Edito da Linea Edizioni nel novembre del 2021, Piciul è il primo romanzo che ho pubblicato dopo il mio percorso di studi presso Lalineascritta. La prefazione è stata scritta dalla mia maestra di scrittura creativa, Antonella Cilento, e la sua uscita è stata anticipata da un generoso articolo su La Repubblica.
Distribuito da Messaggerie è ordinabile presso tutte le librerie fisiche o negozi online.
Piciul narra le vicende di cinque adolescenti rumeni che vivono nei vicoli a ridosso della Stazione Centrale di Napoli: Horia, Blanca, Damin, Vali e Dorin; cinque ragazzini cresciuti insieme tra emarginazione, delusioni, dolori ma anche sogni.
Forse, come ha scritto Antonella nella sua prefazione: un punto di vista diverso su una Napoli fin troppo raccontata.
Di seguito un piccolo estratto.
Da sei ore Horia aveva lo sguardo chino su una piallatrice
a nastro. Non si era seduto un attimo, ma le gambe non gli
facevano male: nemmeno le sentiva più. Persino la puzza di
vernice, di colla, di segatura e di sudore attorno a lui gli era
ormai indifferente. Spingeva una trave di legno dopo l’altra,
come ogni giorno. I trucioli gli volavano sul viso, li avrebbe
ingoiati se non fosse stato per la mascherina che indossava.
Trave dopo trave pensava solo ai soldi che avrebbe por-
tato a casa da sua madre.
Alle sue spalle cataste di pannelli di legno formavano un
labirinto alto fino al soffitto. Il sibilo delle seghe a nastro,
il tonfo delle pialle a filo e il frastuono di un’arrugginita
radiale trifase detta ‘A Zoccola creavano un unico, pesante
e denso suono.
Due anni prima ‘A Zoccola aveva tagliato tre dita a un
operaio. Horia all’epoca aveva quattordici anni e ancora
non lavorava lì.
Quella era solo una delle tante storie che in fabbrica si
raccontavano, una ripetizione infinita, senza sosta. Ogni
giorno parole e gesti uguali, come le persone attorno a lui,
tutti con addosso la stessa tuta blu.
La folla di corpi, l’uniformità delle facce, le voci sovrastate dal trambusto dei macchinari, il frastuono così ripetitivo da somigliare al silenzio.
Una sirena squarciò ogni rumore, la fabbrica parve rallentare come un esercito di pupazzi dalle batterie scariche.
Horia si tolse le cuffie e le poggiò sulla combinata a filo
accanto a lui. I macchinari ora sibilavano lenti. Gli operai
si allontanavano in gruppo, chiacchieravano e ridevano.
«Chist anno ‘o Napoli ‘o vence sicuro ‘o scudetto.»
«Stasera muglierema ha fatto ‘o spezzatino cu ‘e patane.»
«Ma ‘e visto ajere a Belen? Quant’ è bona!»
Horia si passò uno straccio sul viso, polvere e trucioli volarono sul suo camice. Superò una catasta di pannelli di legno e a sguardo basso avanzò in un corridoio che conduceva agli spogliatoi. La tenue luce di un neon illuminava mura scrostate, camici sporchi e volti sudati. Nessuno gli rivolse la parola, quando lo facevano era solo per deriderlo o insultarlo.
«Ma overamente tieni sedici anni? Oh Gesù! Cu’ chella fac-
cia par’ nu’ criaturo.»
Persino lì dentro il suo nomignolo l’aveva seguito: Piciul, fanciullo. Horia aveva otto anni quando Damin, il suo migliore amico, l’aveva battezzato così.
«Con ‘a tua faccia pulita par’ nu muccuso.»
Dopo avevano fatto a pugni.
Ormai Horia non se ne curava più di quel nome, gli si
era incollato addosso, come la polvere sul suo viso.
«Piciul!»
Piciul si voltò di scatto. Un uomo grande e grosso, dalla
barba ispida e le braccia villose, avanzava verso lui.
Gli parve di vedere suo padre quando rincasava da
quella stessa fabbrica, sempre arrabbiato, addosso una tuta
identica alla sua.
Era Capasso, uno dei mastri.
Gli si fece sotto, faccia a faccia.
«Dimane ‘o bbuo’ fa’ ‘o straordinario ‘e matina?»
Piciul non aveva il coraggio di guardarlo in viso, proprio
come quando incrociava suo padre.
«Mi spiace, ma domani devo andare per forza a scuola,
che non ci vado da tre giorni.»
Un sorriso rigò il volto di Capasso.
«E che ‘nce vaje affa’ ‘a scola? Ca nun ce sta fatica pe’ nuje,
figurammece pe’ ‘e rumeni comme ‘a te.»
Piciul era stanco di dire d’essere nato in Italia e che sua
madre era italiana, tanto per tutti era rumeno e basta.
«Posso restare qualche ora in più la sera.»
«Nun me ne faccio nu’ cazzo d’ ‘o straordinario ‘e sera.»
Capasso affondò la mano nella tasca e tirò fuori dei soldi.
«Ringrazia ‘o patatern ca patet fatica ca’ a quasi dieci
anni.»
Erano meno soldi del solito, ma Piciul li prese senza obiettare, sapeva di non avere scelta. Pensava solo a sua madre, Ada. La immaginava in casa ferma ai fornelli, dopo una giornata passata a lavare le scale dei palazzi, martoriata dalla tosse, pallida e con gli occhi tristi.
L’avrebbe aiutata a cambiare vita, sì.
Capasso andò via. Piciul entrò negli spogliatoi e si cambiò in fretta. Alcuni di quelli che avevano cominciato il turno con lui erano già vestiti, altri uscivano con addosso ancora la tuta da lavoro. Tutti ridevano e scherzavano fra armadietti sfasciati che puzzavano di sudore, tranne lui.
Era entrato in fabbrica con la luce del sole e ora ne usci-
va con il cielo buio.
I lampioni e i fari delle auto a malapena illuminavano la
strada. Da un lato miseri palazzi e stabilimenti avvolti dal
fumo, dall’altro un reticolato di ferro arrugginito seguiva i binari della ferrovia. Fuori da una pompa di benzina dismessa, in un’auto parcheggiata un trans si rifaceva il trucco e cantava canzoni napoletane.
Svoltò l’angolo, si strinse nel giubbotto e raggiunse
Piazza Garibaldi.
Un cielo di cemento sovrastava la Stazione Centrale.
Su di un muretto due tizi dal viso sporco mangiavano riso
al pomodoro in contenitori di alluminio, un marocchino
beveva vino in cartone e una vecchia avvolta da una lercia
trapunta contemplava i propri piedi penzolare.
Passò davanti alle porte a vetro della stazione, gli ultimi
viaggiatori uscivano trascinando trolley. A terra, avvolti in luride trapunte, dormivano barboni dai volti gonfi e arrossati.
Lasciò la stazione e si addentrò nella piazza. Superò il fast food arabo Istanbul, ai suoi tavolini dei negri affondavano le mani in ciotole di riso e pollo, altri mangiavano banku bollente.
Incrociò lo sguardo di una giovane prostituta che usciva
dal Jolly Hotel, gli parve di vedere Blanca, i grandi occhi
color nocciola, l’aria sempre pensierosa, la testa china sui
libri. «Dovresti leggere di più, cretino.»
Guizzò oltre la statua di Garibaldi e svanì nel labirinto
di vicoli della Duchesca: ovunque c’era puzza di rifiuti, le finestre dei palazzi erano quasi tutte buie, i portoni arrugginiti o sfondati.
Svoltò di vicolo in vicolo, fino a fermarsi, ansimante,
davanti a un vecchio edificio.
Alzò lo sguardo e si scostò i capelli biondi dal viso.
Fra i vestiti appesi ai fili di ferro brillava una finestra.
Blanca era lì: le gambe nel vuoto, i capelli al vento.
Piciul si appoggiò a una macchina, gli occhi fissi su Blanca.
Per un attimo sorrise.