probabilmente spulciando fra milioni di libri troveremo qualche storia simile a quella che credevamo unica. Il punto è come si racconta una storia.
Madame Bovary e Anna Karenina, se ci pensate, per trama e per dinamiche potrebbero tranquillamente essere associati a dei comunissimi romanzi rosa, eppure sono dei capolavori non solo per la loro indubbia qualità letteraria, ma per il modo di pensarli unico e irripetibile dei loro creatori: il nucleo atomico di una storia, come lo definiva lo scrittore Julio Cortázar, ossia un’immagine così potente calcificata nelle retine, nella mente e nel cuore di uno scrittore da attrarre altre immagini e creare una storia e farlo in modo unico.
Dunque il genio non è tanto colui che crea qualcosa di nuovo, ma quell’individuo capace di dire anche la più banale delle cose in un modo straordinario, al di fuori di ogni capacità comune.

Nella letteratura degli ultimi secoli quando sento la parola genio penso subito a tre nomi: Franz Kafka, Bruno Schulz ed Edgar Allan Poe.
Ce ne sono sicuramente altri, ovviamente. Esistono poi centinaia di scrittori magnifici, dei veri artisti della parola, dei maestri, come quelli di cui ho precedentemente parlato. Ma il genio è qualcosa che va al di là dell’arte, del talento, della bravura; il genio è colui che rende non solo nuovo l’ordinario, ma inimitabile e irripetibile.
Se Kafka è riuscito come nessun altro prima di lui a narrare l’inquietudine e la solitudine umana, Edgar Allan Poe ha mostrato le paure che dimorano nel cuore dell’uomo, le ha rese vive, le ha fissate lui stesso con i propri occhi e le ha sbattute in faccia al lettore.
Nato a Boston nel 1809, da subito Poe non ha avuto vita facile. Abbandonato da suo padre quando aveva solo un anno, e rimasto orfano di madre l’anno successivo, a soli diciott’anni lasciò la famiglia adottiva per arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti d’America, dove compose e pubblicò a proprie spese le prime poesie.
Infatti, seppur molti non lo sanno Edgar Allan Poe è stato autore di circa cinquanta poesie, nonché di saggi e lettere per lo più satiriche. Ci vollero però sei anni di tentativi, fra lavori faticosi e umilianti, prima che Poe venisse almeno notato da qualcuno. Nel 1833 il Baltimore Saturday Visiter assegnò a Poe un premio per il suo racconto “Manoscritto trovato in una bottiglia”, storia che lo condusse all’attenzione di John Pendleton Kennedy, un ricco abitante di Baltimora che lo aiutò a pubblicare alcuni dei suoi racconti e lo presentò al direttore del Southern Literary Messenger di Richmond. Poe diventò così assistente al montaggio del periodico, ma venne in seguito licenziato a causa del suo vizio di bere.
Negli anni d’attività editoriale collaborò con diverse redazioni, fu critico spietato e scrittore di saggi, nonché di poesie e racconti, ma non vide mai la fama, tanto che più volte mendicò ogni genere di lavoro pur di sbarcare il lunario: lavori che perdeva o non riceveva neppure, a causa del suo alcolismo.
Il 3 ottobre 1849 fu trovato delirante per le strade di Baltimora e morì cinque giorni dopo al Washington College, una morte mai chiarita, a detta dei giornali causata da una “congestione del cervello” o “infiammazione cerebrale”, perifrasi comuni per moriva d’alcolismo. Ma il perché Poe si trovasse in giro in stato di delirio, per lo più con addosso vestiti non suoi, non fu mai chiarito.

Questa breve e molto riassuntiva parentesi sulla vita di Poe non ha per nulla lo scopo di ritrarlo come un “personaggio maledetto”, semplicemente si tratta di una sintetica biografia della vita dello scrittore. A dirla tutta reputo davvero infantili coloro che attribuiscono all’alcool, alle droghe o a ogni eccesso la capacità di creare magnifiche opere artistiche. Anzi, l’alcool e la povertà furono certo nemici contro cui Poe si trovò a combattere, perché non è facile scrivere in stato di ebbrezza alcolica, né tanto meno in situazioni di disagio economico. Lo dimostra infatti l’aver scritto due soli romanzi: Storia di Arthur Gordon Pym (The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket, 1838), e l’incompiuto Il diario di Julius Rodman (The Journal of Julius Rodman, 1840); questo perché la scrittura di un romanzo richiede condizioni di lucidità (almeno parziale) e non è agevolata da ciò che le difficoltà economiche possono comportare.
Eppure, forse proprio per la natura del suo respiro creativo, Poe ha dato la luce a circa 70 racconti, tutti in seguito reputati veri capolavori della letteratura.
Il genio di Poe non era frutto dei suoi eccessi, ma talmente forte da resistere a essi. D’altra parte nei racconti di Poe è ben chiara la sua angoscia, i suoi tormenti, i suoi incubi; non per niente è reputato il maestro del terrore. La sua sintesi è perfetta, eppure le parole di Poe sembrano dilatarsi formando una spirale di pagine, tanto che dopo aver letto un suo racconto si resta sorpresi nell’accorgersi che quel baratro infinito d’angoscia in cui ci ha precipitati è frutto di cinque, sei, massimo una decina di pagine.
Questo miracolo è dovuto a una chiara e matura consapevolezza del Nucleo Atomico della propria storia. Poe aveva vivida davanti a sé la sua immagine di controllo, quella visione primordiale da cui prendeva vita una sua storia, ed era geniale nel riportarla a noi perché ossessionato da essa, da quella vicenda che aveva il bisogno carnale di mostrare così come l’aveva vista.
Con Poe l’ordinario diventa spaventoso, proprio perché è capace di condurci appieno nella sua visione, e lo fa con onestà, senza trattenersi né cercare di stupirci, semplicemente narrando ciò che aveva in mente.
Il racconto che sto per riportarvi, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death 1842), narra di una pestilenza che colpisce una contrada; un argomento ampiamente abusato nella storia della narrativa, basti pensare a I promessi sposi del maestro Alessandro Manzoni. Eppure Poe è riuscito a raccontare di questo tema come nessun altro.
Sfido chiunque a non restare angosciato nel leggere questo racconto.

Da tempo la “Morte rossa” devastava il paese. Mai epidemia era stata più fatale o più spaventosa. Il sangue era la sua manifestazione e il suo suggello, il rosso e l’orrore del sangue. Essa appariva con dolori acuti, uno stordimento improvviso, poi un sanguinare diffuso dai pori, infine sopravveniva la dissoluzione. Le macchie scarlatte sul corpo e soprattutto sul volto delle vittime rappresentavano il marchio della pestilenza che precludeva ai colpiti ogni aiuto e ogni comprensione da parte dei propri simili. E l’attacco, il progredire e la conclusione del male si risolvevano nello spazio di mezz’ora.
Ma il principe Prospero era una creatura felice, indomabile e preveggente. Quando le sue terre furono a metà spopolate, egli radunò al proprio cospetto un migliaio di amici sani e spensierati scelti tra i cavalieri e le dame della sua corte, e con costoro si ritirò nell’inviolato isolamento di una delle tante sue abbazie merlate. Era una costruzione enorme, splendida, creata dal gusto eccentrico e sfarzoso del principe in persona. Un muro forte e altissimo la circondava. Questo muro era munito di cancelli di ferro.
Appena furono entrati, i cortigiani presero incudini e martelli massicci e saldarono le serrature. Erano decisi a non lasciare alcuna possibilità di entrata o di uscita agli improvvisi scatti di disperazione o di demenza che potevano nascere all’interno.
La fortezza era ampiamente fornita di viveri, e con tante precauzioni i cortigiani potevano permettersi di sfidare il contagio. Che il mondo esterno pensasse a se stesso: nel frattempo era follia addolorarsi o pensare. Il principe si era preoccupato di provvedere a tutti i mezzi di divertimento: vi erano buffoni, improvvisatori, ballerini, musicanti, vi era la Bellezza, vi era il vino. Tutte queste cose e la sicurezza regnavano là dentro: fuori infuriava la “Morte Rossa”.
Fu verso il finire del quinto o del sesto mese del proprio isolamento, e mentre la pestilenza fuori era al colmo della sua virulenza, che il principe Prospero decise di offrire ai suoi mille amici un ballo mascherato d’insolito splendore.
Fu uno spettacolo d’inaudita raffinatezza, questa mascherata; ma desidero descrivere le stanze in cui essa si svolse. Ve n’erano sette, che formavano un unico maestoso appartamento. In molti palazzi, quando i battenti delle porte sono spalancati, simili serie di stanze formano una veduta lunga e diritta, in modo da permettere di abbracciare tutta l’estensione dell’appartamento con una sola occhiata. Qui però la cosa era molto diversa, com’era facile aspettarsi dall’amore del duca per il bizzarro. Le camere erano disposte in modo talmente irregolare che lo sguardo stentava a comprenderne poco più di una alla volta. A ogni venti o trenta metri vi era una svolta brusca, e a ogni svolta l’effetto era diverso. A destra e a manca, nel mezzo di ciascuna parete, un’alta e slanciata finestra gotica dava su un corridoio chiuso che assecondava le tortuosità dell’appartamento. Queste finestre erano di vetro colorato e il loro colore variava secondo la tinta predominante delle decorazioni della stanza entro la quale ciascuna finestra si apriva. La stanza sull’estremo lato orientale era drappeggiata per esempio di turchino; e di un turchino intenso erano le finestre. La seconda stanza aveva gli ornamenti e le tappezzerie purpuree, e purpuree pure erano le invetriate. La terza stanza era tutta verde, e altrettanto le finestre. La quarta era arredata e illuminata in colore arancione, la quinta di bianco, la sesta di violetto. La settima stanza era pesantemente avvolta in panneggi di velluto nero che pendevano ovunque dal soffitto e dalle pareti, cadendo in pesanti pieghe su un tappeto della stessa stoffa e colore. In quest’unica stanza, però, la tinta delle finestre non corrispondeva alle decorazioni. Le invetriate erano di colore scarlatto, di un sanguigno cupo.
Ora, in nessuna di quelle sette stanze vi era una sola lampada o candelabro, pur tra la profusione di ornamenti dorati sparsi qua e là o pendenti dai soffitti. Nessuna luce di nessun genere vi era che emanasse da lampada o candela entro la fuga di stanze, ma nei corridoi che ne accompagnavano i serpeggiamenti era appoggiato, di contro a ciascuna finestra, un pesante tripode reggente un braciere acceso, il cui fuoco proiettava i suoi raggi attraverso il vetro istoriato da cui la stanza era in tal modo vividamente illuminata. Questo produceva un’infinità di immagini variopinte e fantastiche. Ma nella stanza nera, quella occidentale, l’effetto della luce e del fuoco che si diffondeva sui neri panneggi attraverso le invetriate tinte di sanguigno era spettrale all’estremo, e produceva sulle fisionomie di coloro che vi entravano un’apparenza talmente irreale che pochi tra gli ospiti dell’abbazia avevano l’ardire di porre piede in quel locale.
In questa stanza vi era pure, poggiato contro la parete occidentale, un gigantesco orologio d’ebano. Il suo pendolo oscillava innanzi e indietro con un brusio sordo, cupo, monotono; e allorché’ la lancetta dei minuti compiva il giro del quadrante, e l’ora batteva, proveniva dai polmoni di bronzo dell’orologio un suono chiaro, e forte, e profondo, e straordinariamente musicale, ma così stranamente accentuato, che allo scoccare di ogni ora, i musicanti dell’orchestra erano costretti ad arrestarsi per un attimo durante l’esecuzione dei loro pezzi e ad ascoltare quel suono; così anche le coppie danzanti cessavano forzatamente le loro evoluzioni, e in tutta la gaia compagnia subentrava come un breve smarrimento, e mentre ancora echeggiavano i rintocchi dell’orologio si poteva notare che i più storditi impallidivano e i più vecchi e tranquilli si passavano una mano sulla fronte in un gesto di confusa fantasticheria e meditazione. Ma non appena quei rintocchi tacevano, subito tutti erano pervasi da un lieve riso; i musicanti si guardavano tra loro e sorridevano quasi a beffarsi del proprio nervosismo e della propria esitazione, e sussurrando si ripromettevano gli uni agli altri che il prossimo scoccare della pendola non li avrebbe più sorpresi e scossi a quel modo; ma quando al termine di sessanta minuti (un periodo che comprende tremilaseicento secondi del Tempo che fugge) di nuovo si udivano i rintocchi dell’orologio, ecco che quello stesso smarrimento e incertezza e concentrazione s’impadronivano degli astanti.
Nonostante ciò, la festa era gaia e splendida. I gusti del duca erano raffinatissimi. Egli possedeva una conoscenza sagace dei colori e degli effetti.
Disprezzava i decori dettati semplicemente dalla moda. I suoi progetti erano audaci e bizzarri, e le sue ideazioni splendevano di sfarzo barbarico. Forse qualcuno avrebbe potuto giudicarlo pazzo, ma così non lo ritenevano i suoi seguaci: bisognava ascoltarlo e udirlo e vivergli dappresso per essere certi che non lo fosse.
Era stato lui a dirigere personalmente gran parte degli abbellimenti temporanei delle sette stanze in occasione di quella grande festa, ed era stato il suo gusto personale a conferire carattere alle maschere. Erano certamente maschere grottesche. Sfavillanti e luccicanti, erano provocanti e fantastiche; assomigliavano a molto di quel che poi si è veduto nell’Ernani. Alcune di queste maschere erano figure d’arabesco con membra e ornamenti strampalati.
Altre parevano le fantasie deliranti di un pazzo. Molte altre ancora erano bellissime, molte capricciose, molte bizzarre, alcune terribili, e non poche avrebbero potuto suscitare disgusto. In realtà nelle sette stanze si avvicendavano senza posa miriadi di sogni. E questi sogni si torcevano qua e là assumendo colore nelle stanze e provocando la sensazione che la musica ossessionante dell’orchestra non fosse che l’eco dei loro passi. Ed ecco che ancora la pendola d’ebano, nella sala del velluto, batte le ore. Ed ecco che ancora per un attimo tutto è immobilità e silenzio, tranne la voce dell’orologio. I sogni s’irrigidiscono e si raggelano nel punto in cui stavano volteggiando, ma gli echi della suoneria muoiono lontani, non sono durati che un istante, e un riso sommesso, leggero, fluttua e l’insegue mentre essi si dileguano. Ed ecco che la musica si rinturgidisce, e i sogni rivivono, e nuovamente si contorcono ancora più gai di prima, colorandosi ai riflessi delle finestre variopinte attraverso cui si rifrange in mille raggi il bagliore dei tripodi. Ma verso la camera più occidentale delle sette nessuna maschera osa ora avventurarsi; poiché la notte sta ormai trascolorando, e dalle invetriate sanguigne si irradia una luce più rossiccia, e la cupezza degli scuri drappeggi sgomenta, e a colui il cui piede si posa sul nero tappeto giunge dal vicino orologio d’ebano un rintocco smorzato, più solenne, più veemente, di quanto possa giungere agli orecchi di coloro che si abbandonano al piacere e alla gaiezza nelle stanze più lontane.
Ma queste altre stanze erano fittamente affollate, e in esse il cuore della vita pulsava febbrilmente. E la festa proseguì turbinosa, sinché’ all’orologio incominciarono i primi rintocchi della mezzanotte. E la musica cessò, come ho detto, e le evoluzioni dei ballerini s’interruppero, e come prima vi fu un inquieto arresto di ogni cosa. Questa volta però alla pendola stavano scoccando dodici colpi, e così fu forse che un pensiero più articolato, con più tempo, poté’ insinuarsi nelle menti dei più riflessivi fra coloro che facevano baldoria. E questo fu forse anche il motivo per il quale prima che gli ultimi echi dell’ultimo rintocco si perdettero e si smorzassero nel silenzio, più d’uno tra la folla ebbe modo di avvertire la presenza di una figura mascherata che sino a quel momento non aveva attratta l’attenzione di nessuno. Ed essendosi rapidamente diffusa all’intorno in un sussurro la voce di questa nuova presenza, si levò alfine da tutta la compagnia un fremito, un mormorio, dapprima di disapprovazione e di sorpresa… e infine di spavento, di orrore, di disgusto.
In un’accolta di fantasmi quale io ho descritto è facile immaginare che un’apparizione normale non avrebbe certamente suscitato tanto scompiglio. In realtà la licenza sfrenata di quella notte non aveva quasi limiti, ma la figura in questione avrebbe superato in crudeltà fantastica lo stesso Erode, e aveva persino oltrepassato i confini pure immensi della stravaganza del principe. Anche i cuori degli esseri più sfrenati hanno corde che non possono essere toccate senza che vibrino di emozione. Anche per gli esseri più perduti, per i quali la vita e la morte sono ugualmente motivo di beffa, esistono cose di cui non è possibile beffarsi. Tutti gli astanti insomma sentivano ormai acutamente che nel costume e nel portamento dello straniero non vi erano ne’ spirito ne’ decenza. La figura era alta e scarna, e avvolta da capo a piedi nei vestimenti della tomba. La maschera che ne nascondeva il viso era talmente simile all’aspetto di un cadavere irrigidito che anche l’occhio più attento avrebbe stentato a scoprire l’inganno. Eppure tutto ciò avrebbe potuto essere sopportato, se non approvato, dai gaudenti forsennati che si aggiravano per quelle sale: ma il travestimento aveva spinto tant’oltre la sfrontatezza da assumere le sembianze della “Morte Rossa”. Le sue vesti erano intrise di sangue, e la sua vasta fronte e tutti i lineamenti della sua faccia erano spruzzati dell’orrore scarlatto.
Allorché’ gli occhi del principe Prospero caddero su questa spettrale immagine (che con movimenti tardi e solenni, come per meglio sostenere il proprio ruolo si aggirava tra i danzatori) lo si vide contorcersi, a un primo momento, in un lungo brivido forse di terrore, forse di disgusto; ma subito dopo la sua fronte si invermigliò di collera.
«Chi osa?» domandò con voce rauca ai cortigiani che lo attorniavano. «Chi osa insultarci con questa irrisione sacrilega? Prendetelo e smascheratelo, affinché’ possiamo sapere chi impiccheremo all’alba ai merli del nostro castello!».
Quando proferì queste parole il principe Prospero si trovava nella stanza turchina, ovvero la stanza orientale. Esse rimbombarono alte e chiare per tutte le sette stanze, poiché’ il principe era un uomo vigoroso e forte, e a un cenno della sua mano la musica si era taciuta.
Nella stanza turchina stava il principe attorniato da un gruppo di cortigiani pallidi. A tutta prima, non appena egli ebbe parlato, questo gruppo ebbe un lieve moto irrompente in direzione dell’intruso, il quale in quell’attimo si trovava pure vicino, e ora con passo solenne e deciso si approssimava ancor più al principe. Ma per un misterioso innominato terrore che l’aspetto pauroso della maschera aveva ispirato a tutti i presenti, nessuno osò stendere una mano per afferrarla, cosicché’ lo sconosciuto poté’ passare a un metro di distanza dalla persona del principe senza che alcuno lo trattenesse, e mentre la folla, come colta da un unico subitaneo impulso, si ritraeva dal centro delle stanze verso le pareti, egli proseguì indisturbato nel proprio cammino, ma sempre con quel passo maestoso e misurato che lo aveva distinto sin dal primo momento, attraverso la stanza turchina a quella purpurea, dalla stanza purpurea alla verde, dalla stanza verde alla stanza arancione, e poi alla bianca, e da questa si spinse persino nella stanza violetta, prima che venisse fatto un movimento risoluto per fermarlo. Fu allora però che il principe Prospero, accecato di collera e vergognoso per la propria momentanea codardia, si precipitò attraverso le sei stanze, non seguito da alcuno, a causa del terrore mortale che aveva raggelato tutti quanti i presenti. Impugnava alta sul capo una spada sguainata, e si era avvicinato, rapido, impetuoso, a pochissimi passi dalla figura che retrocedeva, quando questa, giunta all’estremità della stanza di velluto, si volse bruscamente e affrontò il proprio inseguitore. Si udì un grido lacerante, e la spada si abbatte’ in uno sfavillio sul nero del tappeto, sopra il quale, un attimo dopo, cadde prostrato nella morte il principe Prospero. Allora, raccogliendo in se’ il folle coraggio della disperazione, un gruppo di gaudenti si precipitò nella stanza nera e afferrò il travestito, la cui alta figura stava eretta e immobile entro l’ombra della pendola d’ebano, ma un gemito di indicibile orrore uscì dai loro petti quando essi si accorsero che le vesti funerarie e la maschera cadaverica che avevano strette con tanta violenta rudezza non contenevano alcuna forma tangibile.
E allora tutti compresero e riconobbero la presenza della “Morte Rossa”, giunta come un ladro nella notte, e a uno a uno i gaudenti giacquero nelle sale irrorate di sangue delle loro gozzoviglie, e ciascuno morì nell’atteggiamento disperato in cui era caduto. E la vita della pendola d’ebano si estinse con quella dell’ultimo dei cortigiani festosi. E le fiamme dei tripodi si spensero. E
l’Oscurità, la Decomposizione e la Morte Rossa regnarono indisturbate su tutto.

Un racconto così breve, eppure sembra composto di spire che ci avvolgono, ci soffocano. La situazione iniziale è immediata e crudele. La descrizione della stanza ci porta così addentro in un incubo che da subito, ancor prima della comparsa della Morte Rossa, durante la festa, tremiamo, e quando lei appare ci sale il cuore in gola, siamo terrorizzati assieme ai personaggi e come i loro cuori anche il nostri si arresta appena la Morte Rossa si rivela.
Compiere tutto questo, e farlo in così poche pagine, va al di là della bravura narrativa o del talento artistico; fare questo significa essere geniali, capaci di tramutare un incubo in realtà.
Avrò letto credo cinquanta volte questo racconto, eppure ogni volta mi sorprende.
Spero presto di darvi un altro assaggio della maestosità di questo genio della letteratura.