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Romanzo Piciul

Edito da Linea Edizioni nel novembre del 2021, Piciul è il primo romanzo che ho pubblicato dopo il mio percorso di studi presso Lalineascritta. La prefazione è stata scritta dalla mia maestra di scrittura creativa, Antonella Cilento, e la sua uscita è stata anticipata da un generoso articolo su La Repubblica.
Distribuito da Messaggerie è ordinabile presso tutte le librerie fisiche o negozi online.
Piciul narra le vicende di cinque adolescenti rumeni che vivono nei vicoli a ridosso della Stazione Centrale di Napoli: Horia, Blanca, Damin, Vali e Dorin; cinque ragazzini cresciuti insieme tra emarginazione, delusioni, dolori ma anche sogni.

Forse, come ha scritto Antonella nella sua prefazione: un punto di vista diverso su una Napoli fin troppo raccontata.

Di seguito un piccolo estratto.

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Un vero incontro di pugilato: Giulio Milani VS Antonio Franchini

Giorni fa sulla pagina Facebook Gli Imperdonabili, movimento fondato da Giulio Milani, editore della storica Transeuropa, casa editrice che nel 1994 ha pubblicato il fortunato esordio di Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, abbiamo assistito a un confronto di natura epica: Giulio Milani ha parlato di letteratura e di editoria con colui che assieme ad Alberto Rollo è di certo il più famoso redattore editoriale vivente, Antonio Franchini. Un lungo confronto moderato da Peter Genito in cui i due non si sono risparmiati in nulla.

Entrambi non hanno bisogno di presentazioni, sono scrittori e redattori navigati. Mi limito a dire quanto sia pittoresco e istruttivo un simile confronto fra due persone molto diverse: in un angolo del ring, un redattore che dopo aver dato vito alla collana Wildworld per Transeuropa, ha fondato con alcuni suoi autori il movimento degli Imperdonabili, scagliandosi a spada tratta contro ogni tipo di lobby editoriale; nell’altro angolo, il redattore che per ben quindici anni ha tenuto le redini della narrativa italiana di Mondadori, facendo collezionare alla casa editrice milanese numerose vittorie al Premio Strega e ricordato anche per aver scoperto casi editoriali come Paolo Giordano e Roberto Saviano.

Insomma, due personalità agli antipodi. Due professionisti e uomini di grande cultura.  

Conoscendo entrambi, non dico la mia, preferisco vediate da voi questo bellissimo confronto ricco di colpi di scena e di ribaltamenti, sicuro che lo troverete illuminante.

Per vedere il video, cliccate sul riquadro nero in basso, alla voce: Guarda su Facebook.

L’importanza delle parole: sussurri mischiati per rendere tangibile l’invisibile

È triste vedere come oggigiorno la lingua italiana sia continuamente svenduta, mercificata. Non si tratta soltanto di una questione stilistica, tanto meno di un lessico ridotto sempre più all’osso, è proprio il senso intrinseco della lingua italiana a essere stato deturpato, ciò di cui è formata: le parole.

Alcuni credono che l’inventare nuovi termini, come petaloso, oppure modernizzare alcune frasi equivalga a un vilipendio della nostra lingua, una storpiatura delle nostre preziose parole. In parte è così, ma non credo affatto sia questo il problema. Il vero dramma comincia lì dove ci si crede capaci di impadronirsi delle parole. Usarle a proprio piacimento, catalogarle, ridurle persino a uno strumento di vile mercificazione.

Si parla tanto di parole, di lingua italiana, eppure per la parola scritta continua a non esserci rispetto. In TV, ad esempio, vediamo presentatori e presentatrici poco avvezzi alla lettura mettere bocca sulla nostra lingua. In una misera ora di girato si ha la pretesa di spiegare quanto si apprende in anni di filologia. Assistiamo a comici che non hanno soltanto la pretesa di recitare un sommo poeta quale Dante, ma di spiegarlo, senza avere la preparazione culturale per farlo.

Tutto questo mostra con quale mancanza di rispetto ci si avvicina alla cultura, soprattutto alla cultura letteraria. In questo tempo dove tutti credono di poter mettere bocca su tutto, e farlo senza formarsi, di certo la nostra lingua non è stata risparmiata; anzi, essendo essa formata di parole sembra qualcosa di facilmente ingabbiabile, manipolabile. Dunque si parla di libri, senza averli mai letti. Si parla di film, senza averli mai visti. Si cita Dante, deformando il senso delle sue parole. Si interpreta a proprio piacimento qualsiasi dottrina, credendo di poterla assimilare in un tempo di poco superiore a quello di un pasto.

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Progetto editoriale: Cattedre, vicoli e polacche

Devo dire che il nostro primo incontro, con lei, la polacca, avvenne in modo atipico e del tutto inatteso. Sceso in mutande dalle scale del soppalco, al buio, diretto in cucina per prendere una birra e sfuggire dalle risate e dalle urla di Irina e Svetlana, nel voltarmi la vidi: era un culo!

Avevo già notato in precedenza la luce accesa nell’appartamento di fronte, praticamente incollato al mio salotto, ma non avevo mai visto nessuno al suo interno, solo un cucina linda, immacolata, nuova di zecca.

E adesso davanti a me c’era un culo.

Dapprima mi stropicciai gli occhi. Forse era colpa della stanchezza. Magari tutta la situazione di Gennarino Piscopo e Rosaria Potenza mi aveva sconvolto, forse era colpa delle stronzate comuniste di Renato Curcio.

Non poteva essere un culo vero!

Di certo indossava una tuta, un fuson, un pantaloncino. Ma poi guardai bene, aguzzai la vista: era proprio un culo quello davanti a me, un culo da donna, un culo tondo, all’apparenza morbido, appetitoso.

La spiai svanire in fretta nell’altra stanza, ma non mi mossi, restai lì in attesa, e quando tornò aveva ancora il culo fuori. E il pezzo davanti. Cucinava con addosso solo una maglietta, incurante di me che la studiavo con ingordigia.

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Diamo il giusto nome alle cose: l’arte è qualcosa di sacro

Ogni giorno mi chiedo quale sia il senso della mia vita, non solo, mi domando che senso ci sia nella vita stessa. Siamo animali, solo questo, e come tali votati alla mera sopravvivenza? Siamo semplicemente cose di carne destinate a perire?

Questo cervello, questo cuore, queste mani, questi polmoni, questo stomaco, tutto questo me stesso che ora scrive e pensa e piange e vive sono davvero io, o è solo un contenitore, carne e ossa e nervi e vene che un giorno marciranno?

Stupidaggini, pensieri inutili. Eppure i libri rimasti nella storia contengono proprio queste sciocchezze. Non la forma, non la storia, non la lingua li hanno resi immortali, ma queste verità che sin dagli albori della vita definiscono il percorso dell’essere umano: chi sono, da dove vengo, dove vado?

Senza queste riflessioni non esiste creatività, né arte, né vita.

Ogni giorno penso a queste cose. Ogni giorno penso al senso della mia vita: se la mia sia davvero vita, o animalesca sopravvivenza. Ogni giorno penso a cosa resterà di me, a quanto mi resta, a cosa ho fatto, a cosa faccio e dove sto andando. Ogni giorno penso alla vita, dunque inevitabilmente penso alla morte.

Oggigiorno è scandaloso pensare alla morte, è una cosa cupa, brutta, da nascondere. Non si muore più in casa, ma negli ospedali. I morti devono essere separati dai vivi, occultati, il fetore della decomposizione deve essere celato dal candore del marmo, da fiori profumati, da una fotografia sorridente: immagine artefatta di tutti i nostri tormenti.

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Che io chiamo arte: Marosia Castaldi, una scrittrice che merita giustizia

Con Franz Kafka abbiamo mostrato più di una volta quella che potremmo definire la cecità editoriale, o forse sarebbe giusto dire che non si tratta di cecità, quanto di una vista sin troppo acuta ma indirizzata a ciò che richiede il mercato: dare al popolo il prodotto che domanda anziché educarlo alla bellezza.

Più volte ho esposto il mio pensiero, ovvero il non essere contrario alla letteratura di intrattenimento e persino alle autobiografie, spesso autocelebrative, scritte da qualche Ghostwriter per il vip di turno. Non sono questi i problemi dell’editoria, lo ricordo ancora una volta, il problema sussiste quando il livello qualitativo di ciò che viene spacciato per letteratura cala in modo notevole.

La letteratura di intrattenimento o il libruncolo del vip non fa danno alcuno, anzi, potrebbe portare soldi alle case editrici e queste case editrici potrebbero investirli per pubblicare libri di alta qualità e dar spazio a nuove voci, magari difficili da piazzare perché poco affini alle richiesta del mercato, ma innegabilmente degne di essere pubblicate.

Purtroppo non sempre accade. A Kafka non è successo. Superato da incapaci, o comunque da scrittori meno geniali di lui, è morto da sconosciuto, come se non fosse il genio della letteratura che oggi tutti riconosciamo.

A mio dire il successo postumo è lo sbeffeggio a una vita di sofferenze e di umiliazioni, di rifiuti e di frustrazione, quasi una voce ipocrita sussurrasse al malcapitato: «Oh, ci scusi tanto, ci dispiace che lei abbia sofferto, fatto lavori che detestava pur di tirare avanti mentre vedeva altri meno bravi di lei passarle davanti. Ci perdoni per averla lasciata a morire da solo, non avevamo capito il suo genio. Ne siamo davvero spiacenti».

Il vaffanculo ci starebbe tutto, no?

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Deridere il mondo per mostrare la dolorosa verità: ‘E ppatane so’ bbone cotte!

Raccontare un’epoca in cui regna il disincanto e dove il perseguimento di un ideale è pura illusione di avere un ideale da rincorrere, non è facile, l’ho detto più volte, si rischia di diventare melensi, di esagerare. Allora si cerca sempre di renderla affascinante questa nostra realtà e nel farlo la si camuffa, la si contorce. Qui a Napoli, poi, siamo pieni di scribacchini che campano di luoghi comuni, di pizze, sfogliatelle, il vicinato gentile e ‘o Vesuvio ‘e ‘stu cazz!

O camorra o speranza che affiora anche nel più misero vicolo: criminalità oppure Peppeniello cu ‘a pizza a portafoglio n’man e magari ci mettiamo pure ‘o barbone saggio ca’ dice: «Comme ven’, accussì c’ha pigliammo, diceva ‘a nonna».

Non è il volto di Napoli, non è il volto della nostra epoca appiattita, svuotata e ridotta a un freddo dedalo di cunicoli in cui tutti corrono e corrono inseguendo il bisogno di sentirsi speciali, quando invece non esistono lotte, rivoluzioni, passioni epiche e grandi imprese da raggiungere, che siano esse materiali o intellettuali. Esistono invece i soldi che sono indispensabili, lavori odiati da svolgere per portare “il piatto a tavola”, anni e anni di vita che scorrono per poi non lasciare alcuna traccia.

Dunque o si sfocia in tragedie colme di affabulazione, oppure si punta all’individualismo: raccontare il singolo dramma famigliare di un individuo e ridurre la società a un ristretto numero di persone.

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