Scrivere significa scavare nel pozzo delle proprie inquietudini

In un precedente articolo ho già parlato di Edgar Allan Poe, autore nato a Boston il 19 gennaio 1809 e morto a Baltimora il 7 ottobre 1849. Come potrete leggere nell’altro articolo, in cui è riportato il suo meraviglioso racconto La maschera della morte rossa, Poe non ha avuto vita facile sotto nessun aspetto. Morto giovane in preda al delirio e senza aver mai raggiunto il meritato successo, è oggi definito l’indiscusso maestro del terrore. Un genio della letteratura. Uno scrittore capace di portare ai limiti estremi l’angoscia umana.

Poe non usa mostri, lupi mannari o vampiri per terrorizzare il lettore, no, lui fa qualcosa di più: le sue pagine sono specchi in cui il lettore ci si riflette, incapace di sfuggire dalle proprie paure più intime. È nel deliro umano che Poe ci porta con le sue storie, negli incubi che accomunano gli uomini, nelle paure più ataviche che da sempre ci tengono svegli.

Non consiste forse in questo la vera arte di uno scrittore? Condurre il lettore in un vortice, spesso soffocante. Portare il lettore al limite massimo dei conflitti interiori dei personaggi di cui legge, scendere assieme a loro nel baratro, condividere le loro paure.

Già nel racconto La maschera della morte rossa abbiamo visto come Poe, con totale distacco eppure essendo presente in ogni riga, riesce a calare gradualmente il lettore in un’angoscia soffocante. Gli ambienti, persino le luci diventano preambolo di un terrore che sentiamo generarsi lentamente in una coltre di fumo: lo avvertiamo, pur senza vederlo; sappiamo che c’è, ne sentiamo il fiato sul collo, e quando di colpo si materializza siamo spaventati al punto da non desiderare altro che la fine.

Non esistono tecniche o trucchi per riuscire a compiere un simile prodigio, quelle tecniche necessarie ma oggi divenute mero strumento, soprattutto per chi crede di poter scrivere senza attingere a qualcosa di davvero intimo; né ci si può illudere che basti quello chiamato da molti “talento”. Occorre vedere nitide nelle proprie pupille le immagini che si desidera trasportare su carta, e per farlo bisogna avere una profonda capacità introspettiva nonché uno spasmodico bisogno di raggiungere la verità di se stessi, del mondo, della società: toccarla, per quanto sia doloroso farlo.

Queste due componenti, tesoro per ogni scrittore, sono ciò che manca ai narratori odierni, tanto presi dalla smania di pubblicare, dalla voglia di successo e di denaro, dal vedere il proprio nome in cima a chissà quale classifica: tutto ciò che Poe non ha avuto in vita, pur continuando a scrivere tanto.

Scrivere è, o dovrebbe essere, un bisogno, e nel leggere le storie di Poe avvertiamo il suo bisogno di scriverle, l’urgenza di tirare fuori dal pozzo di se stesso qualcosa di misterioso e raccolto con tanta fatica. Una necessità che è estasi e al tempo stesso tormento: tormento della ricerca, estasi della liberazione.

In ogni storia di Poe c’è di certo qualcosa che angoscia prima lui, ecco perché riescono ad angosciare noi lettori. Eppure, ed è qui la bravura del narratore, Poe sembra essere del tutto al di fuori delle sue novelle. Non lo si può neppure scorgere, non ci dà traccia alcuna di sé, come se dopo aver raccolto dal baratro qualcosa di talmente spaventoso avesse bisogno di allontanarlo da sé, porlo su carta per estirparlo dal proprio cuore e lasciarlo visibile, tangibile a noi tutti, per sempre.

Sfido tutti coloro che hanno letto un racconto di Poe a non ricordarlo anche dopo anni. La sua scrittura è una scheggia che resta nel cuore, e va a fondo ogni volta che la si rilegge.

Questa è la differenza fra uno scrittore e un artista.

Il racconto che voglio mostrarvi stavolta, anch’esso molto breve, tipico del respiro narrativo di Poe, fu pubblicato per la prima volta nel gennaio 1843, sulla rivista The Pioneer di James Russell Lowell; successivamente, nel 1845, Poe lo revisionò e lo pubblicò sul proprio periodico The Broadway Journal. Il racconto in questione è Il cuore rivelatore, a mio dire uno dei migliori racconti di Poe.

Come vedrete, la tensione è immediata, trovandoci subito dinnanzi a un narratore che sembra inattendibile, un folle pronto a raccontarci la propria vicenda, e dalle sue prime parole non si presagisce nulla di buono.

Sappiamo che stiamo per entrare in una storia spaventosa, e capiamo che a condurci sarà quello che a tutti gli aspetti sembra un pazzo furioso. Eppure, sin dalle prime righe, Poe ha preso la nostra curiosità. Siamo tesi, ma al tempo stesso vogliamo vedere, vogliamo capire; e la tensione cresce di paragrafo in paragrafo, come un cuore che pulsa sempre più forte, sempre più forte, fino a non reggere più ed esplodere in un boato sanguinoso.

Ma basta parlarne, lasciamo che sia la scrittura di Poe a parlare per lui.

Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti, mica me li ha distrutti, logorati. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia.

Come in principio l’idea mi venne non è possibile dirlo; ma una volta che mi entrò in testa ne fui ossessionato notte e giorno. Un motivo, non c’era. La passione non c’entrava per nulla. Gli volevo bene, al caro vecchietto. E lui non mi aveva fatto alcun male. Mai mi aveva offeso. Né io volevo il suo oro. Fu per il suo occhio, credo.

Sicuro, fu per quello! Aveva un occhio che pareva un occhio di avvoltoio, azzurro chiaro, con un velo sopra. Ogni volta che quell’occhio si posava su di me, mi si gelava il sangue; e così, lentamente, a grado a grado, mi misi in testa di togliergli la vita, al vecchio, e in tal modo sbarazzarmi per sempre dello sguardo di quell’occhio.

Ecco il punto! Voi mi credete pazzo. E i pazzi non sanno quel che fanno. Se mi aveste visto, invece! Se aveste visto con quanta assennatezza operai; con quanta circospezione, dissimulazione, previdenza! Mai ero stato tanto gentile col vecchio come durante la settimana che precedette l’assassinio. E ogni sera, verso mezzanotte, giravo la maniglia della porta che metteva nella sua camera e aprivo: oh, piano, piano! Quando avevo aperto abbastanza per cacciar dentro la testa, facevo passare una lanterna cieca, perfettamente chiusa, eh, perfettamente chiusa, che non lasciasse filtrare un solo raggio, e poi affacciavo la testa.

Oh, avreste riso a vedere con quale destrezza l’affacciavo! La muovevo lentamente, con infinita lentezza, per non turbare il sonno del vecchio. Certo ci mettevo un’ora a introdurla tutta, e a spingerla quanto occorreva per vederlo disteso nel suo letto. Un pazzo sarebbe stato così prudente? E quando avevo cacciato tutta la testa nella camera, cominciavo con cautela – infinita, infinita cautela – a schiudere la lanterna, che strideva un poco sui cardini.

L’aprivo appena il necessario per lasciar cadere un impercettibile filo di luce sull’occhio d’avvoltoio. Sette volte, per sette lunghe notti, feci questo – a mezzanotte precisa, ogni volta – e sempre trovai chiuso quell’occhio, così che mi fu impossibile compiere l’opera che mi ero proposto; perché non era lui, il vecchio, che mi irritava, ma il suo occhio malefico. Quando poi faceva giorno, ogni mattina, entravo baldanzosamente nella sua camera, e gli parlavo senza scrupolo alcuno, chiamandolo per nome nel modo più cordiale, e chiedendogli come avesse passato la notte. Vedete, avrebbe dovuto essere un vecchio molto fine d’acume, per sospettare che ogni sera, a mezzanotte precisa, io l’osservavo durante il suo sonno.

L’ottava notte fu con maggior precauzione del solito che aprii la porta. La freccia piccola di un orologio impiega a muoversi meno di quanto ci impiegò la mia mano. Io non sapevo ancora di poter arrivare a tanto nella sagacia.

E potevo appena contenere le sensazioni di trionfo che provavo. Pensate, ero lì che aprivo la porta millimetro per millimetro, e lui non aveva il minimo sospetto delle mie azioni, dei miei pensieri segreti! A quest’idea mi lasciai sfuggire una risatina; ed egli forse mi udì; poiché all’improvviso si mosse nel suo letto, come se stesse per risvegliarsi. Voi magari crederete che mi ritirai, e invece no.

Nella camera c’era nero di pece1, tanto il buio era fitto, perché, per timore dei ladri, le imposte venivano chiuse con molta cura, e io che sapevo com’egli non avrebbe potuto scorgere il varco della porta continuai a spingere questa, sempre più e più.

Avevo poi affacciata la testa e stavo già per schiudere la lanterna, quando il pollice mi scivolò sul metallo della serratura, e il vecchio si rizzò in mezzo al letto, urlando: – Chi è?

Rimasi fermo in immobilità assoluta, e non dissi nulla. Per tutta un’ora non mossi un muscolo, e in tanto tempo non sentii il vecchio ricoricarsi. Egli era sempre seduto in mezzo al letto, teso in ascolto, come avevo fatto io per notti e notti a sentire i tarli nella parete.

Ma d’un tratto mi giunse un gemito sommesso, e io riconobbi ch’era un gemito di terrore mortale. Non di dolore o di pena, era il suono sordo e soffocato che s’alza dal fondo di un’anima piegata dallo spavento. Conoscevo quel suono. Per notti e notti, alla mezzanotte in punto, mentre il mondo dormiva, era sgorgato dal mio petto a scuotere con la sua eco terribile i terrori che mi ossessionavano. Dico che lo conoscevo bene. Sapevo quel che provava il povero vecchio, e, per quanto la voglia di ridere mi riempisse il cuore, ebbi pietà di lui. Sapevo ch’egli era rimasto sveglio, da quando aveva avvertito il primo leggero rumore, e s’era rigirato nel letto.

I suoi timori erano andati crescendo. Aveva certo cercato di persuadersi ch’erano privi di fondamento; ma non aveva saputo. Si era certo detto tra sé: non è nulla, sarà stato il vento nel caminetto, sarà stato un topo, sarà stato un grillo. Sicuro, si era sforzato di farsi coraggio con queste ipotesi, ma invano. Tutto era stato vano, perché la morte che si avvicinava gli era passata davanti con la sua grande ombra nera, nella quale lo aveva avviluppato. Ed era per il funebre influsso di quell’ombra invisibile ch’egli sentiva, benché nulla vedesse né udisse, la presenza della mia testa nella sua camera.

Quando ebbi aspettato a lungo, con pazienza infinita, che si ricoricasse, mi decisi infine a socchiudere un po’ la lanterna, ma tanto poco ch’era nulla quasi. Lo feci furtivamente come non potreste immaginare, e un solo pallido raggio, un filo di ragnatela, scaturì dalla fessura per cadere diritto sull’occhio d’avvoltoio.

Era aperto, quello, spalancato, così che il furore mi prese non appena l’ebbi guardato. Lo vidi perfettamente, azzurro opaco e ricoperto dell’orribile velo che mi agghiacciava il midollo nelle ossa; e nient’altro all’infuori di esso vedevo della faccia del vecchio; dappoiché, come per istinto, avevo diretto il raggio proprio sul punto maledetto.

Non vi ho già detto che la pazzia di cui mi ritenete affetto è soltanto un’estrema acutezza dei sensi? Ebbene, ecco che un sordo e intermittente rumore soffocato mi giunse all’orecchio, come il ticchettio di un orologio inviluppato nel cotone. E io riconobbi quel rumore. Era il cuore del vecchio che batteva. E, come il rullo del tamburo eccita il coraggio dei soldati, quel suono esasperò il mio furore.

Tuttavia seppi ancora contenermi, e non mi mossi. Quasi non osavo respirare.

E tenevo ferma la lanterna, col raggio diretto sull’occhio. La marcia infernale del cuore batteva frattanto sempre più forte; si faceva precipitosa, e ad ogni istante più alta, più alta. Il terrore del vecchio doveva essere estremo! Il battito del suo cuore diventava sempre più forte, di minuto in minuto! Mi seguite con attenzione? Vi ho detto ch’ero un uomo nervoso; e lo sono in effetti. Ebbene, quello strano rumore, in mezzo al cuor della notte, nel pauroso silenzio di quella vecchia casa, mi riempì di un irresistibile terrore. Ancora per qualche minuto mi contenni, senza muovermi dal mio posto. Ma il battito si faceva più forte, più forte. Pareva che il cuore dovesse scoppiare. E così una nuova angoscia mi prese. Se il rumore fosse sentito da qualche vicino?

L’ora del vecchio era suonata! Con un urlo spalancai la lanterna, e mi slanciai nella camera. Il vecchio non diede un grido, non un grido solo. In un attimo lo tirai giù sul pavimento, e gli rovesciai addosso il peso stritolante del letto. Allora, vedendo che avevo compiuto il più della mia opera, sorrisi contento.

Tuttavia il cuore continuò per qualche minuto a battere, d’un battito velato. Ma io non me ne preoccupai; non si poteva mica sentirlo attraverso il muro. Poi cessò.

Era morto, il mio vecchio. Risollevai il letto ed esaminai il cadavere. Era rigido, sicuro, era morto stecchito. Portai la mano al posto del cuore e ve la tenni per alcuni minuti. Nessuna pulsazione. Era proprio morto, il mio uomo. Il suo occhio, ormai, non mi avrebbe tormentato più.

Se persistete a credermi pazzo, la finirete una buona volta quando vi avrò riferito le accorte1 precauzioni ch’io presi per nascondere il cadavere. La notte avanzava, e io mi davo vivamente da fare, in perfetto silenzio. E tagliai dal corpo la testa, le braccia, le gambe.

Poi tolsi tre assi dall’impiantito della camera, e nascosi tutto di sotto. Poi rimisi al loro posto le tavole con tanta perizia e destrezza che nessun occhio umano, neanche il suo, avrebbe potuto accorgersi di nulla. E non c’era niente da lavare, non una macchia di sudicio, non una traccia di sangue. Ero stato ben accorto.

Avevo lasciato scolare ogni cosa in un mastello: ah, ah!

Erano le quattro quando mi fui sbrigato, e ancora faceva buio come a mezzanotte.

Intanto che le ore suonavano sentii bussare alla porta di strada. Scesi per aprire, perfettamente tranquillo. Che avevo da temere, ormai? Entrarono tre uomini che si dissero, con aria soave, ufficiali di polizia. Un vicino aveva sentito gridare, cosicché, sorto il sospetto d’un qualche delitto, una denuncia era stata trasmessa all’ufficio di polizia, e i tre signori erano stati mandati per visitare il quartiere.

Sorrisi: che avevo da temere? Così diedi il benvenuto ai signori. Il grido, dissi, me l’ero lasciato sfuggire io, sognando. Soggiunsi che il vecchio mio amico si trovava in viaggio. Condussi i visitatori per tutta la casa. Li invitai a cercare, che cercassero bene. Infine li portai nella sua camera.

Mostrai loro i suoi tesori, perfettamente in ordine, in salvo. Nell’entusiasmo della mia sicurezza presi delle seggiole e li pregai di riposarsi. Io, con la folle audacia del trionfo assoluto, andai a mettermi proprio sul punto dove si trovava nascosto il corpo della vittima.

I poliziotti erano soddisfatti. I miei modi li avevano convinti. Quanto a me, mi sentivo stranamente a mio agio. Sedettero, i tre, e parlarono di cose banali. A tutto io rispondevo con buonumore. Ma a un certo punto, mi sentii impallidire, ed ebbi voglia che se ne andassero. Mi doleva il capo, e mi pareva d’avvertire un battito alle orecchie. Ma quelli se ne restavano seduti e continuavano a chiacchierare. Il battito, una specie di tintinnio, si fece più distinto; e mi diedi a parlare più che potei per non sentirlo; ma esso tenne duro, e prese un carattere ben definito, tanto che infine compresi che non lo avevo dentro alle orecchie.

Allora mi feci certo pallidissimo, ma mi ostinavo a chiacchierare, a voce alta, e con sempre maggiore accanimento. Il rumore aumentava sempre, che potevo fare? Era un sordo e intermittente rumore soffocato, come d’un orologio inviluppato nel cotone. Respiravo a fatica; quanto agli agenti, essi non lo sentivano ancora.

Parlai più in fretta, con maggiore veemenza1; ma il rumore cresceva senza tregua.

Mi alzai a discutere di sciocchezze da nulla, ad altissima voce e gesticolando con violenza, ma il rumore cresceva, saliva sempre. E perché non se ne andavano, quei tre?

A grandi passi pesanti misurai su e giù il pavimento come esasperato dalle osservazioni dei miei contraddittori, ma il rumore cresceva regolare, costante.

Signore Iddio, che potevo fare? Mi agitavo, smaniavo, bestemmiavo! Smuovevo la seggiola sulla quale stavo seduto, la facevo stridere sull’impiantito; ma il rumore sovrastava ormai tutto, e cresceva, cresceva ancora, senza fine. Diventava più forte, più forte e gli uomini chiacchieravano sempre, scherzosi, sorridenti.

Era possibile che non sentissero? Dio onnipossente; no, no, essi sentivano, sospettavano, essi sapevano e si divertivano al mio terrore, così mi parve e lo credo tuttora. Ma tutto era da preferire a quella derisione. Io non ero più capace di sostenere quei loro sorrisi ipocriti. Sentii che mi occorreva gridare, o sarei morto. E intanto, ecco, lo sentite? Ascoltate, si fa più forte! Più forte, più forte, sempre di più!

– Miserabili! – gridai – Smettetela di fingere! Confesso tutto! Togliete lì, quelle assi! È lì sotto! È il suo terribile cuore che batte!

Ecco! Parole, commenti?

Ogni emozione, positiva che negativa, trova il proprio vertice nell’ossessione. Ed è nell’ossessione di un uomo che Poe ci conduce: nel suo delirio, nella sua follia, nel suo terrore.

Quell’occhio puntato su di lui, probabilmente mite, ma per lui terribile, lo sentiamo su di noi, ci scruta, ci inquieta. Seguiamo ogni mossa di quest’uomo, spiamo con lui il vecchio, sobbalziamo a ogni movimento, a ogni rumore. E quel battito! Un crescente del terrore. Un’angoscia che vorremmo raschiarci via dal cuore.

In poche pagine, senza mostri, effetti speciali o arie fumose, Poe ci ha condotto in un incubo che non dimenticheremo mai più.

Non credo nel talento, o meglio, credo in una predisposizione nata da passioni perseguite quando si era bambini, e che possono fruttare se inseguite con dedizione, costanza, abnegazione e sacrificio. Credo nella forte capacità di guardare in se stessi ed essere onesti nei confronti della pagina scritta, così come credo nella ricerca, nel volersi superare a ogni costo. Ma se esiste davvero il talento, questi trova il suo essere in Edgar Allan Poe. O forse era semplicemente un genio, un artista, ambedue termini oggi tanto, troppo abusati.

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