Qual è la più grande paura dell’essere umano? La morte? Io credo che essa sia solo la rappresentazione massima della più profonda paura umana. Potremmo definire tale paura come il timore di non vivere, e quand’è che non si vive? Forse quando non si è liberi di vivere?
Immaginate una vita in gabbia, sempre sotto controllo, costretti non solo a obbedire a degli ordini, ma seguire impotenti gli avvenimenti che vi coinvolgono senza poter davvero prenderli per le redini, modificarli, anche quando palesemente ingiusti.
Abbiamo l’illusione di essere padroni di noi stessi, di vivere la vita che sognavamo. Ci basta scrivere su di un social network per crederlo, pubblicare una foto su Facebook o su Instagram. Poi, magari, svolgiamo lavori odiati solo per tirare avanti e ci convinciamo persino che ci piacciano pur di non guardare l’impotenza della nostra esistenza. In altri casi, invece, siamo pronti a sacrificare dignità e affetti per del denaro. Comunque sia ci ritroviamo sempre schiavi di qualcosa e pronti a fare cose indesiderate per ottenere un privilegio, che sia grande, piccolo o effimero.
Raccontare con onestà una così forte frustrazione, forse il vero male di vivere, è cosa concessa a pochi, perché poche persone riescono a guardare nella spirale di un’esistenza fallita senza impazzire. Fra questi sicuramente Franz Kafka, nato a Praga il 3 luglio 1883 e morto a Kierling il 3 giugno 1924.

Già in precedenti articoli abbiamo parlato di lui, del suo genio mai acclamato in vita, della sua visione profonda dell’essere umano e della società in cui viveva, talmente penetrante nell’intimità umana da risultare spesso soffocante, come nei capolavori La tana e Il digiunatore.
L’alienazione dinnanzi la propria condizione in un mondo gelido, dove siamo tutti numeri, al punto che persino negli affetti non siamo altro che creature invisibili, è tema portante della letteratura di Kafka, e forse proprio per questo a suo tempo fu ritenuta scomoda, inadatta, impubblicabile.
Il mondo e le persone diventano per i protagonisti delle storie di Kafka nemici dichiarati o velati, in ogni caso sagome che come giullari impazziti o sadici carnefici piombano sull’esistenza di un individuo rinchiuso nel proprio viaggio psicologico in cui analizza se stesso, la società, il mondo, la propria vita spirituale, trovandosi sempre e comunque impotente davanti a eventi esterni, come Gregor Samsa che, ridotto a un immondo insetto, non riesce né a comunicare con la propria famiglia né a trovare altra dimora che la propria stanza, che diverrà sua tomba.
A mio dire apice della sua letteratura la troviamo nel romanzo Il processo, purtroppo incompiuto, anche se, fortunatamente, abbiamo comunque la parte finale.
Pubblicato nel 1925, a un anno dalla morte di Kafka, è forse, almeno per coloro che hanno letto le lettere dell’autore, il romanzo più intimo dello scrittore cecoslovacco. Tratta la vicenda di Josef K., impiegato come procuratore presso una banca che, da un giorno a un altro, si trova arrestato e sottoposto a un lungo e bizzarro processo senza che lui né conosca la ragione.

Questa trama già riassunta così richiama in tutto la condizione umana: si nasce e si è costretti a operare in una società di doveri, senza sapere perché, senza avere via di uscita. Bisogna andare solo avanti, continuamente osservati, messi alla prova, senza sapere di chi fidarsi.
Inutile far cenno all’analogia che c’è fra la prima lettera del cognome del protagonista (cognome mai dichiarato per intero nel testo) e quella del cognome di Kafka. In alcuni tratti la figura di Josef K sembra persino richiamare quella di Kafka.
Tralasciando questo particolare e senza neppur badare all’odio che Kafka ha sempre mostrato nei confronti dei lavori fatti per sostenersi, persino quando l’amico e giornalista Max Brod gli trovò un comodo impiego in una compagnia di assicurazioni, ciò che emerge dalle pagine di questo capolavoro è la disperata impotenza di un uomo dinnanzi a una vita che non può comandare: la propria vita! Un’esistenza che si svolge senza che lui ne sia il padrone e senza che ne capisca il senso, il fine ultimo.
Potrebbe apparire follia ed esagerazione la vicenda di Josef K., ma solo per un cuore disonesto. Perché chi si guarda nell’intimo sa di essere come Josef K.
E se domani il vostro capo decidesse di licenziarvi? Se domani la società decidesse di mettervi in galera? Se domani vi trovaste accusati pur non avendo commesso alcuna colpa?
E c’è davvero una colpa? Potreste non sospettare di aver sbagliato qualcosa? A cosa credereste?
Probabilmente ogni vostra certezza cadrebbe, non capireste nulla della vostra vita, proprio come Josef K.

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché una mattina, pur non avendo fatto niente di male, fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che gli portava la colazione tutti i giorni verso le otto, quella mattina non si presentò. Non era mai successo. K. aspettò ancora un poco, dal suo guanciale vide che la vecchia che abitava di fronte lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita in lei, poi, stupito ma anche affamato, suonò il campanello. Subito dopo bussarono alla porta ed entrò un uomo che non aveva mai visto in quella casa. Era snello ma di costituzione robusta, portava un vestito nero attillato, provvisto come gli abiti da viaggio di molteplici pieghe, tasche, fibbie, bottoni e di una cintura, sicché, anche senza che ci si potesse spiegare la sua utilità, appariva particolarmente pratico. «Chi è lei?», chiese K. sollevandosi fino a mettersi seduto nel letto. L’uomo sorvolò sulla domanda, come se la sua comparsa andasse accettata senza discutere, e si limitò a chiedere: «Ha suonato?». «Vorrei che Anna mi portasse la colazione», disse K., cercando di capire, dapprima con silenziosa attenzione e riflessione, chi fosse quell’uomo. Ma questi non si espose a lungo al suo sguardo, si girò verso la porta e ne aprì uno spiraglio per dire a qualcuno che doveva essere appostato dietro la porta: «Vuole che Anna gli porti la colazione». Seguì una risatina nella stanza accanto, dal suono non era chiaro se provenisse da una o più persone. Benché l’estraneo non potesse avere appresso nulla che non sapesse già da prima, si rivolse a K. con tono di notifica: «È impossibile». «Questa è una novità», disse K., saltò giù dal letto e rapido si infilò i pantaloni. «Voglio proprio vedere chi c’è nella stanza accanto e come si giustificherà la signora Grubach per questo disturbo». Gli venne subito in mente che non avrebbe dovuto esprimersi ad alta voce, e che così facendo in un certo senso riconosceva all’estraneo un diritto di sorveglianza, ma al momento non gli parve una cosa importante. L’estraneo, comunque, recepì le sue parole proprio in tal senso, perché disse: «Non preferisce piuttosto rimanere qui?». «Non voglio né rimanere qui né che lei mi rivolga la parola finché non si sarà presentato». «Lo dicevo per il suo bene», disse l’estraneo, che ora si decise ad aprire la porta.

Queste sono le prime due pagine de Il processo. L’attacco inziale richiama in tutto e per tutto il capolavoro La metamorfosi: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché una mattina, pur non avendo fatto niente di male, fu arrestato”.
Senza giri di parole, senza fronzoli, la situazione è immediata e drammatica; e lo diviene sempre più man mano che andiamo avanti nella lettura.
Josef K. non è stato arrestato e condotto in galera, no, si è svegliato come ogni mattina ma si è trovato in prigione nella propria stanza, nella propria vita quotidiana, in balia di uno sconosciuto e spiato dai vicini di casa che fino a qualche istante prima giudicava insospettabili.
Come prima cosa vorrebbe chiedere spiegazioni, ma un istante dopo rivuole le proprie abitudini: Vuole Anna! Vuole che gli si serva la propria colazione. Ma lo sconosciuto, quasi deridendolo assieme a un proprio amico, addirittura assente alla faccenda, quasi la prigionia di K. per entrambi non contasse nulla, gli dice che non è possibile. Non solo, quando lui accenna a ribellarsi lo sconosciuto gli fa capire che forse, per il suo bene, sarebbe bene se si calmasse e accettasse di restare lì.
In queste due pagine cariche di dettagli, com’è tutta la letteratura di Kafka, ogni cosa non è lasciata al caso: le descrizioni, gli ambienti, il vestiario, i dialoghi. Kafka ci porta subito nel pieno del dramma: Josef K. è in prigione e gli si chiede di accettarlo, di preferire persino la prigionia alla libertà. E nel trovarsi di colpo in prigione, proprio lì nella propria intimità, capisce che ogni sua abitudine, ogni certezza, non esiste più.
L’illusione di essere liberi che oggi viviamo più che mai, ma che può esserci portata via in un soffio, con un licenziamento, con un lutto, con un terremoto, con una pandemia.
E cosa si fa quando si viene privati delle proprie certezze, delle proprie cose? Ci si appiglia alla propria identità, ma spesso si scopre che essa è fasulla, solo una maschera posta sulla nostra reale condizione.

«Ecco i miei documenti di riconoscimento, ora mi mostrino i loro e soprattutto il mandato di cattura». «Santo cielo!», disse il sorvegliante. «Che lei non sappia rassegnarsi alla sua situazione e faccia di tutto, a quanto pare, per irritarci senza motivo, proprio noi che siamo forse le persone più vicine a lei in questo momento!». «È così, ci creda», disse Franz, e invece di portare alla bocca la tazza di caffè che teneva in mano lanciò a K. una lunga occhiata, probabilmente significativa e però indecifrabile. Senza volerlo K. si lasciò andare a un dialogo di sguardi con Franz, ma poi batté sulle sue carte e disse «Questi sono i miei documenti di legittimazione». «E a noi che ce ne importa?», esclamò il sorvegliante alto. «Lei si comporta peggio di un bambino. Dove vuole arrivare? Pensa forse di accelerare la conclusione del suo grande, maledetto processo mettendosi a discutere con noi sorveglianti di legittimazione e mandato di cattura? Noi siamo impiegati di basso livello, che non s’intendono di documenti di legittimazione e non hanno niente a che fare con la sua causa, salvo tenerla sotto sorveglianza dieci ore al giorno ed essere pagati per questo.

Siamo ancora nella stanza di Josef K., eppure la faccenda si fa più chiara. I documenti di K. non servono a nulla e i suoi sorveglianti non hanno bisogno di un mandato di cattura: a loro che importa di chi sia K.! Eseguono solo ordini. Anzi, K. dovrebbe smetterla di fare il bambino, accettare che il suo processo è inevitabile e smetterla di prendersela con loro che, poverini, hanno solo il compito di tenerlo d’occhio per dieci ore al giorno.
A queste parole come non pensare ai responsabili nelle fabbriche, ai direttori di banca, ai Team Leader nei call center?
Le legittimazioni di K. non servono a nulla. Lui non ha identità, non ha il diritto di essere libero, non può opporsi al grande processo che lo coinvolge e neppure può chiedere spiegazioni. Anzi, dovrebbe ringraziare i propri sorveglianti, capire che sono vicini a lui, suoi amici, suoi pari. E in fondo sono davvero suoi pari, solo un gradino più in alto di una piramide sociale e umana che si mostra pagina dopo pagina in questo romanzo.

In un angolo della stanza c’erano tre giovanotti intenti a guardare le fotografie della signorina Bürstner, che erano appuntate su una stuoia fissata alla parete. Alla maniglia della finestra aperta era appesa una camicetta bianca. Alla finestra dirimpetto c’erano di nuovo i due vecchi, a cui s’era però aggiunto un nuovo compagno: dietro di loro, notevolmente più alto di loro, stava un uomo con la camicia aperta sul petto che con le dita si stringeva e torceva il pizzetto rossiccio: «Josef K.?», chiese l’ispettore, forse solo per richiamare su di sé lo sguardo distratto di K. Questi annuì. «È molto sorpreso per gli avvenimenti di questa mattina?», chiese l’ispettore spostando con le mani i pochi oggetti che si trovavano sul comodino, la candela con i fiammiferi, un libro e un puntaspilli, quasi fossero cose di cui dovesse servirsi durante l’’udienza. «Certo», riprese K., pervaso dalla piacevole sensazione di trovarsi finalmente dinanzi a una persona ragionevole, con cui avrebbe potuto parlare di quella faccenda. «Certo, sono sorpreso, ma non poi molto sorpreso». «Non molto sorpreso?», chiese l’ispettore piazzando la candela al centro del comodino e disponendo le altre cose tutt’intorno. «Forse mi fraintende», si affrettò a notare K. «Voglio dire, – qui K. si interruppe e si guardò intorno in cerca di una poltrona. «Posso sedermi, vero?», chiese. «Non è consuetudine», rispose l’ispettore. «Voglio dire», stavolta K. parlò senza fare altre pause, «che sono in effetti molto sorpreso, tuttavia, quando si è al mondo da trent’anni e si è stati costretti a cavarsela da soli, com’è toccato a me, si è avvezzi alle sorprese e non le si prende troppo sul serio. Specialmente quella di oggi». «Perché specialmente quella di oggi?». «Non voglio dire che considero tutto uno scherzo, i provvedimenti presi mi sembrano davvero eccessivi. Bisognerebbe che vi avessero partecipato tutti i membri della pensione e anche tutti loro, la cosa andrebbe oltre i limiti di uno scherzo. Dunque non intendo dire che è uno scherzo». «Giustissimo», disse l’ispettore e controllò quanti fiammiferi c’erano nella scatoletta. «D’altro canto», proseguì K., e ora si rivolse a tutti, avrebbe persino voluto chiamare l’attenzione dei tre davanti alle fotografie, «d’altro canto la cosa può essere di grande importanza. Lo deduco dal fatto che sono accusato senza che io riesca a trovare la minima colpa di cui mi si potrebbe accusare. Ma anche questo è secondario, la domanda principale è: da chi sono accusato? Quale autorità conduce il procedimento? Loro sono funzionari? Nessuno indossa un’uniforme…
Mi fermo qui, anche perché scomporre le parti salienti di un romanzo di Kafka è impresa ardua, essendo la sua scrittura un crescente che conduce il lettore in un vortice pagina dopo pagina, frase dopo frase.
Finalmente K., sempre nella propria pensione, si trova al cospetto di un ispettore e non più dinnanzi alle due guardie, eppure quest’uomo sembra ignorarlo, come se K. fosse uno dei tanti, un nome, appena una lettera dell’alfabeto.
La domanda cruciale Kafka la pone da subito: non di cosa sono accusato, ma da chi sono accusato.
Se a fatica possiamo accettare la colpa senza comprenderne la ragione, possiamo smettere di chiederci chi sia il nostro carnefice?
Attribuiamo l’ingiustizia della vita a Dio, a diavolo, a qualsiasi fattore esterno, visibile o intangibile, e persino a noi stessi, eppure in ogni scienza, in ogni psicologia, in ogni fede non troviamo mai ragione certa.
E se non ci fosse un motivo? Se non ci fosse nessuno, neppure noi stessi, da accusare per la condizione umana gremita di sofferenza?
Sarebbe da impazzire!
Persino nel grande sofferente della Bibbia, Giobbe, infine, seppur al suo dolore sembri non esserci spiegazione, essa viene fornita sotto forma di incomprensibile volontà divina, una certezza forse effimera, ma pur sempre un certezza per chi crede in qualcosa.
È il volere di Dio che ha punito Giobbe. Ma K. da chi è stato punito? Perché la sua prigionia?
Mentre K. dovrà comunque adempiere ai suoi doveri lavorativi e sociali, il romanzo ci porta nel ventre del suo infinito processo in cui le domande saranno sempre due: Perché e per colpa di chi?
Non sono forse le stesse domande che ci facciamo quando soffriamo?
K. si troverà a dover lottare per la propria libertà, sapendo di essere in arresto, eppure vivendo la vita di ogni giorno. Si troverà a dover lottare per la propria libertà senza sapere neppure di cosa lo si accusa. Vagherà in un mondo bizzarro, formale e tremendamente burocratico celato dietro ogni anfratto della città e della vita che credeva di conoscere. Un mondo dove tutti, nessuno escluso, sono carnefici e vittime di qualcuno. Una gerarchia infinita, una piramide di cui non si scorge la fine
In ogni personaggio, in ogni dialogo Kafka ci mostra qualcosa in più, ma senza mai palesarlo.

«Mi accompagni», disse K., «mi faccia strada, da solo non la troverei, ci sono tanti percorsi qui». «C’è un solo percorso», disse l’usciere…
O ancora…
«Non si preoccupi», disse, «non è nulla di insolito qui, quasi tutti sono colti da un simile malore quando vengono per la prima volta qui. Per lei è la prima volta? E allora non c’è nulla di strano. Qui il sole picchia sull’impalcatura del tetto, ed è il legno cocente a rendere l’aria così stantia e pesante. Questo posto dunque non è molto adatto a ospitare uffici, anche se peraltro offre grandi vantaggi. L’aria, tuttavia, nei giorni di grande affluenza delle parti, cioè praticamente tutti i giorni, è appena respirabile. Se poi considera che qui vengono pure stesi ad asciugare i panni – non si può vietarlo del tutto ai condomini –, non si meraviglierà più di essersi sentito poco bene. Alla fine comunque ci si abitua perfettamente a quest’aria. Quando verrà qui per la seconda o la terza volta non proverà più questo senso di soffocamento.
Dialoghi che possono apparire bizzarri, proferiti da persone apparentemente altrettanto strambe, racchiudono l’essenza del mondo, della società e della vita.
Lì dove ci sono tante vie, in verità ne esiste solo una, non se ne possono percorrere altre. Così come in un unico edificio si mischiano la quotidianità delle famiglie e il mondo lavorativo, un ambiente dall’aria irrespirabile tanto è angusto e pieno di persone, un’aria che ci si deve abituare a respirare.
La scrittura di Kafka è pura accusa contro la spietata formalità della società, contro le sue regole asfissianti, contro un mondo in cui l’uomo non è altro che uno schiavo, privato persino di un nome.
Ma qual è la colpa? Sempre, in ogni pagina, ritorna questa domanda: è La Domanda! La domanda che K. continua a porsi nel suo viaggiare, cercando di vincere una causa di cui non conosce nulla, da cui non sa neppure come difendersi né da chi doversi proteggere. Può solo provare a capire la propria colpa, quasi dovesse dare per scontato che lui sia colpevole, in quanto accusato

Oggi K. non provava più alcuna vergogna, la memoria doveva essere fatta. Se non trovava tempo in ufficio, cosa più che probabile, avrebbe dovuto farla di notte a casa. Se le notti non fossero bastate, avrebbe dovuto prendere ferie. In nessun caso bisognava fermarsi a metà strada, era la cosa più insensata che si potesse fare, non solo negli affari, ma sempre e dappertutto. Certo, la memoria comportava un lavoro pressoché interminabile. Non occorreva avere un carattere molto apprensivo per arrivare a credere che fosse impossibile riuscire a portare a termine la memoria. Non per la pigrizia o la slealtà, che sole potevano impedire all’avvocato di compierla, ma perché nell’ignoranza dell’attuale imputazione e delle sue possibili estensioni bisognava rievocare, esporre ed esaminare sotto tutti gli aspetti l’intera vita, includendo le azioni e gli eventi più banali. E com’era triste, per di più, un simile lavoro.
Per trovare la risposta alla domanda, per comprendere di cosa si è accusati, bisogna fare memoria, ecco la sola via. Ma il lavoro ci distoglie da questo compito, ci impedisce di scavare in noi. Inoltre, se non si conosce l’imputazione, per scovare la colpa bisogna guardare a fondo ogni tassello della propria esistenza, un lavoro duro e che fa male.
Il viaggio di K. è un peregrinare in se stesso. La sua difesa si muove nelle cellule più recondite della propria vita a cui cerca di giungere, senza neppure riuscire a sfiorarle. La ricerca della verità per comprendere la realtà di se stesso, per capire quel processo che lo coinvolge, che adesso è la sua stessa vita a cui si assoggetta ogni altro evento, ogni persona sul suo cammino.
Conta solo andare avanti nel processo, fino alla fine.

Quando ho un numero sufficiente di firme di giudici sull’attestazione, vado dal giudice che in quel momento ha in mano il suo processo. Può anche darsi che io abbia già la sua firma, in tal caso tutto procede ancor più rapidamente del solito. In generale a quel punto non vi sono più molti ostacoli e per l’imputato è il momento della massima fiducia. Strano ma vero, in quel periodo le persone sono più fiduciose che non dopo l’assoluzione. Non servono altri sforzi particolari. Con l’attestazione il giudice possiede la garanzia di un certo numero di giudici, può assolverla con la massima tranquillità e senza dubbio lo farà, una volta sbrigate diverse formalità, per fare un favore a me e ad altri conoscenti. Quanto a lei, esce dal tribunale ed è libero». «Allora sono libero», disse K. esitante. «Sì», disse il pittore, «ma solo apparentemente libero, o meglio, temporaneamente libero. Infatti i giudici di grado inferiore, tra i quali rientrano i miei conoscenti, non hanno il diritto di assolvere definitivamente, questo diritto è un’esclusiva del tribunale supremo, che è del tutto irraggiungibile, per me, per lei e per noi tutti. Come stiano le cose lì non lo sappiamo e, detto per inciso, non vogliamo nemmeno saperlo. I nostri giudici non detengono dunque il grande diritto di liberare dall’accusa, detengono tuttavia il diritto di sciogliere dall’accusa. In altre parole, se lei viene assolto in questo modo, l’accusa è momentaneamente revocata, tuttavia essa continua a pendere su di lei e può diventare operante non appena arrivi l’ordine superiore…
Questa parte è una delle mie preferite, agghiacciate e brutale nella sua schiettezza.
K., come chiunque venga accusato, non potrà mai essere libero. La sua libertà sarà sempre temporanea, effimera. Il processo, anche dopo un’assoluzione, continuerà sempre. Ci sarà per tutta la vita un giudice supremo e sconosciuto che veglierà su di lui, una condanna che come spada di Damocle penderà sempre sulla sua testa.
Una simile condizione, rapportata nella quotidianità degli esseri umani, è forse quanto di più atroce possa esistere. È l’assenza di libertà, qualcosa peggiore di ogni condanna, di ogni morte.
Questa verità, la sola e unica che a K. è dato conoscere, rappresenta la continua lotta umana contro la sofferenza, contro l’ingiustizia, contro la frustrazione, contro l’infelicità, e al tempo stesso è la perenne ricerca del senso della vita, del nostro esistere sulla terra.
Il processo di Kafka non è un libro ordinario, va al di là persino di quello che si definisce capolavoro letterario, è un viaggio intimo, doloroso e asfissiante nella vita dell’essere umano. Un viaggio spietato e claustrofobico in cui non ci sono appigli per reggersi durante la discesa, non uno spiraglio dove prendere aria. È un viaggio in cui il termine empatia, tanto amato quando si parla di narrativa, perde ogni senso, perché tale parola è riduttiva in confronto a ciò che si prova leggendo la vicenda di K. Il suo viaggio è il nostro, ci parla anche se non ci piace ascoltarlo. Così come il finale di questo meraviglioso libro è quello che più temiamo per la nostra vita.
Mi dispiace essermi dilungato, ma la scrittura di Kafka non può essere estrapolata a caso come altri libri, la sua scrittura è una spirale in cui bisogna tuffarcisi per capirla, e spero che voi possiate finalmente recuperare questa perla della letteratura.