Perché scriviamo?

Cosa spinge una persona a scrivere narrativa? Quale strano, folle meccanismo si innesca nella testa di chi decide di scrivere una storia?

Molti esordiscono con frasi del tipo: «Sentivo di avere qualcosa da dire!». Altri ancora, illusi, credono che la scrittura sia un modo per raggiungere il successo, mentre alcuni pensano addirittura di arricchirsi.

Kafka ci risponde in modo chiarissimo: è l’inquietudine!

Franz Kafka, nato a Praga nel 1983, e morto appena nel 1924. Ritenuto oggi uno dei più grandi scrittori di fine e inizio novecento, non ha mai avuto fama in vita. Ha lavorato sempre come impiegato, ha visto la pubblicazione di appena qualche racconto. Eppure, come sappiamo, ha scritto tanto, tantissimo, purtroppo meno di ciò che abbiamo di lui, perché distrusse circa il 90% del proprio lavoro.

Genio o follia? Io la chiamo semplicemente ossessione, ed è appunto questa ossessione che fa nascere il bisogno di scrivere: non di dire qualcosa, ma di fissare un’inquietudine.

Gli ambienti claustrofobici, l’oppressione di un sistema sociale a dir poco matematico, la continua associazione fra uomo e bestia, svelano in tutto le fobie di Kafka: uomo che aveva in odio il proprio corpo, infelice per la propria posizione sociale, ossessionato dal sesso ma al tempo stesso ritenuto qualcosa di disgustoso, il forte conflitto con la figura paterna e l’ossessione di apparire disgustoso agli occhi della gente: tutti temi che troviamo nei suoi scritti, quei pochi che fortunatamente ci sono rimasti. Ed è appunto inquietante la sua scrittura, ossessiva, volutamente ridondante. Chi legge Kafka, nonostante i periodi lunghi e spesso ripetitivi, l’assenza totale di lirica e la narrazione diretta, non riesce a smettere di andare avanti nella lettura, trascinato in un gorgo che è la stessa ossessione dell’autore messa su carta.

Lo sentiamo vicino perché lui si sta denudando, seppur trasfigurandosi del tutto in personaggi o addirittura cose molto lontane da lui.

Oggi leggo di tanti aspiranti autori che si preoccupano dello show don’t tell o altri aspetti tecnici che, per carità, sono importantissimi, ma nel farlo tralasciano il vero cuore della scrittura: cosa mi inquieta al punto da doverlo immortalare sulla carta?

Ciò non vuol dire “scrivere di pancia” o “di cuore”, termini romantici che vanno benne per gli scrittori improvvisati, ma vuol dire scrivere costantemente, con dedizione e responsabilità, con sacralità, come faceva Kafka.

Se non c’è un’inquietudine forte a spingerci, la nostra scrittura risulterà scialba, e non ci sarà trama o intreccio che tenga.

La semplice storia di un uomo che si sveglia come uno scarafaggio e passa tutta la propria vicenda in una casa, basterà a schiacciare centinaia di pagine piene di colpi di scena.

L’attacco de La Metamorfosi di Kafka è infatti uno dei più forti della letteratura del novecento.

“Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto immondo”.

Una situazione immediata, un punto di rottura istantaneo che sembra inverosimile, eppure scritto con una tale semplicità da sembrarci reale.

Gregor Samsa si sveglia tramutato in un immondo scarafaggio. Punto. È così. È la realtà. Non c’è altro da dire, perché nulla è più inquietante di questo. Né ci viene mai detto cosa sia successo.

Come non ricordare che poco prima abbiamo detto che Kafka temeva di essere visto dalla gente come un mostro?

E dove si svolge la vicenda? In un ambiente domestico, nella casa in cui Gregor vive con suo padre, sua madre e sua sorella Grete.

Ma cosa succede a Gregor quando si accorge della sua situazione?

Come prima cosa ha paura di far tardi a lavoro.

Grottesco?

Beh, ricordate che Kafka ha lavorato quasi tutta la vita come impiegato?

È l’uomo bestia che vediamo, solo seppur circondato dalla società, proprio come nel racconto La tana, e in parte nel racconto Il digiunatore. Un argomento costante nella scrittura di Kafka: l’uomo e la società; in questo caso la società intesa come famiglia.

Ben presto, infatti, Gregor, resosi conto della sua nuova condizione, ancora preoccupato per il ritardo a lavoro, si trova ad affrontare un nuovo problema: la sua famiglia!

La madre va a chiamarlo perché, insolitamente, è in ritardo, ma lui non sa cosa fare, si accorge subito di non riuscire neppure a comunicare con la propria famiglia: emette solo piccoli e disgustosi versi.

Visto dalla famiglia, prima che questi si accorgano che quella bestia immonda è Gregor, è scacciato con violenza, più di tutti dal padre.

Anche qui, come in tutto il racconto, torna un’inquietudine di Kafka: la figura paterna. Infatti, Gregor, rinchiuso nella propria stanza, sfamato dalla sorella, ha come pena principale il non poter più badare economicamente alla propria famiglia. Si danna per questo, mentre nemmeno si accorge come la sua situazione di bestia sovrasti sempre più quella di essere umano, lasciando in lui comunque una lucida coscienza che lo rende partecipe di quanto gli succede.

La famiglia sta cadendo in miseria a causa sua. Lui è ormai un peso. Persino sua sorella adesso ne prova disgusto. Suo padre arriva addirittura a ferirlo gravemente, mentre questi prova solo a uscire dalla stanza.

Gregor muore fissando il cielo al di là della finestra: la libertà a lui negata.

«E adesso?»  si  chiese  Gregor,  guardandosi  attorno  nel  buio.  Ben  presto  scoprì  che  non  riusciva  più assolutamente a muoversi: non ne fu stupito, anzi gli parve incredibile di essersi potuto muovere finora su quelle esili gambette.  Tutto  sommato,  si  sentiva  discretamente.  Certo,  ogni  parte  del  corpo  gli  dolorava,  ma  era  come  una sofferenza  che s’indebolisse man mano e alla fine scomparisse del tutto. Non si accorgeva neppure della mela marcia che gli stava conficcata nella schiena, né dell’infiammazione circostante, tutta coperta di morbida polvere. Con amore commosso  ripensò  ai  suoi  familiari.  Della  necessità  della  propria  scomparsa  era  convinto,  se  possibile,  ancor  più fermamente della sorella. Rimase in quello stato di vacua e tranquilla riflessione finché l’orologio del campanile suonò le  tre  del  mattino;  vide  ancora  dalla  finestra  cominciare  a  sbiancarsi  ogni  cosa,  poi,  senza  esserne  cosciente,  chinò definitivamente il capo e dalle narici esalò fievole l’estremo respiro.

Poi viene gettato via, appunto come un insetto.

La Metamorfosi, come l’opera tutta di Kafka, è pregna dei suoi traumi, delle sue ossessioni, eppure si dilata in un ambiente sociale che lui addita senza giudicarlo apertamente, lasciando che siano i fatti ad accusarlo come spietato e gelido.

Oltre La Metamorfosi, lampante esempio di come le inquietudini di Kafka siano riversate sulla pagina, è Il processo, romanzo in cui non ci viene detto neppure il cognome del protagonista, chiamato solo come Josef K.

Qui, come in La Metamorfosi, la rottura della prima norma è immediata.

Qualcuno doveva aver calunniato Josek K. perché una mattina, pur non avendo fatto niente di male, fu arrestato.

Come in La Metamorfosi, anche qui ci troviamo davanti a un fatto assurdo.

Perché K. è stato arrestato?

Ma la cosa più assurda è che si trova in camera sua, sorvegliato da due uomini che stanno nella stanza accanto, e li resterà per tutto il tempo del processo: potrà lavorare, occuparsi delle sue faccende quotidiane, ma è pur sempre sotto processo. E questo processo ha come aula l’intera città, fatta di sottoscala, appartamenti adibiti a tribunali, gente rinchiusa in minuscole stanze ad attendere una sentenza che forse non arriverà mai, eppure angosciati dal terrore di essere sotto processo.

Per tutta la vicenda, Josef K. non conoscerà la propria colpa, come di Gregor Samsa nessuno saprà mai il perché della sua mutazione.

K. cercherà ovunque una spiegazione, ma troverà solo persone spaventate, figure eteree, nemici che si celano dietro le più ordinarie figure della burocrazia. Una società fatta di gerarchie ben definite, mondi nei mondi, proprio come quello in cui ha vissuto Kafka e in cui viviamo noi.

K. ha una sola possibilità: attendere l’esito di questo enorme processo di cui neppure conosce l’imputazione, oppure dannarsi per cercarne la causa: causa che non troverà, come noi non sappiamo perché viviamo, e spesso soffriamo.

Lampanti i riferimenti alla vita da impiegato di Kafka, al suo sentirsi ovunque un estraneo, sotto accusa.

Volutamente non ho riportato che due estratti in questo articolo, perché Kafka va letto tutto, non una sola sua parola va trascurata; e non perché esse siano affascinanti, affatto! Ma perché la scrittura di Kafka è formata da un insieme di squame che formano una grossa serpe capace di attanagliare il lettore.

Se volessimo paragonare le frasi altisonanti di tanti autori contemporanei alla scrittura di Kafka, di certo un lettore di cattivo gusto resterebbe colpito dalle seconde, non capendo le prime, questo perché Kafka non ha mai scritto con l’intento di affascinare, ma per bisogno: il bisogno di un’inquietudine che urlava in lui.

Senza questo è inutile scrivere.

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