il punto di vista è un patto con il lettore

In narrativa una delle cose più difficili da gestire è il punto di vista della storia. Con quali occhi guardiamo ciò che accade sulla pagina? Chi sta raccontando la storia? È un punto di vista affidabile? Ci sta raccontando oggettivamente quanto accaduto, oppure gli eventi sono filtranti dal suo essere un individuo?

Spesso scrivendo si dimentica che i personaggi, tutti i personaggi, hanno un proprio vissuto, una propria formazione, e in quanto individui risponderanno in modo diverso a un evento esterno, così come lo racconteranno in modo diverso: appunto a seconda del proprio personale punto di vista.

Un sadico e un uomo mite osservando un omicidio non risponderanno interiormente allo stesso modo, così come non potranno raccontarci l’evento alla stessa maniera. Un uomo che ha vissuto un tradimento non lo racconterà al pari di chi ne ha solo sentito parlare, e così via.

Quando scriviamo è necessario focalizzare sempre chi sta raccontando la storia, perché noi siamo gli scrittori, non i narratori delle nostre storie. Non dobbiamo mai permettere che i nostri pensieri sostituiscano la voce narrante.

Sembra una cosa facile, ma non lo è, anzi, è forse la cosa più difficile quando si scrive, perché richiede un forte distacco pur restando totalmente dentro i nostri personaggi.

Non sono un maestro di scrittura creativa, anche se oggi molti si attestano tali dopo qualche minuscolo corso, dunque preferisco che a parlare del punto di vista sia il grandissimo Yasunari Kawabata, Premio Nobel per la letteratura nel 1968.

Uno dei suoi racconti, Le ossa di Dio, è un capolavoro che mostra pienamente come utilizzare il punto di vista narrativo nonché come gestire il tempo di una storia. Un racconto di a malapena tre pagine in cui c’è tutto: prova che quando si ha la padronanza dello strumento si può dire tanto, tutto, in poco spazio.

LE OSSA DI DIO

Il signor Kasahara Seiichi, dirigente di un’azienda ferroviaria di periferia; Takamura Tokijȗrȏ, attore di film a soggetto storico; Tsujii Morio, studente della facoltà di medicina presso l’università privata di P; il signor Sakuma Benji, proprietario di un ristorante cantonese, e un altro ancora, ricevettero da Yumiko, cameriera della sala da tè «Airone blu», ciascuno un duplicato della seguente lettera:

«Le invio queste ossa. Sa, son ossa di Dio. Il piccolo è sopravvissuto un giorno e mezzo. Già alla nascita non aveva alcuna vitalità, l’infermiera l’ha preso per i piedi e scrollato, io lo guardavo come dietro una coltre di nebbia. Poi finalmente s’è messo a piangere.

Ieri a mezzogiorno dopo due sbadigli è morto. Il bambino della culla vicina invece – a parte ch’era settimino – come è uscito dalla pancia ha buttato uno spruzzo di pipì, poi più nulla.

«La creatura non somigliava ad alcuno. Non somigliava neppure a me. Era in tutto e per tutto una bella bambolina; provi a immaginare il più grazioso viso di bambino di questa terra. Al punto che i suoi lineamenti non avevano difetto, e nemmeno io riesco a ricordare qualcosa che non siano le guance paffute o le labbra appena irrigate dal sangue, serrate dalla morte. Anche le infermiere si complimentavano: “Ma che bel bimbo niveo!”.

«Piuttosto che sopravvivere e rimaner poi gracilino, o comunque un bambino sfortunato, meglio sia morto prima di qualsiasi sorso di latte o di qualsiasi sorriso, credo; però ho pensato e pianto per questo bambino che m’è nato non somigliante a nessuno. Un bambino venuto al mondo con la preoccupazione – ben triste per un cuore di bimbo, anzi di feto – di non poter somigliare a nessuno. E che dal mondo è partito col pensiero di dover morire prima che il suo viso cominciasse a somigliare a qualcuno.

«Lei, anzi – diciamolo chiaro – voi, finora non avreste fatto una piega anche se avessi avuto cento o mille uomini, nemmeno fossero stati un esercito, però vi siete, come dire, scandalizzati che aspettassi un figlio. Tutti quanti siete venuti con un gran microscopio da uomo a frugare il mio segreto di donna.

«Secondo un vecchio aneddoto il monaco Hakuin avrebbe abbracciato il figlio di una peccatrice dicendo: “Ecco mio figlio!”. Ebbene, anche il mio bambino l’ha salvato Dio. Al feto che nel mio ventre malinconicamente si chiedeva se mai potesse somigliare a qualcuno, Egli ha detto: “O figlio prediletto, tu somiglierai a me, nascerai con le mie fattezze. Nascerai figlio dell’Uomo”.

«E io che mi chiedevo a chi avrei voluto somigliasse! Non dovrei neppure dirlo, anche di fronte alla delicata premura del piccolo. Ora le sue ossa le ho divise fra tutti».

Il dirigente nascose alla svelta il piccolo involto di carta bianca in una tasca e vi sbirciò poi furtivamente non appena fu in macchina. Quando in ufficio convocò la bella segretaria disponendosi a una pausa, insieme al pacchetto di Happy Hit, dalla tasca gli vennero in mano le ossa. Il proprietario del ristorante, odorando le ossa aprì la cassaforte, e al posto dell’incasso del giorno prima, che fece portare in banca, ripose l’involto di carta bianca. Lo studente di medicina, in seguito al sobbalzo d’un convoglio delle Ferrovie dello Stato, non poté impedire che le ossa del bambino dentro la sua tasca finissero frantumate contro i sodi fianchi d’un bianco lillà di una studentessa, ed ebbe così ad alimentare il vivido pensiero di farla sua sposa. L’attore nascose le ossa nel sacchetto segreto dove teneva preservativo e afrodisiaco e corse alle riprese.

In seguito, dopo un mese, il signor Kasahara Seiichi venne all’ «Airone blu» e disse alla cameriera:

«Quelle ossa dovresti seppellirle in qualche tempio. Come mai le conservi?».

«Oh, io… le ho già divise tutte fra tutti. Come può pensare che ce le abbia io?».

Credo che questo sia uno dei racconti più belli del novecento. L’azione drammaturgica è talmente precisa e diretta da commuovere ogni volta che lo si legge. Ma cerchiamo di concentrarci sull’argomento del punto di vista narrativo.

Allora, non ci viene detto dove siamo, ma subito capiamo il luogo dal nome dei protagonisti, così come capiamo chi sono i personaggi di questa storia: quattro uomini e una donna. Ci vengono presentati immediatamente e ma in modo nitido in un brevissimo paragrafo.

Kasahara Seiichi, un dirigente; Takamura Tokijȗrȏ, un attore; Tsujii Morio, uno studente di medicina presso un’università privata; Sakuma Benji, proprietario di due ristoranti; infine Yumiko, cameriera della sala da tè «Airone blu».

Ci troviamo subito davanti a tre uomini ricchi, un ragazzo di buona famiglia e una cameriera che lavora in una locanda promiscua, almeno a giudicare dal nome.

Anche la situazione è chiara: Yumiko ha mandato loro una lettera, la stessa lettera a ognuno.

Un attimo dopo è Yumiko a narrarci la vicenda, che da subito ci appare drammatica.

Dalle parole di Yumiko capiamo all’istante il suo modo di vivere la situazione: «Le invio queste ossa».

Non ha scritto “Invio a ognuno di voi” o “Invio a voi tutti” queste ossa, no, ha associato i quattro in un’unica persona, chiaro segno che per lei sono tutti uguali.

Il suo punto di vista resta fedele durante tutta la lettera in cui, persino più della morte, il vero problema sembra essere la disgrazia di un bambino nato senza padre, senza origini, senza avere alcuna appartenenza.

Persino quando Yumiko dichiara apertamente che la lettera non è indirizzata a uno: «Lei, anzi – diciamolo chiaro – voi…», il suo punto di vista non cambia: non attribuisce il volto o un nome ai quattro, li accomuna, per lei sono senza forma, come per loro quel bambino non è nulla; inoltre è chiaro il suo non voler svelare a ognuno dei quattro quanti volti esistano dietro a quel Voi.

L’apice del suo pensiero lo troviamo nella frase: Tutti quanti siete venuti con un gran microscopio da uomo a frugare il mio segreto di donna.

Lasciando stare la perfezione sensoriale di questa lettera, in cui tutto è visivo, abbiamo visto come il punto di vista di Yumiko è chiaro, fedele riga dopo riga.

Ma la gestione del punto di vista in questo racconto è ben più complessa. Yumiko non ha mandato quattro diverse lettere a quattro diversi uomini, ma la stessa lettera a ognuno. La stessa lettera che sarà letta e metabolizzata in modo diverso.

Kawabata non si dilunga, non si perde in descrizioni, ci mostra il punto di vista dei quattro uomini riguardo l’accaduto con semplici gesti.

Seiichi nasconde alla svelta le ossa, come una colpa da celare, ma non riesce a evitare di spiarle, seppur sempre furtivamente, come spaventato e colpito da un ridondante pensiero. Se le ritrova in mano (assieme a un pacchetto di sigarette Vintage, che definisce la sua persona) persino quando chiama la bella segretaria per svagarsi.

Benji, invece, le annusa e le ripone nel posto a lui più caro: la cassaforte del suo ristorante.

Morio le infila in tasca senza cura, le ossa gli si rompono in tasca senza che lui se ne accorga, già attratto dalla possibilità di un nuovo amore.

Tokijȗrȏ nasconde le ossa in un sacchetto segreto in cui tiene preservativi e afrodisiaco e corre a lavoro. Sembra il più strafottente di tutti, persino più cinico di Morio, eppure c’è qualcosa di strano nel suo gesto: le infila in un sacchetto segreto, e in quel sacchetto ci sono due oggetti di natura sessuale.

Che per lui Yumiko sia stata una delle tante conquiste e quelle ossa rappresentino un macabro trofeo? Che attribuisca a Yumiko un importanza speciale, tanto da dover custodire una parte di lei in un sacchetto segreto?

Il suo è davvero un punto di vista ambiguo, quello che si potrebbe definire inattendibile, diversamente dal punto di vista di Seiichi, confermato nella scena finale.

Seiichi torna nella sala da tè «Airone blu». L’abbiamo visto spaventato innanzi alle ossa del bambino, come lacerato da un dubbio: «Era davvero mio figlio?»

Non lo dice, ma è palese che sta cercando da Yumiko una risposta. Ma il punto di vista di Yumiko resta ancora una volta fedele: «Oh, io… le ho già divise tutte fra tutti. Come può pensare che ce le abbia io?».

Per Yumiko quell’uomo non ha nome, è come gli altri, non concede a lui neppure di sapere quanti siano questi altri. Seiichi non sa degli altri tre, come loro non sanno nulla gli uni degli altri, una questione che svela un altro aspetto di Yumiko: lei, considerata dai quattro come una donna che si dà a cento o mille uomini, sa benissimo di chi potrebbe essere il bambino e scrive solo a loro.

Direi che le gestione del punto di vista in queste tre immense pagine è perfetto. Cinque versioni diverse della stessa storia. Cinque modi diversi di reagire innanzi a un’unica storia.

Altro aspetto di cui voglio velocemente parlare è la gestione del tempo magistralmente utilizzata da Kawabata.

Il racconto si apre con una velocissima descrizione della situazione e dei personaggi. In poche righe sappiamo cosa sta succedendo e le caratteristiche delle persone coinvolte.

Subito dopo, Yumiko, nella lettera in questione, con un veloce ma incisivo sommario ci mostra la breve esistenza del bambino, e non solo, ci fa capire cosa è successo fra lei e i quattro uomini, portandoci al problema principale della storia.

Infine, Kawabata ci mostra con una velocità cinematografica quattro scene in cui apprendiamo la reazione dei quattro uomini innanzi a questa vicenda, per poi concludere con l’ultima scena, quella nella sala da tè.

Una gestione del tempo degna di un Premio Nobel. Un racconto in cui i tre atti sono ben definiti, al punto che il secondo atto è per lunghezza la somma del primo e terzo atto.

Un racconto perfetto da cui apprendere molto, come da tante altre perle della letteratura lasciate a noi dai grandi maestri.

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