Abbiamo già parlato in precedenti articoli di come Georges Simenon sia stato un vero maestro nel tracciare il profilo psicologico dei suoi personaggi, persino di quelli apparentemente meno rilevanti in una storia. È nota a molti la sua minuziosità nel raccogliere informazioni simultaneamente per più progetti, per anni accumulava note, dettagli, intere biografie sui suoi personaggi in delle cartelline e poi, una volta pronto, si metteva all’opera e finiva in due settimane un romanzo, forte di una conoscenza totale delle sue creature.
Un bello scacco per tutti i presuntuosi che si vantano di terminare in un mese un romanzo, e non perché Simenon ci mettesse la metà del tempo, affatto, ma perché per riuscirci aveva alle spalle uno studio scrupoloso durato anni.
Cosa sappiamo della letteratura algerina? Come immaginiamo la letteratura algerina?
Se ogni scrittore degno di questo nome, qualsiasi sia il suo genere, scrive sempre a partire da se stesso, dal proprio quotidiano, cosa significa essere uno scrittore algerino oggi?
Una risposta concreta la troviamo nella scrittura della bravissima Assia Djebar, pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayène, scrittrice, poetessa, saggista, regista e sceneggiatrice algerina nata nel 1936 a Cherchell e morta a Parigi nel 2015, un nome purtroppo sconosciuto a molti qui in Italia, nonostante sia a oggi considerata una delle più capaci scrittrici nordafricane e prima autrice del Maghreb a essere stata accettata all’Académie française. Continua a leggere un popolo che resta vivo grazie alla memoria delle sue donne→
Provo sempre una forte tristezza quando vedo bravissimi scrittori dimenticati dalla massa e, peggio, superati in fama da autori commerciali, quelli di cui vediamo i mattoni esposti in bella vista negli autogrill, per capirci. Fra questi non posso fare a meno di pensare al bravissimo Sándor Márai, scrittore e giornalista ungherese naturalizzato statunitense, nato nel 1900 e morto nel 1989.
Il suo nome a molti non dirà di certo nulla, eppure le sue opere sono state tradotte qui in Italia dalla prestigiosa Adelphi.
Di origini aristocratiche, ha conosciuto la povertà poco prima degli anni trenta. Mal visto dal regime nazista e, dopo la Seconda Guerra mondiale, perseguito anche dai comunisti, nel 1948 fu costretto a lasciare l’Ungheria assieme a sua moglie Ilona Matzner, donna di origini ebraiche. Non voglio dilungarmi ulteriormente sulla vita di Márai, ho voluto semplicemente accennarvi quanto sia stata strana e travagliata la sua vita solo perché questo aspetto traspare pienamente nei suoi testi.
Autore di circa settanta libri fra romanzi, racconti e poesie, ha raggiunto la piena fama grazie al libro Confessioni di un borghese, pubblicato nel 1934 in Ungheria.
Con ogni probabilità il romanzo che lo ha reso celebre qui in Italia è invece Le braci, edito in Ungheria, senza successo, nel 1942, e poi ripubblicato successivamente nel 1990, otto anni prima che fosse pubblicato qui in Italia da Adelphi. Continua a leggere Sándor Márai: l’intimità dei ricordi→
Il mio primo romanzo, Viola come un livido, edito nel 2013 dalla Damster edizioni in versione digitale e, posizionatosi terzo all’Eroxè Context, pubblicato in cartaceo nel 2014 è nato praticamente da solo, scritto in un paio di mesi con tutta la passione e la follia di un cuore innamorato ma tanto, davvero tanto, immaturo. Prima di allora scrivevo solo racconti acerbi e sgrammaticati, a dirla tutta, eppure già avevo dalla mia quella che dovrebbe essere una delle doti fondamentali per uno scrittore: la costanza.
Potrei definirlo un piacevole esperimento e, cosa più importante, lo strumento che mi ha fatto entrare nell’ottica di scrivere anche per un pubblico.
Una storia piacevole da cui traspare tutta la mia ingenuità, l’incapacità di chi è alle prime armi, la mancanza di un forte bagaglio letterario, ma anche il bisogno di dire qualcosa e usare la narrativa come mezzo per farlo.
Commovente per alcuni, romantico o divertente per altri, io lo vedo oggi, a distanza di sei anni, come un piccolo inizio che ho voluto lasciare in commercio, diversamente dalle seguenti pubblicazioni.
Come spesso succede, dopo l’uscita del mio primo romanzo sono stato preso dalla smania di pubblicare, nemica in agguato per ogni esordiente. Dal 2014 fino al 2016 ho pubblicato altri sette romanzi con tre diversi editori: Damster, Lettere animate e Meligrana; praticamente tre romanzi l’anno.
Oggi provo quasi tenerezza per l’autore frettoloso e incosciente che ero. Nel rileggere i vecchi testi, prontamente tolti dal commercio, vedo solo pagine e pagine di inutili digressioni atte a cercare di rappezzare una trama scarna e una prosa piatta.
C’è però da dire che quei due anni sono serviti a insegnarmi a scrivere ogni giorno.
Come ho già detto, prima ancora dei romanzi scrivevo racconti. Ho partecipato a diverse antologie e ne ho curate due, prima fra queste Zero, redatta insieme alle scrittrici Elisa Bellino e Maddalena Costa ed edita dalla Damster.
La seconda, invece, Macerie, pubblicata dalla Les Flâneurs Edizioni e di cui sono stato curatore insieme alla scrittrice Maddalena Costa e allo scrittore Claudio Santoro, aveva lo scopo di raccogliere fondi per le vittime del sisma avvenuto ad Amatrice nel 2016. È stata la mia ultima pubblicazione prima di iniziare gli studi presso la scuola di scrittura creativa Lalineascritta, fondata dalla scrittrice Antonella Cilento.
Nel 2016, iniziati gli studi presso Lalineascritta, ho smesso di rincorrere le pubblicazioni facili e mi sono concentrato soltanto sullo studio della scrittura creativa e sulla lettura dei grandi maestri della letteratura, seguito con zelo da Antonella Cilento.
Pur continuando a lavorare a nuovi romanzi, sono tornato a dedicarmi prevalentemente ai racconti, alcuni dei quali sono stati valutati da Antonio Franchini, Giulia Ichino, Manuela La Ferla e Bruno Nacci.
La prima pubblicazione dopo un silenzio editoriale di circa un anno è avvenuta del 2017 con due racconti brevi editi sul quotidiano Il Roma e intitolati dalla redazione Amoressia in punta di forchetta e Sagome nella notte nella camera azzurra, entrambi scritti come omaggio a due romanzi del maestro Georges Simenon.
Durante il triennio presso Lalineascritta tra i lavori a cui mi sono dedicato spicca Piciul, romanzo editato insieme ad Antonella Cilento.
Alcune pagine di un altro romanzo, La finestra chiusa, riscritto da zero ben tre volte e concluso in prima stesura al termine del mio percorso presso Lalineascritta, sono state lette al termine del terzo anno di scrittura creativa da Antonio Franchini che le ha valutate positivamente.
Allo stato attuale, oltre ai due suddetti romanzi, ho terminato altri tre romanzi, di cui uno in collaborazione con l’attrice e presentatrice Noemi Gherrero, e mi sto dedicando a un romanzo sperimentale. Convocato dall’amica e scrittrice Olympia Fox ho partecipato all’antologia Il grande racconto di Renoir, dando il mio contributo con il racconto Fotografie ingiallite.
Ho inoltre scritto tre drammaturgie, due sceneggiature cinematografiche e sto lavorando a un soggetto ideato dalla Gherrero per redigere trattamento e sceneggiatura di un Teaser.
Negli ultimi anni qui in Italia in ambito editoriale, se così si può definire, ha preso piede in modo esponenziale la figura chiamata editor: ossia il curatore editoriale, una professione da sempre esistita ma oggi, forse grazie al termine figo d’oltreoceano, pari a qualcosa di mistico.
A memoria credo che da circa sette anni questo termine sia sulla bocca di tutti, sciupato, abusato, deformato, proprio come succede a ogni cosa diffusa in modo approssimativo nel grande calderone del web, dove tutti possono attingere prendendo solo il necessario senza scavare mai all’origine di ogni nozione.
Sembrerà strano ma la figura del curatore editoriale è sempre esistita qui in Italia, dai tempi della fondazione di case editrici storiche quali Mondadori, Feltrinelli, Einaudi e molte altre: il tempo in cui editoria e letteratura ancora camminavano a braccetto.
Nel tempo questa figura, inizialmente inquadrabile come il redattore, si è sviluppata e definita, ha acquisito ruoli sempre più specifici, così da aiutare a velocizzare, senza ledere in qualità, la produzione di un libro. Ma parliamo di un tempo in cui fondatori, soci e collaboratori delle varie realtà editoriali erano quasi tutti intellettuali: termine oggi appioppato a chiunque spari luoghi comuni in televisione. In particolare gli anni successivi alla seconda guerra mondiale sono stati floridi di cambiamenti, per quanto difficili, per il panorama editoriale italiano: gli anni di GianGiacomo Feltrinelli, vero pioniere dell’editoria, uomo coraggioso che ha osato portare a noi capolavori quali Il dottor Zivago e Il Gattopardo, opere in cui nessuno credeva.
Tutto questo solo per definire il valore che allora veniva dato ai libri, all’editoria e dunque al lavoro svolto dal curatore editoriale, figura spesso ricoperta da celebri scrittori, critici raffinati e zelanti studiosi. Continua a leggere comici alle nazioni unite? no grazie, non in editoria→
Ci sono libri difficili da leggere proprio perché scritti benissimo. Per quanto scorrevoli, chiari, ogni pagina risulta una coltellata: fanno male, ti lacerano, ti cambiano.
È il caso del romanzo La vegetariana, capolavoro della scrittrice sudcoreana Han Kang, libro che le ha fatto vincere il Man Booker International Prize, fortunatamente per noi pubblicato dalla grandissima Adelphi nel 2007.
È la storia di Yeong – hye, giovane donna coreana che improvvisamente, senza apparente spiegazione agli occhi degli altri, decide di non mangiare più carne. Ed è proprio con gli occhi degli altri che vediamo la protagonista di questo libro, l’immagine di Yeong – hye è filtrata sempre dal punto di vista altrui: quello del marito, quello del cognato, e quello della sorella maggiore; un elemento che rende al lettore ancora più inquietante questa meravigliosa figura femminile, in quanto eterea, incomprensibile, e proprio a tal motivo vogliamo vederla, scorgere il segreto che si porta dentro e capirla; siamo totalmente negli occhi che la guardano, la scrutano, la vivisezionano. Continua a leggere la spietata bellezza di un personaggio invisibile→
Perché la scrittura non sia un mero esercizio tecnico o un’accozzaglia di pensieri sentimentali bisogna che essa contenga qualcosa di intimo, una pulsione che ci picchia nel petto come un secondo cuore.
Scrivere non è un hobby, non è un gioco, ma un bisogno: il bisogno di sputare fuori qualcosa che ci tormenta; la necessità di trasfigurare e rendere vivo un pensiero o un’immagine che non ci dà tregua, un’ossessione che esige di trovare vita e muore e si rigenera pagina dopo pagina, libro dopo libro. È quel nucleo atomico, per citare il grandissimo Julio Cortázar, che rende speciale anche una storia letta mille volte: perché le storie si ripetono, ma le ossessioni che ci portiamo dentro sono uniche.
Questo non vuol dire semplicemente scrivere con il cuore, un termine oggigiorno talmente abusato da essere ridicolo; che poi, come si fa precisamente a scrivere con il cuore? Cioè, ci si intinge dentro una penna, oppure si sbatte l’intero muscolo cardiaco sulla pagina? No, perché quando sento o leggo la suddetta frase immagino proprio una cosa del genere, infatti chi la utilizza, nel più dei casi, scrive centinaia di pagine di monologo interiore, simili a un adolescenziale diario segreto strabordante di frasi fatte e consigli di vita.
Scrivere guidati da un’ossessione non è questo: non significa dar libero sfogo ai propri sentimentalismi, ma avere un chiodo conficcato dritto in testa che preme continuamente; è afferrare il toro per le corna, per esprimersi alla Hemingway. Immortalare sulla carta i propri incubi e le proprie paure, come faceva l’inarrivabile Edgar Allan Poe.
Alcune volte un’ossessione può essere interminabile, continua a presente, come nel caso di Rosa Montero, magnifica autrice che in ogni sua storia è solita inserire inconsapevolmente la figura di una nana; oppure, nel caso del maestro Hugo, la necessità di accusare sempre e con forza la misera condizione dei poveri e degli emarginati. Persino oggi, e l’abbiamo visto con Domenico Starnone, alcuni autori, e direi fortunatamente, sono talmente ossessionati da un ricordo, da un’idea, da un immagine da riproporla costantemente e sempre con più forza come se, come già scritto, quell’ossessione fosse una cosa viva che si ingigantisce pagina dopo pagina. Continua a leggere Affrontare i demoni: il bisogno di scrivere.→
Come ogni anno ci avviciniamo alla finale di quello che è il premio letterario più importante, e discusso, italiano: Il Premio Strega.
Fondato nel 1947 da Maria Bellonci e Guido Alberti, il Premio Strega è alla sua settantatreesima edizione. Un premio che nella sua lunga vita ha visto tanti cambiamenti, basti pensare che fra i vincitori della prestigiosa competizione ci sono stati nomi come Cesare Pavese, Alberto Moravia, Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Giuseppe Pontiggia, Giovanni Arpino, Primo Levi, Umberto Eco e altri nomi sacri della letteratura italiana, ma, al tempo stesso, e soprattutto negli ultimi decenni, abbiamo visto come vincitori autori meno brillanti di questi colossi della letteratura; questo senza contare le numerose critiche – accuse o calunnie, non sta a noi dirlo – di cui è stato ed è oggetto il premio.
Fra i dodici partecipanti, e persino nella cinquina dei finalisti, abbiamo visto nomi molto discutibili, sia per formazione letteraria, sia per curriculum autoriale: fra cui persino chi ha scritto una sceneggiatura per un film di Moccia.
Certo, ognuno può scrivere il genere che più ama e nel modo più leggero, ovvio, ma quando si tratta di una competizione in cui sono stati premiati scrittori come Pavese, Pontiggia o Moravia, viene l’orticaria ad accostare a questi giganti della letteratura autori che al più fanno la cosiddetta letteratura d’intrattenimento; una cosa che in un certo senso sminuisce il prestigio di grandi scrittori.
Qualche giorno fa è stata ufficialmente comunicata la cinquina che concorre alla vittoria del Premio Strega:
Ha ancora un ruolo la letteratura nella nostra nuova condizione esistenziale? Non c’è dubbio che nel passato il suo ruolo si poteva vedere o percepire in modo esplicito: non tanto o non solo per lo spazio che la letteratura occupava (per esempio in libreria, sulle pagine dei giornali, nelle recensioni settimanalmente pubblicate), o per il tempo che alla letteratura veniva da molti dedicato con la lettura quotidiana, quanto soprattutto per ciò che la letteratura significava nell’immaginario collettivo.
Con la diffusione sempre più ampia e sempre più invadente degli strumenti di comunicazione digitale, che cambiano il modo di gestire il proprio tempo, e di vivere il tempo libero (si pensi alle e-mail o alle letture in internet, e in generale agli smartphone), e con la diffusione quasi incontrollabile dei social network, l’immagine della letteratura conosciuta nel passato sembra essersi molto modificata, se non venuta meno. Questo non significa necessariamente che non si leggano più testi letterari, ma che la letteratura non ha più il ruolo sociale di formazione o di conoscenza che aveva in passato. O almeno la letteratura come la conoscevamo. A questo si aggiunge il discorso sulle diverse forme che la letteratura può presentare nei blog o in altri luoghi della rete. Venendo meno il ruolo che le era riconosciuto, sono venute meno altre cose: per esempio una precisa distinzione della qualità della letteratura, per cui tutto ciò che viene pubblicato sembra avere lo stesso valore. E questo è un problema di informazione, di trasmissione di valori, che investe comunque l’editoria. Continua a leggere Passare attraverso i processi editoriali come una salamandra→