Narrare l’inquietudine: hamsun prima ancora di kafka

Come nel caso del precedente articolo su Giuseppe Pontiggia, anche adesso provo una certa tristezza pensando che l’autore di cui sto per parlare, benché vincitore del Nobel per la letteratura nel 1920, sia meno conosciuto di tanti scrittori commerciali che, con tutto il rispetto, non hanno neppure una briciola del suo talento.

L’autore in questione è Knut Hasmsun, scrittore norvegese nato nel 1859 e morto nel 1952.

Sono infatti convinto che molti fra voi non conoscono questo colosso giunto alla ribalta con l’opera Markens Grøde (Il risveglio della terra), romanzo pubblicato nel 1917 a cui Hamsun deve la vittoria del Nobel per la letteratura nel 1920.

Prima di allora Hamsun ha scritto tanto e con costanza. Di famiglia povera, fra diversi e umili lavori si è avvicinato alla scrittura a diciassette anni. Ha viaggiato molto, trascorso diversi anni in America, per stabilirsi infine nel 1918, insieme alla sua seconda moglie Marie Andersen, in una vecchia tenuta tra Lillesand e Grimstad dove ha continuato a scrivere, fra un viaggio e un altro.

Dico questo solo per farvi notare come la vita di Hamsun non sia stata facile e che, essendo la sua passione per la scrittura iniziata nel 1876, a diciassette anni dalla sua nascita, ha dedicato quarantun anni alla scrittura prima di arrivare al Nobel nel 1920. Ma il successo lo deve al suo capolavoro Fame, romanzo pubblicato nel 1890, che lo consacra come autore di fama internazionale.

A detta di molti il suddetto romanzo ripercorre per stile le opere di Kafka, e potrebbe essere vero, se non fosse che Fame è stato appunto pubblicato nel 1890, mentre Kafka è nato nel 1883 e ha pubblicato le prime opere nel 1908.

Dunque difficile che Hamsun sia stato influenzato da Kafka, anche se le similitudini fra i due sono molte.

Comunque, tornando a Fame, il libro narra le vicende di uno scrittore di cui mai ci sarà detto il nome, sappiamo solo che vive a Christiania (l’attuale Oslo), immediatamente capiamo che è povero e ci appare quasi folle.

A quel tempo ero affamato e andavo in giro per Christiania, quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni…

Ero coricato, sveglio, nella mia soffitta: sotto di me una pendola sonava le sei. Era già piuttosto chiaro. Sulle scale si sentiva una certa animazione. In basso, accanto alla porta, dove la parete era tappezzata con vecchi numeri del «Morgenbladet», distinguevo benissimo un avviso del direttore dei Fari. Un po’ più a sinistra il fornaio Fabian Olsen elogiava a lettere cubitali il suo pane fresco.

Appena aperti gli occhi mi ero messo a riflettere: ci sarà oggi qualche cosa che mi possa dare gioia? Gli ultimi tempi erano stati per me piuttosto magri. Della mia roba un pezzo dopo l’altro era andato al Monte di Pietà. Ero diventato nervoso e irascibile. Alcune volte ero rimasto a letto perfino di giorno con il capogiro. Quando la fortuna mi assisteva, riuscivo a prendere cinque corone per un articolo che qualche redazione mi accettava.

Da questo attacco inquadriamo subito il personaggio: è povero, vive in una camera ammobiliata, sembra infastidito da tutto e da tutti, infatti dice di sé che in quel periodo si sentiva nervoso e irascibile, e inoltre è uno scrittore di scarso successo. Ma la cosa più importante è che lo si percepisce subito come un uomo solo, ossessionato da qualcosa che ancora non conosciamo, ma che sentiamo in lui: un’inquietudine che ci trasmette con i suoi pensieri, ed è proprio un viaggio nei suoi pensieri l’intero romanzo, in cui è forte il monologo interiore, ma mai noioso, perché appunto ossessivo, calzante, ridondante nella propria follia ma mai nello stile. Un romanzo in cui il personaggio è uno e uno soltanto: lui! Il resto sono ombre che lui incontra di tanto in tanto: ora un vecchio amico, ora l’uomo del banco dei pegni, ora la padrona di casa, ora il redattore, ora un vecchio al parco o un poliziotto; solo incontri fugaci, chiazze di vita nella sua solitudine. Persino il solo personaggio che avrà un ruolo concreto nella storia, una donna, intravista all’inizio e ritrovata poi verso la fine, sembra del tutto lontana dal protagonista, quasi irreale nel suo delirio in cui esiste solo lui.

Per fare un simile lavoro ci vuole arte e padronanza del mestiere, sì, ma più di tutto si deve essere capaci di entrare nell’ossessione e nel delirio del personaggio, appunto come Kafka in libri come Il processo, Il castello o America.

Viaggiamo con lui, fisicamente e nella sua mente. Ogni incontro, ogni situazione, ci porta più a fondo nella sua follia, al punto che non capiamo neppure se ciò che accade sia vero o no.

Un narratore inattendibile raffinato come pochi.

Da dieci minuti avevo davanti a me un vecchio che camminava zoppicando. Portava un fagotto e nel muoversi ondeggiava continuamente. Arrancava con forza per portarsi in avanti in fretta. Lo udivo ansimare per lo sforzo e allora mi venne l’idea che quel fagotto potevo portarglielo io. Ma non mi affrettai a raggiungerlo.

Più su nella Graense incontrai Hans Pauli che mi salutò passando. Perché aveva tanta fretta? Non avevo alcuna intenzione di chiedergli una corona a prestito. Oltre a ciò intendevo rimandargli al più presto la coperta che mi aveva prestato alcune settimane prima. Appena mi fossi trovato un po’ in buone acque, non volevo essere debitore di una coperta a nessuno. Quel giorno stesso avrei forse incominciato un articolo sui delitti dell’avvenire o sul libero arbitrio o su qualcos’altro, sempre beninteso su un argomento interessante per il quale potevo ricevere almeno dieci corone… e quest’idea mi entusiasmò talmente che decisi di incominciare subito. Avevo il cervello in fermento. Mi sarei cercato un posticino tranquillo nel parco del Castello e non avrei smesso prima di arrivare alla fine.

Ma il vecchio storpio arrancava ancora davanti a me, e io cominciavo a irritarmi. Il suo cammino mi sembrava senza fine. Forse andava dove andavo io e l’avrei avuto davanti a me per tutta la strada.

Questo estratto, ad appena pagina cinque del romanzo, ci catapulta da subito nella follia del protagonista.

Ma che ha in mente?

Gira a vuoto, non ha un soldo, dovrebbe lavorare, e invece si fissa su un vecchio. Inizia a vaneggiare su di lui. Pensa persino di aiutarlo, quando lui per primo è messo male; e un istante dopo la sua attenzione è rapita dal saluto sfuggente di un conoscente che innesca in lui altre domande: Fugge da me? Che gli ho fatto? E via a indignarsi perché crede che l’amico lo reputi un accattone; sappiamo persino che è ridotto talmente male da aver chiesto in prestito una coperta, eppure conserva una dignità: dignità che cercherà di serbare per tutto il romanzo. Ecco perché ci tiene ad aiutare il vecchio zoppo, perché lui non è come quel poveraccio, è uno scrittore, un grande scrittore che può scrivere di questo o di quello, e proprio mentre esaltato si accinge a farlo, la sua attenzione si perde ancora su quel vecchio sconosciuto, al punto da esserne infastidito, addirittura crede che lo stia seguendo.

Ogni cosa attorno a lui innesca un delirio e alimenta il suo conflitto interiore: Io non sono un poveraccio, ma uno scrittore.

Presi il denaro, la polizza di pegno e uscii. Quella del panciotto era stata del resto un’ottima idea. Mi sarebbe rimasto il denaro per una colazione succulenta e prima di sera la mia dissertazione sui delitti dell’avvenire doveva essere bell’e pronta. La vita mi parve già più sopportabile. Ritornai dal vecchio per liberarmene.

«Ecco qua» dissi. «Sono contento che vi siate rivolto prima di tutti a me.»

Quello prese il denaro e incominciò a squadrarmi.

Che cosa gli passava per la mentre? Avevo l’impressione che fissasse specialmente le ginocchia dei miei calzoni. Una bella sfacciataggine! Credeva che fossi veramente povero come parevo? Non avevo, per così dire, in lavorazione un articolo da dieci corone?

Il vecchio di prima gli chiede un’elemosina e lui, pur di non apparire un povero, va a impegnarsi il panciotto per dargliela, ma la sua ossessione gli fa vedere persino nello sguardo del vecchio un’accusa: Mi crede un pezzente? Non sa che sono un grande scrittore?

E più avanti:

Avevo ritrovato la calma. La mia testa era limpida. Le parole di quella signorina, quando aveva detto che non aveva nulla da darmi, mi avevano fatto l’effetto di uno spruzzo d’acqua gelata. A tal punto ero arrivato! Ognuno vedendomi poteva pensare: ecco un accattone, uno di coloro ai quali si dà un pezzo di pane dallo spiraglio della porta.

Ma per quanto ci provi, il suo delirio, il suo tormento per la mancanza di soldi, di risorse, sembra condurlo sempre più in basso.

Senza volere mi ritrovai fra le mani la carta e la matita e scrissi inconsciamente in tutti gli angoli la data 1848. Oh, se un pensiero travolgente mi trascinasse con sé e mi suggerisse le parole! Altre volte mi era capitato, mi era capitato davvero e avevo già vissuto momenti uguali, ero stato capace di scrivere a lungo senza fatica: e per giunta avevo scritto cose bellissime!

Me ne sto dunque seduto sulla panchina e scrivo dozzine di volte il numero 1848 per diritto e per traverso, in tutti i modi possibili, aspettando che mi venga qualche idea presentabile.

Lui, il grande scrittore, non riesce a scrivere. Non ha idee, è piegato, ossessionato dal pensiero di non farcela, dalla povertà e dalla fame. Eppure continua nel suo delirio, e lo fa con forza, non si vuole piegare; sembra patetico, un illuso, ci fa pena, vorremmo che la smettesse, perché la sua ostinazione ci fa male, la avvertiamo inutile, un protrarsi dell’agonia.

Io tornai indietro e mi sedetti sulla panchina. Ero molto inquieto e l’organetto che sonava poco distante mi rendeva ancor più insofferente. Era una musica metallica ritmata, non so che cosa di Weber, e una ragazzina vi accompagnava una canzone malinconica. La cantilena lamentosa dell’organetto mi entrava nel sangue, mi dava ai nervi, li faceva vibrare tutti insieme, e dopo un po’ mi appoggiai alla spalliera accompagnando anch’io quel canto a bocca chiusa.

A che punto si arriva quando si ha fame! Mi sentii leggero, come dissolto in quelle note e percepivo che scivolavo via librandomi sopra i monti, danzando sopra zone di luce…

«Un centesimo!» disse la piccola dell’organetto tendendo il piattino di latta «un centesimo solo!»

«Subito» dissi istintivamente, e alzatomi in piedi frugai nelle tasche. La piccola credette che la pigliassi in giro e si allontanò svelta senza dire una parola. Quella muta indulgenza era troppo, era troppo per me. Se mi avesse insultato, mi avrebbe fatto un piacere.

Provai un dolore acuto e la richiamai: «Sai, oggi non ho un centesimo, ma non ti dimenticherò. Forse domani. Come ti chiami?… Bel nome. Stai sicura che mi ricorderò di te. A domani dunque.»

Ma mi accorsi che non mi credeva e piansi dalla disperazione perché quella ragazzaccia non voleva credermi. La chiamai un’altra volta, e mi sbottonai la giacca per darle il panciotto. «Voglio darti qualche cosa. Aspetta un momento…».

Ma non avevo il panciotto.

Ecco, appunto, suscita pena. Persino il panciotto si è impegnato. L’intera vicenda di quest’uomo è un viaggio nella disperazione umana, nella solitudine, nella sconfitta ma al tempo stesso nel bisogno di non rassegnarsi. Ma è anche un’accusa, già a fine ottocento, dell’individualismo di cui ormai è piena la società: un uomo che muore di fame, troppo orgoglioso per chiedere aiuto, è invisibile agli occhi di tutti, come nel seguente estratto:

Erano circa le undici. La strada era piuttosto buia, ma c’era parecchia gente, brigate rumorose e coppie che scivolavano via in silenzio. Era il grande momento: l’ora dell’accoppiamento, gli istanti misteriosi delle avventure galanti. Sottane fruscianti, ogni tanto una breve risata sensuale, seni ansanti, sospiri… Lontano, presso il Grand Hotel, una voce che chiamava: Emma! La strada era come un pantano che esalasse vapori caldi.

Istintivamente mi frugai le tasche cercandovi due corone. La tensione che vibrava intorno a me non solo in ogni movimento, ma anche nella luce scialba dei fanali… nella notte silenziosa e gravida, tutto quell’insieme mi soggiogava, quell’aria piena di sussurri, di amplessi, di confessioni balbettate, di parole accennate, di piccoli gridi. Un paio di gatti si graffiavano soffiando e miagolando nell’ingresso del ristorante Blomqvist. E io non avevo due corone. Che sciagura, che tristezza essere così poveri! Quale umiliazione, quale vergogna! E pensai di nuovo all’ultimo scellino d’una povera vedova che avrei rubato, al berretto d’uno scolaro o al suo fazzoletto, al tascapane di un mendicante che senza tanti complimenti avrei portato dal rigattiere mangiandomi poi il ricavato. Per consolarmi e per indennizzarmi andavo scoprendo tutti i difetti possibili di quella gente allegra che mi frullava intorno. Alzavo le spalle con disprezzo e lanciavo occhiate di rimprovero alle coppie che vedevo passare. Quegli studenti frivoli e sciocchi che succhiavano caramelle e si davano arie di disinvoltura continentale, quando riuscivano ad accarezzare il seno di una sartina! Quegli impiegati di banca, quei negozianti, quei bellimbusti da boulevard, che non sdegnavano nemmeno le mogli dei marinai, quelle grasse pollastre da mercato che si stendevano sotto il primo portone per un boccale di birra! Che razza di sirene! Il posto al loro fianco era ancora caldo del pompiere o dello stalliere della notte precedente… Il trono era sempre pronto e vi era sempre posto sufficiente, prego, avanti, si accomodi!… Schizzavo i miei sputi sul marciapiede senza curarmi di colpire eventualmente un passante, ero rabbioso, pieno di disprezzo per quella gente: si sfregavano l’uno contro l’altro e si accoppiavano in pubblico. Passavo a testa alta e mi pareva quasi una gloria, quella di camminare sul pulito.

Questo estratto non è soltanto un capolavoro sensoriale capace di condurre il lettore in un mondo tangibile, è un gioiello di ritmo, un esempio di come immergere il lettore in una realtà soffocante che lo porta ad andare avanti in cerca di una luce, di una speranza, di una fine, temendo passo dopo passo che non esista nulla oltre tanto buio.

Qui la solitudine del protagonista emerge con forza. Immerso fra la gente eppure ignorato, l’altrui opulenza e soddisfazione è per lui un dito in una piaga. Soffre tanto da incattivirsi. Sente il bisogno di disprezzare tutto e tutti pur di sentirsi migliore di loro, un essere umano, e non solo una creatura impotente innanzi al proprio declino.

La parte che segue è la più dolorosa e conosciuta del testo, proprio perché racchiude in essa la follia indotta dalla disperazione, descritta in modo magistrale da Hamsun.

Ero tutto intorpidito. Non ero nemmeno in grado di muovere le labbra e il petto mi doleva.

Incominciò ad annottare. Sentendomi sempre più stanco e rattrappito mi buttai lungo disteso sul letto. Per scaldarmi un po’ le mani mi passai le dita fra i capelli avanti e indietro, per diritto e per traverso. Fra le dita mi rimase qualche ciocca di capelli strappati che cadevano sul guanciale. Non me ne diedi pensiero: che importava? Capelli me ne rimanevano sempre abbastanza. Feci ancora un tentativo per destarmi da quello strano intontimento che mi filtrava in tutte le membra come una nebbia. Provai ad alzarmi, battei le palme sulle ginocchia, tossii con tutta la forza che mi rimaneva… e ricaddi sul letto. Tutto inutile. Stavo morendo a occhi aperti abbandonato a me stesso. Infine mi misi l’indice in bocca e cominciai a succhiare. Allora il cervello incominciò ad agitarsi e un pensiero vi si formò timidamente, un’idea folle: e se mordessi? Senza riflettere chiusi gli occhi e strinsi i denti.

Mi alzai di scatto. Finalmente ero sveglio. Dal dito colava un filo di sangue. Lo leccai a goccia a goccia. Non faceva male. La ferita era insignificante. Ma di botto avevo ripreso conoscenza. Crollai il capo, mi avvicinai alla finestra, cercai una benda per la ferita.

Mentre mi fasciavo, gli occhi mi si inumidirono. Piangevo in silenzio: quel dito esile e morsicato era tanto triste! Dio del cielo, a quale punto ero arrivato?

Andare avanti nella lettura è davvero difficile, perché dove si può giungere dopo questo?

Inizialmente vi ho parlato della vita di Hamsun, del suo essere nato in una famiglia povera, del suo aver fatto tanti lavori e viaggiato molto.

Beh, uno scrittore non può che scrivere di ciò che conosce, di ciò che lo ha segnato, che lo inquieta. Ed essendo questo personaggio senza nome uno scrittore norvegese, viene da chiedersi quanto ci sia in questa storia della vita di Hamsun.
Fame è un capolavoro della letteratura da recuperare assolutamente, inquietante al pari delle opere di Kafka.

Per chi scrive seriamente, dando la vita per la scrittura, questo libro sarà una vera coltellata.

Buona lettura.

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